Simonetta Teucci - L’epistolario femminile di Laura Cereta tra cultura e impegno

 

Se nel Settecento le epistole sono uno strumento fondamentale per la diffusione delle idee e per la comunicazione tra gli intellettuali – da non dimenticare tra l’altro le Lettere accademiche[1] (1764) di Antonio Genovesi, il cui titolo sottolinea il genere letterario e al contempo evidenzia il dialogo, seppur a distanza, con Rousseau –, la tradizione epistolare presenta un’ascendenza antica nelle sue varie finalità e nei suoi plurimi destinatari. Basterebbe ricordare quanto meno Cicerone, Seneca e Plinio il giovane nella Roma antica, dalle cui lettere possiamo conoscere uno spaccato del loro tempo, delle situazioni politiche, dei loro rapporti familiari e interpersonali nonché delle problematiche esistenziali con le quali si confrontano. Da allora l’uso epistolare ha attraversato i secoli, tanto che lo ritroviamo in età medievale, per fare pochissimi esempi, nelle lettere di Abelardo ed Eloisa, nelle epistole dantesche, nel complesso e corposo epistolario di Petrarca, che lo accompagnò lungo tutta la vita fino alla soglia delle morte, visto che l’ultima lettera delle Senili, indirizzata a Boccaccio, porta la data del 4 giugno 1374, poco più di un mese prima della sua morte.

 

In età umanistica prosegue l’uso epistolare, latore di molteplici temi da quelli privati a quelli pubblici fino a quelli con finalità predicatoria, presente in particolare nelle lettere di santa Caterina, che per altro li affianca a quelli squisitamente politici. Cosa dire poi dell’epistolario di Francesco Filelfo (1398-1481), che scrisse a molti destinatari in latino, in greco e in volgare, e che è fondamentale per ricostruire la storia culturale del Quattrocento? E si potrebbe continuare attraverso i secoli. Qui interessa un epistolario particolare, raccolto alla fine del XV secolo a Brescia, uno dei centri culturali più vivaci del tempo e dove per un breve arco di anni operò Laura Cereta (1469-1499). Non deve meravigliare la presenza della scrittura femminile nell’ambiente bresciano, piuttosto attivo anche per la sua vicinanza a Venezia. Se Moderata Fonte (1555-1592)[2] e Lucrezia Marinella (1571-1653)[3] sono le scrittrici più conosciute, tanto da essere considerate le prime femministe o protofemministe[4] per la forza con cui difendono le loro convinzioni, forse meno indagata ma non meno significativa è Laura Cereta, che ha lasciato un interessante epistolario composto in latino tra il 1485 e il 1488.

Si tratta sempre di donne colte, appartenenti alla classe medio-alta e alta, che hanno preso o stanno prendendo consapevolezza del loro ruolo sociale e culturale sulla scia della Querelle des femmes, e affrontano temi teorici e culturali complessi e proprio per questo motivo molte scrivono in latino. Marina Zancan sottolinea che in letteratura esistono due prospettive diverse riguardo alle donne, una è quella che «osserva la figura femminile in quanto oggetto di rappresentazione», l’altra «analizza, invece, la figura femminile in quanto soggetto di scritture letterarie».[5] Nel caso di Laura Cereta siamo di fronte a una donna che è «soggetto» della sua scrittura e nelle sue 82 lettere presenta un ventaglio di temi e di riflessioni che la pongono in una posizione significativa nel panorama culturale del suo tempo. La sua scrittura, che si serve di un latino ben controllato ed elegante, alterna informazioni biografiche a interessi per l’astronomia, a polemiche contro le donne che pensano solamente all’apparenza e disdegnano la cultura, fino a prese di posizione di tipo religioso e morale, in linea con le discussioni allora esistenti riguardo alla moralizzazione dei costumi e alla diffusione del magistero di Caterina da Siena, predicato in quegli anni nel bresciano e nel milanese anche ad opera del frate Tommaso da Milano, che tra l’altro fu confessore e guida spirituale di Cereta. È Clara Stella che sottolinea la forte influenza cateriniana su Cereta; Caterina infatti «fu promossa fortemente dal vescovo di Brescia e dagli ambienti proto-riformati della provincia lombarda» tanto che

 

lo spazio sacro e le sue protagoniste, dalle sibille alle figure femminili testamentarie, sono utilizzati da Cereta per appropriarsi dello spazio culturale e intellettuale del suo tempo, ovvero per costruire la propria autorità non esclusivamente attraverso la mediazione di un textum letterario-filosofico maschile ma anche mediante l’ascolto del sapere femminile che, al contrario, si esprime in una vox non ancora istituzionalizzata ma certo ancora viva e palpitante.[6]

 

Il modello per l’epistolario di Laura, come del resto per quelli quattrocenteschi, era in primo luogo quello petrarchesco, che affrontava situazioni personali e familiari insieme a temi pubblici e politici, che raggiungevano un ampio pubblico ben al di là dell’interlocutore al quale erano indirizzate. I destinatari delle lettere di Cereta coprono uno spettro significativo della società bresciana: oltre al padre e al marito, si rivolge ad alcune donne con le quali aveva un vincolo di amicizia, ad alcuni intellettuali e scienziati bresciani e a uomini di Chiesa.

Laura stessa fornisce le notizie biografiche, che ci informano della sua vita e della sua educazione: nella lettera LIX a Nazaria Olympica (o Olimpia) del 1486 ci dice che era figlia dell’avvocato e magistrato bresciano Silvestro Cereto, e che, come accadeva al tempo, era stata educata dai 7 ai 9 anni in convento:

 

Per hoc ergo tempus, ut primum prima vix elementa in primas litterarum syllabas mittere subdidici, Foeminae, consilio & religione electissimae, credor, a qua erudienda, morum exercitiique disciplinam haurirem intentius. Haec me, in penetralibus monasterii reseratis perstrictisque vectibus centum admissam, delicate semper apud se habuit, licet pro acu ad picturam trahendo transfigere noctes insomnes me prima docuerit: […] Intra plenum ab ingressu biennium domum, inde evocante patre cum uno maerore omnium remeavi. […] Huic innixus vigor omnis ingenii, communes die, noctuque vigilias ultro devovit. […] Vale. Nonis Novemb.

 

Dunque durante questo tempo, non appena ebbi imparato a usare le lettere dell’alfabeto per comporre le sillabe, sono stata affidata a una donna nobilissima per intelletto e religione, che mi doveva istruire, per attingere da lei con molta cura la disciplina dei costumi e dell’esercizio. Dopo che fui ammessa nei penetrali del monastero chiusi da cento chiavistelli, questa mi tenne sempre presso di sé con dolcezza, anche se per prima mi insegnò a trascorrere notti insonni ricamando: […]. Dopo due anni dal mio ingresso in convento, ritornai a casa dato che il padre mi reclamava […]. Tutto il vigore dell’ingegno lo dedicai a questo [studio della letteratura] e in più i normali intervalli di giorno e le veglie di notte. Addio. 9 novembre (1486).[7]

 

La sua istruzione era proseguita a casa sotto la guida del padre che l’educò anche nella matematica e nell’astronomia; a 15 anni, nel 1484, aveva sposato il mercante veneziano Pietro Serina che morì improvvisamente di peste dopo appena 18 mesi di matrimonio. Fu proprio la sua vedovanza che la rese ‘libera’ e le permise di farsi conoscere meglio nel ceto intellettuale bresciano con la frequentazione dell’Accademia Mondella, con conferenze pubbliche e appunto con la scrittura di una serie di lettere, che lei stessa raccolse e diffuse nel 1488.

Il tema che forse sta più a cuore a Laura riguarda la condizione e l’educazione femminile, tema allora in embrione ma che di lì a pochi anni sarà affrontato da altre scrittrici in contrapposizione con le posizioni misogine degli uomini loro contemporanei, i quali non riconoscevano il valore dell’ingegno femminile, e in contrapposizione anche a quelle donne che si occupavano solo di frivolezze e fornivano un pessimo ritratto del loro sesso.

Famosa e molto frequentata è l’epistola a Bibulo Semproni[8] nella quale Laura entra in polemica con le posizioni di costui contro le donne e difende la capacità femminile ad apprendere e dove, umanisticamente, opera un ampio excursus sulle donne colte a partire dal mondo greco e dalla latinità. Pochissimi decenni prima, tra la fine del 1439 e l’inizio del 1440, Isotta Nogarola (1418-1466) aveva scritto un’epistola a Damiano del Borgo[9] sullo stesso tema e anch’essa aveva polemizzato con la posizione del suo interlocutore, che in quel caso accusava le donne di non essere brave oratrici, sostenendo invece le capacità oratorie femminili. Per avvalorare la sua tesi faceva un excursus, come di lì a poco farà Cereta, sulle donne antiche, lodandone l’eloquenza e sottolineando prima tra tutte Ortensia, considerata la prima donna avvocato.

 

Circa un secolo prima, Boccaccio nel De mulieribus claris[10] (1361-1362; 1367-1370) aveva declinato una rassegna di personaggi femminili, descrivendo biografie di donne antiche famose per la loro virtù, alle quali aveva aggiunto alcune figure del mito. Anche la dedicataria dell’opera è una donna, Andrea o Andreola Acciaiuoli, sorella del potente siniscalco del regno di Napoli, Niccolò Acciaiuoli, anche lei scrittrice e della quale restano alcune lettere,[11] pure queste in latino, a testimonianza dell’esistenza della scrittura femminile nel XIV secolo, e conosciuta da Boccaccio a Napoli, nella corte frequentata nei suoi anni partenopei, una corte con un ambiente colto e raffinato.

Nella Dedica ad Andreola Boccaccio dichiara

 

Pridie, mulierum egregia, paululum ab inerti vulgo semotus et a ceteris fere solutus curis, in eximiam muliebris sexus laudem ac amicorum solatium, potius quam in magnum rei publice commodum, libellum scripsi.

 

Ieri, nobilissima tra le donne, allontanatomi un poco dal volgo inerte e libero da quasi tutte le preoccupazioni, ho scritto un libello in lode eccezionale del sesso femminile e per il piacere degli amici, piuttosto che per un grande vantaggio per lo stato.

 

La testimonianza non solo dell’uso del latino per questo tipo di rassegne ma anche dell’intenzione di lodare le donne e di dare piacere agli amici mostra ancora una volta quanto Boccaccio fosse interessato al panorama femminile nelle sue varie modulazioni e sfaccettature. La maggior parte delle sue opere del resto indaga comportamenti, azioni, fortune e sfortune delle donne, dalle opere del periodo napoletano al Decameron, che le vede protagoniste della stragrande maggioranza delle novelle, financo alla posizione misogina assunta nel Corbaccio.

Si tratta pur sempre di donne che sono presenze letterarie, “donne di carta”, secondo la tradizione, ma non donne che scrivono in prima persona, tanto che Boccaccio nella settima novella della decima giornata del Decameron ricorre alla strategia per interposta persona per far sì che Lisa palesi il suo amore al re Pietro. Minuccio d’Arezzo, «finissimo cantatore e suonatore», al quale Lisa aveva chiesto aiuto, convince Mico da Siena «assai buon dicitor in rima» a comporre e musicare una «canzonetta» che esprimesse al posto di Lisa l’amore per il re e lo stato d’animo della fanciulla.[12]

 

Ormai sono trascorsi molti decenni da quando gli studi di genere agli inizi degli anni ’50 del Novecento posero l’attenzione sulla condizione femminile e su tutto ciò che gravita intorno ad essa, dalla sociologia alla sessualità, e gli studi sulle donne e sul loro ruolo nell’ambito della società sono stati e sono un centro d’indagine anche nell’ambito letterario.

Del resto le donne non sono, e non lo sono state, solamente personaggi letterari, ma scrittrici in prima persona. Nell’era volgare ne abbiamo notizia e documentazione dal Medioevo[13] in avanti.  In quale lingua scrivevano? Nelle varie lingue volgari e in latino. Di cosa scrivevano? Della loro vita e del loro far parte della società nonché davano insegnamenti, come ad esempio Ildegarda di Bingen (1098- 1179), Trotula (1050 circa-inizio XII sec.) e altre, sulla medicina. Più avanti nel tempo ci troviamo di fronte a donne che si possono chiamare ‘imprenditrici’, come la Mercantessa di Prato, Margherita Datini (1360-1401), o la fiorentina Alessandra Macinghi Strozzi (1405-1471), che scrivono in volgare, perché inserite in una società mercantile che le impegnava negli affari e nella gestione della casa. I centri di azione di queste donne scrittrici sono stati infatti molteplici e diffusi in varie parti d’Italia.

L’epistolografia femminile si consolida nel Quattrocento, perché tale pratica permetteva alle donne di uscire dalla sfera privata e in particolare l’uso del latino consentiva loro di accedere a una dimensione pubblica, in quanto il latino era la lingua franca dell’élite culturale e per di più sottintendeva la conoscenza quanto meno della latinità e della mitologia se non anche del mondo greco.

Elisabetta Bartoli[14] ha messo in evidenza tra l’altro come i manuali medievali di epistolografia insegnassero a redigere le lettere e fornissero al contempo i modelli esemplificativi e le formule adatte al loro uso. Da ciò si può dedurre che probabilmente la rassegna delle donne antiche presente nelle epistole di Nogarola e di Cereta, nonché in quelle petrarchesche, rispondesse a questi insegnamenti?

 

Se Nogarola e Cereta difendono l’istruzione liberale delle donne e le loro qualità culturali, Laura in aggiunta sostiene che la conoscenza si ottiene non come un semplice dono, ma con uno studio e un’applicazione assidui, in particolare durante le veglie notturne, come aveva imparato in convento:

 

[…] At illae, quibus ad virtutem integritas maior aspirat, frenant […] componunt in vigilias ingenium, & mentem excitant in contemplationem ad literas probitati semper obnoxias. Neque enim datur dono scientia, sed studio. Nam liber animus labori non cedens acrior semper surgit ad bonum: & excrescunt longius illi atque latius desideria discendi.

 

[…] Ma quelle, per le quali una maggiore integrità spinge alla virtù, […] durante le veglie predispongono l’ingegno e stimolano la mente verso la contemplazione sempre soggette alla onestà verso le lettere. Infatti la scienza non è data da un dono, ma dallo studio. Dunque l’animo libero che non cede alla fatica risorge sempre verso il bene e crescono più a lungo e più ampiamente per quello i desideri di imparare. (Ep. LXV a Bibulo Semproni).

 

Secondo Cereta la Natura distribuisce a tutti gli esseri umani, senza distinzione di sesso, la libertà intellettuale e con questa il desiderio di imparare. Sono le stesse argomentazioni che leggiamo ne La città delle dame di Christine de Pezan[15], anche se non è stato del tutto accertato se Laura ne avesse letto l’opera, e quando nel Settecento Aretafila Savini de Rossi[16] rivendicherà la necessità e il dovere di impartire alle donne un’educazione scientifica si servirà in parte delle stesse motivazioni di Cereta.

Dopo aver affermato che ciascuna donna è stata dotata di capacità proprie, Laura passa a parlare di sé, che vuole essere la paladina nella difesa del suo sesso:

           

Scholastica discipula sum sub favilla humilioris ingenij sopita.  Inuror certe nimium, & nimium animi collegit indignata mens, quae se de tuendo sexu diserutians conscia obligatione suspirat. […] Ego propterea, apud quam virtus semper fuit in pretio, posthabita omni rerum privatarum cura, limabo fatigaboque calamum contra linguaces, […] & moliar ultricibus armis expugnare obstrepentium maledicentias infames, quibus infamatissimi quidam introntesque furiosis in muliebrem… delatrant. Idibus Ianuarijs.

 

Sono una discepola scolastica sopita sotto la favilla di un ingegno piuttosto umile. Di sicuro brucio troppo e troppo ardore ha concentrato la mente indignata, la quale, trascurando se stessa riguardo alla difesa del sesso, sospira conscia di questo obbligo. […] Io perciò, che ho sempre dato valore alla virtù, trascurata ogni cura delle cose private, perfezionerò e spronerò la penna contro i maldicenti, […] e mi accingerò ad espugnare con armi vendicatrici le infami maldicenze di coloro che strepitano, maldicenze con le quali alcuni molto infamanti e che si schierano violentemente contro il sesso femminile, …sbraitano. 13 gennaio (1488). (Ep. LXV a Bibulo).  

 

Tiziana Plebani[17] da parte sua ricorda che, se nel XV secolo il saper scrivere era appannaggio degli uomini, anche se non di tutti, non era un fatto usuale che una donna non solo sapesse scrivere, ma sapesse gestire in modo consapevole la scrittura, puntualizzando temi e forme con decisione e sicurezza. Il fatto che Laura si allontani dalle forme liriche che saranno prevalenti nel XVI secolo ed erano diffuse già nella sua età e affronti temi come la necessità dell’educazione delle donne, era una grande novità e un fenomeno importante, che peraltro doveva ancora maturare nella mentalità del suo secolo e anche di quelli seguenti.  

Laura mostra tutta la sua cultura letteraria nonché la sua conoscenza del De mulieribus claris di Boccaccio nella lettera LXIV a Pietro Zeno,[18] dove troviamo uniti due dei temi più significativi del suo epistolario e delle sue riflessioni: da una parte le considerazioni sul matrimonio, che presentano un’ottica piuttosto moderna e la situano nella dimensione chiamiamola pure femminista,[19] e dall’altra le sue conoscenze dell’antico. Infatti, se all’inizio della lettera Laura mostra le sue ampie conoscenze culturali, evidentemente condivise dal suo interlocutore e dai suoi lettori, nella seconda parte lo sguardo è volto alla realtà del suo tempo, in quanto sottolinea le difficoltà e le fatiche incontrate dalle donne nel matrimonio, che peraltro presentano molte analogie con la situazione femminile anche dei nostri giorni.

Dopo un incipit augurale infarcito di astronomia e astrologia, a testimonianza dell’ampia educazione ricevuta dal padre, Laura passa a un lungo elenco di esempi di fedeltà coniugale da parte delle donne dell’antichità, sia quelle mitologiche sia quelle effettivamente vissute, le cui vicissitudini sono state tramandate dagli storici e dagli scrittori romani, in particolare da Valerio Massimo,[20] e si serve anche degli esempi presenti nel De mulieribus claris di Boccaccio. Didone, Penelope, Ipsicratea, Sulpicia, Argia, Porzia, figlia di Catone, Artemisia, moglie del satrapo Mausolo, la romana Lucrezia e tante altre fanno parte di questa lunga carrellata esemplificativa sulla fedeltà delle donne che trovano un riscontro diretto nell’opera di Boccaccio. Al contempo tende a sottolineare un ribaltamento dei ruoli tradizionali dei sessi, mentre si affranca dalle convenzioni sociali del tempo.  

 

La lettera a Pietro Zeno dimostra come le donne dell’antichità non solo non avessero segreti per Laura ma anche che sono dei modelli ai quali riferirsi financo nel mondo contemporaneo a Cereta, se non in tutti i tempi. Soprattutto Valerio Massimo con la sua opera di exempla fornisce un ampio e circostanziato bacino da cui pescare gli esempi che per Laura sono i più significativi.

Questa tipologia esemplificativa per altro non la troviamo solo Boccaccio, perché anche Petrarca nella Familiare XXI, 8, indirizzata all’imperatrice Anna: «Ad Annam imperatricem, responsio congratularia super eius femineo licet partu et ob id ipsum multa de laudibus feminarum» [All’imperatrice Anna, congratulandosi per la nascita della prole, sebbene femminile, e da ciò prendendo occasione a far molte lodi delle donne], riporta un catalogo di donne famose associando a ciascuna una virtù; collega la pudicizia a Lucrezia, l’amore coniugale a Porzia, la fedeltà a Penelope, lo spirito di sopportazione a Ipsicratea e così via, come farà Cereta e come troviamo già in Valerio Massimo.

Petrarca, nel rivolgersi all’imperatrice Anna, rende subito omaggio alle capacità intellettuali delle donne: 

Adde quod nec partu tantum, sed ingenio et virtute multiplici et rebus gestis et regni gloria sexus est nobilis. Ut enim pauca de multis pretereundo contingam, apud antiquissimos Grecorum repertrix variarum artium Minerva virosque omnes ingenio supergressa atque ob eam rem sapientie dea est

 

Aggiungi che il sesso femminile non è nobile solo per il parto, ma per ingegno e per una virtù molteplice e per gesta e gloria del regno. Così per accennare ad alcuni dei tanti esempi, presso gli antichissimi Greci Minerva fu l’inventrice delle varie arti e superò per ingegno tutti gli uomini, e per questo motivo fu detta dea della sapienza…

 

Cereta sembra dunque seguire la strada aperta da Boccaccio e da Petrarca nell’«inaugurare l’arte del ritratto individualizzante al femminile»[21] e, a mio parere, nel suo susseguirsi di esempi di virtù femminile manifesta la volontà di mettere in evidenza come la posizione della donna debba avere ormai una considerazione ben diversa dallo stereotipo di brava moglie e brava madre in cui è stata chiusa da sempre. Questa carrellata di donne celebri tuttavia non è uno sfoggio per così dire di erudizione, ma un reale desiderio e uno stimolo a cambiare le situazioni esistenti. Significativa risulta proprio la parte conclusiva della lettera a Pietro Zeno, dove Laura mette il dito nella piaga di una condizione femminile schiacciata dal predominio maschile, una condizione che in pratica impedisce alle donne di ribellarsi al tipo di vita a cui sono da tempo destinate. Cosa possono fare per uscirne? Per Cereta la risposta è ovvia, come si deduce anche da altre sue lettere. Devono studiare, sfruttare quell’ingegno che Dio fornisce a tutti e che fino a quel momento le donne non hanno coltivato né sfruttato, e soprattutto non hanno potuto farlo. Sono le lacrime furtive, che vengono velocemente asciugate, a fornire la cifra della sottomissione muliebre a un matrimonio che dura fino alla morte e testimonia che nel rapporto nuziale e familiare sono le donne il perno intorno al quale si fonda e si mantiene questo legame:

 

Hae sunt quae proposita iurisjurandi contestatione devovent vobis, quaevae in praelongum spatium vitae deductae, gazas honoresque vestros sollicito amore custodiunt. Hae, dum caram semper semperque virentem unitatem servant sancti coniugij, pro oboediendis maioribus imperant sibi, & prudentia sua omnes domestici schismatis indignationes emolliunt. […]. Hae si quando maritalibus appetuntur iniurijs lavant raptim e violato corde odia facta lacrymulis, & clementia bilis accensae convitia, linitis in laetitiam blandimentis, extinguunt.

 

Queste sono quelle che sacrificano a voi gli impegni con la testimonianza del giuramento, o che per tutta la lunghissima durata della vita, custodiscono i vostri tesori e i vostri onori con sollecito amore. Queste, mentre mantengono la sempre cara e sempre fiorente unità del santo matrimonio, si governano in funzione dell’obbedienza agli antenati e con la loro prudenza attenuano tutti i dolori delle discordie domestiche. […] Queste, se qualche volta sono colpite dalle offese dei mariti, rapidamente lavano via dal cuore con le loro lacrimucce le offese ricevute e spengono gli insulti spinte dalla clemenza verso la collera.

 

Interessante mi sembra un breve confronto tra la lettera di Petrarca all’imperatrice Anna e quella di Cereta a Pietro Zeno perché troviamo molti degli stessi episodi, presenti peraltro anche nell’opera di Boccaccio. Eccone alcuni. La prima donna citata in Petrarca è Ipsicratea, moglie di Mitridate, re del Ponto:

 

Cuius non ad aurem venit Ipsicratee regine coniugalis amor et invicti vigor animi, que Mithridatem suum Ponti regem, illo gravi et diuturno quod cum Romanis gessit bello, non modo dum res anceps stetit, sed victum etiam ac desertum a suis sola per omnes casus indefessa pietate comitata est? Neglecta qua singulariter pollebat forme cura mutatoque habitu, equo et armis et laboribus cuntis assuefacto corpore, quod inter delitias regias educatum erat, gratum prorsus et unicum illi afflicto regi solatium in extremis miseriis coniunx fuit.

 

E chi non ha sentito parlare dell'amor coniugale e dell'animo invitto della regina Ipsicratea, che sola e con inesauribile fedeltà accompagnò in ogni sua vicenda il suo Mitridate, re del Ponto, durante la sua grande e lunga guerra con i Romani, non solo finché l'esito fu incerto, ma anche quand'egli fu vinto e abbandonato dai suoi? Incurante di quella sua bellezza di cui era famosa, e mutate le vesti, assuefatto il corpo a cavalcare, a portar le armi, a soffrire i disagi, questa moglie, educata tra regali delizie, fu di gradito e forse unico sollievo a quel re infelicissimo.

 

In Cereta leggiamo:

 

Nonne Hipsicratea, inseparatae fidei mulier Mithridati tam victori, quam victo per maria, perque terras, et omne bellum, miro laborum toleratu, semper adhaesit?

 

Forse che Ipsicratea[22], moglie di inseparabile fedeltà, non si staccò da Mitridate tanto vincitore quanto vinto, per mare e per terra e in ogni guerra, sopportando straordinarie fatiche? 

 

Petrarca prosegue con Porzia, la figlia di Catone:

 

Quis Catonis Martiam, quam "sanctam" vocat antiquitas, quis huius natam Portiam, que viri morte nuntiata, ne illi superviveret, quia presens ferri copia non erat, vivis ore carbonibus absorptis, viri sui amantissimum et sequi properantem spiritum exhalavit?

 

E che della Marzia di Catone, che gli antichi chiamarono santa, che della figliuola di lei Porzia, la quale all'annunzio della morte del marito, per non sopravvivergli, non avendo a mano un ferro, inghiottiti carboni ardenti esalò l'anima innamorata del marito e ansiosa di raggiungerlo?

 

E Cereta risponde:

Et superba crudelitate, atque armis nocturnis accinta inclytum de se testimonium reddidit Portia, Catonis patris imitata constantiam, quando ob amorem, immo dolorem Decij Bruti, apud Philippos occisi, ignitos avido gutture carbones inhausit.

 

Rese un’inclita testimonianza di sé Porzia,[23] dopo aver imitato la costanza del padre Catone, quando per amore, anzi per il dolore di Decio Bruto, ucciso presso Filippi, inghiottì con avida gola i carboni ardenti.

 

Petrarca riporta l’esempio famoso delle donne spartane che liberano i mariti dal carcere e li sottraggono alla morte:

Iam quis illud apud Lacedemonios non audivit, ut fidissime uxores, quasi viros capitalium rerum reos supremum allocuture, permissu custodum noctu carcerem ingresse, quo tempore more gentis de condemnatis supplicium sumebatur, permutatis vestibus et per speciem doloris capitibus obvolutis et hora consilium adiuvante, illis emissis eorum in se periculum transtulerunt?

 

E chi non ha udito raccontare di quelle fedelissime mogli spartane, le quali, per dar l'ultimo addio ai mariti condannati a morte, entrate col permesso dei custodi di notte nel carcere, nell'ora che secondo il costume di quel popolo si eseguiva la condanna, mutarono con essi di vesti e, fingendo dolore, si velarono il capo; sicché, col favore delle tenebre, fatti uscire loro, misero in pericolo se stesse?

 

Cereta scrive:

Expectabant percussores animo Meniae cantatissimi illi Jasonis Argonautae Lacedaemoniea coniuratione notati; quando velatae, et chlamydes sordidatae coniuges ergastulo virum admissae, ac perituros illos ultimo vale visurae mutatis vestibus pullis emisere damnatos; ipsae intus manserunt, sub deposito mortis intrepidae.

 

I Minii i famosissimi Argonauti di Giasone, condannati per la congiura contro Sparta, aspettavano con coraggio i loro esecutori quando le loro mogli, velate e vestite con le clamidi[24] a lutto, furono ammesse al carcere per salutare con un ultimo addio i mariti che sarebbero morti presto, e, scambiate le vesti nere, portarono fuori i condannati, mentre loro stesse rimasero dentro, impavide nel disprezzo della morte.

 

Da sottolineare in questo esempio che lo scambio delle vesti allude ad una contaminazione dei ruoli e al fatto che le donne danno prova della loro razionalità e della loro ingegnosità, che invece erano attribuite tradizionalmente agli uomini 

Petrarca prosegue con l’esempio di una madre condannata a morire di fame e salvata dalla figlia:

 

Miseram matrem in carcere destinatam ultimo supplicio, sed commiseratione reservatam ut fame consumeretur, exorato custode sepius admissa filia, sed excussa diligentius nequid alimonie subinferret, clam uberibus suis pavit; altera autem patri eodem in statu par obsequium impendit.

 

Alla misera madre, chiusa in carcere e condannata a morte, ma per misericordia lasciata morir di fame, una figliuola, riuscita raccomandandosi al carceriere a giungere fino a lei, non senza prima essere stata frugata perché non portasse seco alcun cibo, porse di nascosto le sue mammelle; lo stesso fece un'altra col proprio padre.

 

Cereta fa eco così:

 

Praelata est Romanis caeteris inaudita filiae puerperae pietas, quae et vagientem domi filiolum, et inediae supplicio perituram carceri matrem eisdem uberibus suis sub incauto janitore nutrivit.

 

È stata messa in luce agli altri Romani l’inaudita pietas di una figlia[25] puerpera, che sia a casa nutrì il figlio che vagiva sia in carcere la madre che sarebbe morta per il supplizio della fame con le sue stesse mammelle sotto gli occhi dell’imprudente custode.

 

Laura Cereta era conosciuta al suo tempo, come è testimoniato da Lucrezia Marinella, che nel suo La nobiltà. et l’eccellenza delle donne, co’ difetti, e mancamenti de gli uomini. Discorso di Lucretia Marinella, in due parti diviso[26] ricorda molte donne scrittrici, da quelle antiche a Ildegarda, «Hildegarde d’Alemagna non iscrisse molto dottamente quattro libri delle cose naturali?» (p.  53), a Elena Flavia Augusta, figlia del re Celio «non iscrisse un libro della divina providenza? E uno della immortalità dell’anima, e molti altri, ch’io per brevità tralascio?» (p. 54), fino a citare Laura Cereta con queste parole: «Una nobile Bresciana detta Laura scrisse molte eleganti Epistole à Frate Geronimo Savonarola». Non si può non ricordare che in età a noi contemporanea è Prudence Allen ad affermare che Cereta ebbe un grande peso nella conoscenza e nella diffusione delle scritture femminili, in quanto la sua scrittura è rappresentativa di una fase fondamentale per il formarsi dell’autocoscienza politica femminile.[27]

 

Fra i temi affrontati da Laura nelle sue epistole sul piano più strettamente privato troviamo un topos classico, la riflessione sulla morte e la necessaria consolazione di questo tragico evento, riferita sia a titolo personale a causa della morte del marito, sia presente nelle consolationes, una indirizzata a Marta Marcella, che condivide con lei la vedovanza, e una a Giuliano Trosoli, per la morte della figlia appena nata. A queste si affianca l’epistola XXVIII a Felice Tadino, abbastanza breve, dove riflette sulla potenza e sull’inevitabilità della Fortuna sulle vicende umane.

 

Heu nascimur, serpunt anni, falluntque vices, vis morbi tandem inoccupat, laxamur in morterm, tegimur cavo marmori, fugit ad umbras spiritus. Hinc inanes curae mortalium, quae sub fugienti vitae somnio falluntur incautae. […] Omnia mihi in optatissimi viri morte mors abstulit. Traxit ad oculos lacrymas dolor. Acerbitatis casum mei nescia complanxi: egi diu longum in gemitu: plorarunt vel corda ferrea mecum: nec potuit unquam mens saucia mederi singultibus. Lugenda nanque non fletu, sed ratione tolluntur. Redii postremo tamen, ut potui, et a commoti animi tanto percussu extinguere nitebar interni doloris aculeum. Posui aliquanto post lacrymas, non posui altiora suspiria. Subrisit interdum verecunda facies, dum spiritus affligerentur introrsum, adeo inter rationem et sensum regerminabat incerta confusio. Nam quamquam laniatum Hippolyti corpus ad vitam redintegrari potuerit, mens lacera tamen Apollinis sanari non potuit: Mortalius nanque vulnus est, quod Amor, quam quod dolor incussit: Erat autem desideratissimus hic mihi nuptum ascriptus, unus ille praeter omnes, qui viverent, optatus, et cujus vicissim redamato cultu omne animi studium deflagrabat intentius. Cal. Majis. 

 

Ahimé nasciamo, gli anni scorrono, le alterne vicende ingannano, infine la violenza di una malattia ci sorprende, ci sciogliamo nella morte, siamo coperti da una cavità di marmo, lo spirito fugge verso le ombre. Da qui le inutili cure dei mortali, che indifese sotto lo sfuggente sonno della vita sono deluse. [… ]. A me la morte tolse tutto nella morte dell’amatissimo marito. Il dolore riempì di lacrime gli occhi. Piansi inconsapevole il caso della mia sofferenza: a lungo gemetti. Piansero con me anche i cuori crudeli: la mente ferita non potè mai guarire con i singulti. Le cose luttuose non si sollevano con il pianto, ma con la ragione. Alla fine tuttavia tornai in me come ho potuto, e da un così grande colpo dell’animo turbato mi sforzavo di estinguere il tormento del dolore interno. Mi fermai alquanto dopo le lacrime, non innalzai sospiri troppo alti. Talvolta il volto dignitoso sorrise, benché lo spirito dentro fosse privo di forza, a tal punto rispuntava tra la ragione e il sentimento una incerta confusione. Infatti sebbene il corpo di Ippolito dilaniato potè essere reintegrato alla vita, la mente straziata di Apollo tuttavia non potè essere sanata: Infatti più mortale è la ferita, che l’Amore piuttosto che il dolore ha provocato. Ma costui che mi era stato destinato in matrimonio era il più desiderato, l’unico desiderato più di tutti quelli che vivevano, e quando da lui è stata ricambiata la devozione, tutta la passione dell’animo bruciava con maggior intensità. 1 maggio (1487). 

 

La climax iniziale, di ascendenza classica, percorre le fasi della vita di tutti e poi si sofferma sulla sua condizione vedovile, affermando tuttavia che «Le cose luttuose non si sollevano con il pianto, ma con la ragione», da cui si ricava la forza della ragione che ‘virilmente’ l’ha sempre accompagnata. Più lunga e articolata la consolatoria a Marta Marcella (Ep. LVIII), dove comune è il dolore che le unisce per la perdita del marito. Anche Laura ricorda di essere stata colpita da un dolore e da una ferita insanabile; la prima reazione per tale evento inaspettato era stata di stupore:

 

Obstupui primum, ceu vitae mortisque nescia, adeo timoris internae febres torruere praecordia: sed generosa mens, ad difficile prompta, mox pavorem illum profundius infusum sub duriore cordis firmitate calcavit:

 

Rimasi stupefatta dapprima, inconsapevole della vita e della morte, a tal punto le febbri interiori della paura atterrirono il cuore: ma la mente magnanima, pronta al difficile, subito dopo calpestò quella paura infusa più in profondità del cuore sotto la più dura fermezza.

 

Immagina poi di aver fatto un viaggio nel regno dei morti, dove si è confrontata con Eaco, con Caronte, con Cerbero e con tutto il pantheon obituario degli antichi, e ha assistito agli spettacoli orribili delle pene a cui sono sottoposti i defunti in una specie di inferno dantesco. E prosegue

 

At Tu nunc, amata mihi Soros unanimis, quid misero luctu te perdis? quid malorum tibi causa in stuporem te vertis? cur tristibus aerumnis ita te conficis? aut cur sic lacera crines immurgis? Eia resume animos; nam animo nostro nil grandius, et victrix Fortunae virtus est nostra. Num optatissimum tibi Consortem forte plangis? Fert hoc, fateor, in primis motibus innata dulcedo suorum: at suum tamen terra reposcit; et quamquam tegat luridos artus hoc specus, non est tamen aeterni somno spiritus invasus. Impendes et tu animam fatis, et miscebis uno tumulo cadaveris ossa liventia: nam vitae, mortisque agitur semper alterna mutatio, sed dubiae vitae mors certa praefertur, quum omne vitae spatiem sit una mortis brevisque vigilia.

 

E tu, amata Sorella anima mia gemella, perché ti perdi in un infelice lutto? Perché a causa dei mali ti abbandoni allo stordimento? perché ti ammali così per un triste tormento? o perché così ti distruggi e ti strappi i capelli? Forza, risveglia il coraggio: infatti niente è più grande del nostro animo, e la nostra virtù è vincitrice della Fortuna. Non piangi forse il Consorte per te amatissimo? l’innata dolcezza nei confronti dei nostri, una delle prime emozioni, produce questo, lo confesso: tuttavia la terra richiede il suo, e sebbene questa tomba copra le sue livide membra, tuttavia lo spirito non è stato invaso dal sonno eterno. Anche tu sacrificherai la tua anima ai fati e la mescolerai in un unico tumulo con le livide ossa del cadavere: infatti l’alterno scambio della vita e della morte è sempre in corso, ma una morte certa è preferibile a una incerta vita, poiché l’intero spazio della vita è un’unica e breve vigilia della morte.

 

E conclude:

Fuere illi Comites Consortesque nobis, et multa quidem in nos semper cura pietatis accincti. […] Atqui verum animi robur, dum scisso velo in fluctus it medios, dum vel nocentissima grandine concrepitatum incutitur, et turbinosus ex omni parte resonat fragor, tunc dehiscentes etiam navigii rimas acriore cordis firmitate contemnit. Innitamur igitur in altiore adversitatis pelago validioribus remis, et paratiori periculo, mediis obniisque pectoribus insurgamus: Nam ubi plus periculi est, inde plus gloriae reportatur, et palmae. Multae nanque ad mortem dispatent omnibus viae; sed impar est, et incertus unicuique suus eventus: Interim si quid nobis e concessis Sors nostra subtraxerit, animo invulnerato feramus. Vale, Octavo Idus Octobris.

 

Costoro furono compagni e consorti per noi, e sempre manifestarono una grande attenzione e devozione nei nostri confronti. […] Ma la forza dell’animo, mentre va in mezzo ai flutti con la vela spiegata, mentre è colpita da una grandine pericolosa, e violento risuona da ogni parte il fragore dei venti, allora con una più salda fermezza d’animo non teme gli squarci che si aprono nel vascello. Affidiamoci dunque nel più profondo mare delle avversità a remi più saldi e più preparati al pericolo solleviamoci in mezzo ai pericoli con animi saldi. Infatti dove il pericolo è maggiore, da lì riportiamo una gloria maggiore e la palma della vittoria. Infatti per tutti si spalancano molte vie verso la morte; ma è sempre impari, e incerto per ciascuno il suo evento. Intanto se la Sorte ci dovesse sottrarre qualcosa da quanto ci è stato concesso, sopportiamolo con animo illeso. Addio, 8 ottobre (1486).

 

A queste epistole fa eco la XXIV indirizzata all’oratore Francesco Fontana di nuovo con una riflessione sulla Fortuna,[28] tema caro all’età umanistico-rinascimentale, Fortuna alla quale, ricorda Laura in incipit di lettera, i Romani innalzarono un tempio. Dopo una serie di riferimenti dotti e storici del mondo antico, scrive:

 

Quod vero dicimus ipsi Fortunam, id ipsum omnino nihil est aliud, quam imaginatio vani terroris, quem nobis invexere gentiles: Sed nos dum certamus odiis, aut ingredimur vias infestas, et subjacemus casibus, immiscemurque periculis, haec alternantia in alterutrum mala grassantur, a quibus sub dolore, timor excitur, et ex timore Religio. Religionum autem haec illa est, de qua pejora dici non possunt, quod isto modo convincitur.

 

Ma ciò che noi stessi chiamiamo Fortuna, questo non è niente altro che l’immaginazione di un vano terrore, che ci hanno portato i pagani: Ma mentre combattiamo con gli odi, o ci inoltriamo per vie pericolose, e sottostiamo ai casi, e ci immergiamo nei pericoli, queste alternanze ci portano a mali reciproci, dai quali sotto il dolore, si scatena la paura, e dal timore la Religione. Ma delle Religioni questa è quella, della quale non si può dire niente di peggio che è colpevole in questo modo.

 

È la Fortuna dunque che toglie agli uomini ciò che hanno di più caro ed è con essa che si devono confrontare in qualsiasi momento della vita; ma non devono abbattersi e soggiacere ai colpi di questa, che altro non è che «un personaggio immaginario» e non una «indiscussa divinità. La fortuna, in fin dei conti, non è nulla e non può esistere nulla di più inutile del nulla». (Ep. XXIV)

Umanisticamente e classicamente Cereta affida alle sue lettere anche la riflessione sull’avarizia, come si legge nell’epistola LXVII a Lupo Cinico,[29] che esordisce con una serie di interrogative retoriche, a testimonianza della sua abilità scrittoria:

 

Cynice, quid aurum sitiens, solus angeris tecum? Quid siccis labiis derosun murmur ita masticas? Quid digitis repetitos digitis revocas numeros totiens? Quid obducto supercilio, et venaticis in terram oculis curvus incedis? Speras ne omne quod cupis? An forte putas latiorem te, quam Alexander, mundum invadere? Unus ab uno Deo factus est orbis: Alexandrum unum natura produxit: Non est ea exaggeratio cumulatioris argenti, quae satiare animum possit: ad opes coacervandas avidius semper sitit anxia cupiditas…

 

Cinico, perché assetato di oro, ti angosci da solo? Perché con le labbra secche ti mordicchi il tuo borbottio rosicchiato? perché conti i numeri sulle dita ripetendoli in continuazione? Perché con il sopracciglio inarcato e gli occhi pronti per la caccia cammini curvo? Speri di ottenere tutto ciò che desideri? O forse pensi di conquistare un mondo più vasto di quello di Alessandro? Un solo mondo è stato creato da un solo Dio: la natura ha generato un solo Alessandro. L’accumulazione dell’argento non è quella che può saziare l’animo: l’ansiosa avidità è sempre più assetata di accumulare ricchezze:…

 

Prosegue con un’altra carrellata di esempi antichi, citando Crasso, Mida, Creso e altri personaggi famosi per la loro avidità, e poi ammonisce

 

Peccarunt Primi Parentes: plectitur inquietata posteritas. Non regreditur nostri ordo principii: Continuat propagine Mundus antiqua: sumus omnes ab Adam: non diluitur sine lacrymis labes, quam sordidatrix Natura contraxit. Credisne filios habere Fortunam quos in aerumnis vitae foelicitet? Vexat nos sors improba rerum, et feros in spes nostras, vanis saepe consiliis elusas, desaevit, nequiter debacchatur, insanit.

 

Peccarono per primi i Padri: è punita la posterità senza pace. L’ordine del nostro inizio non torna indietro: Il Mondo prosegue con la sua antica propaggine: siamo tutti discendenti di Adamo: il peccato che la natura corruttrice ha generato non è lavato con le lacrime. Credi forse che la Fortuna ha figli che vorrebbe rendere felici in mezzo alle tribolazioni della vita? Ci vessa la malvagia sorte delle cose, e infuria feroce sulle nostre speranze, spesso beffate da vani consigli, in modo indegno si scatena, impazzisce.

 

La conclusione moralistica ha le forme gnomiche classiche, a dimostrazione della cultura e delle ampie letture di Cereta:

 

Ardet mens intus sub toxicato corde nimis avara: non impulit te in studium acquirendi necessitas: Inclinat in desiderium habendi oculus nequam: et tu obducto menris visu duras in saxum obstinata praecordia. Sic evenit his, quibus inaestuat formido major damni, quam culpae. Sed tu qui meliorem finem expectas, indue, precor, sincerae probitatis mentem innoxiam: elige frugalitatem potius quam divitias injustas; et futuris consulens degusta exempla majorum, qui tam velocibus alis devolarunt ad mortem, Parulas ecce tenet illa fauces, quibus nos vorax ingurgitet: ad hanc impulsore tempore cuncti traducimur: ad hanc omnes improviso cursu dilabimur: Necesse est enim ut refugiente vita mors propius accedat. Haec habui, quae tibi ex hoc fido pectore promerem. Tu, si quid fidei habeo apud Te, facile admittes haec monita, quae vera, vel licenter, vel de necessitate concedas. Sic de intemperie desiderii consessus parabis tibi per poenitentiam certum iter ad Coelum et sic lumen veritatis immensae intentui8sm alieni pectus intrabit. Vale. Cal. Martiis

 

Avvampa all’interno la mente troppo avida sotto il cuore avvelenato: non ti spinge verso il desiderio di accumulare ricchezze la necessità: lo sguardo che non vale niente ti spinge verso il desiderio di possedere: e tu quando è bloccato lo sguardo della mente irrigidisci in un sasso il cuore ossessionato. Ma tu che aspetti una fine migliore, rivestiti, ti prego, di una mente innocente di una sincera rettitudine: scegli la frugalità invece delle ingiuste ricchezze: e preoccupandoti del futuro assaggia gli esempi degli antichi, che volarono verso la morte con ali veloci. Ecco quella tiene spalancate le fauci, con le quali ci ingoia vorace: tutti siamo condotti a questa dal tempo che avanza veloce: verso questa tutti scivoliamo con una corsa imprevista: è infatti inevitabile che la morte si avvicini sempre di più mentre la vita fugge via.

Io ho considerato queste cose che ti ho promesso con cuore fedele. Tu, se ho una qualche credibilità nei tuoi confronti, riceverai senza difficoltà questi avvertimenti, che accetterai come veri sia per piacere che per necessità.

Così, dopo aver confessato l'intemperanza del tuo desiderio, preparerai la giusta via per il cielo attraverso il pentimento, e così la luce della verità incommensurabile entrerà nel petto ansioso di chi ne è stato allontanato. Addio. 1 marzo (1487).

 

È con queste parole che mi piace concludere questo profondo legame di Cereta con la sua cultura di ascendenza classica e che si intreccia strettamente con la sua quotidianità.

 

 


[1] A. Genovesi, Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o gl’ignoranti, in Id., Autobiografia e lettere, a cura di G. Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962.

[2] Moderata Fonte nel suo Il Merito delle donne, pubblicato postumo nel 1600, sostiene il valore culturale e sociale delle donne.

[3] Lucrezia Marinella, La nobiltà et l’eccellentia delle donne, 1601.

[4] Sin dagli studi di Diana Robin queste donne sono state identificate come femministe ante litteram.

[5] Cfr. Marina Zancan, La donna, in Letteratura italiana. Volume quinto. Le Questioni, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1986, p.765.

[6] Clara Stella, Umanesimo e profezia: per una lettura delle Epistolae Familiares di Laura Cereta (1469-1499), in «Scienza e Politica per una storia delle dottrine», vol. XXXIV, n. 66, 2022, pp. 45-60 :  48.

[7] Le traduzioni qui presenti sono mie. Il manoscritto originale delle epistole, assemblato da Laura e contenente 82 lettere, è andato perduto, pur se si sa che esistevano quattro copie, andate perdute. Una «apparteneva all’erudito bresciano Ottavio Rossi e conserva il testo su cui basa l’editio princeps, curata a Padova nel 1640 da Jacopo Filippo Tomasini.  La seconda copia era di proprietà di Baldassarre Zamboni, ecclesiastico bresciano vissuto nel XVIII secolo. I due manoscritti a tutt’oggi esistenti sono Ve (Venezia, Biblioteca Marciana di Venezia, lat. XI, 28, 4186) e Vt (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3176), che contiene tutte le 82 lettere» (Matilde Icardi, Voci di donne umaniste. Dialoghi di Laura Cereta e Olimpia Fulvia Morata, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2022, pp. 45-46). L’editio princeps si può leggere online. Al momento non esiste una pubblicazione italiana con la trascrizione dell’intero epistolario di Cereta né un’edizione critica e tanto meno una traduzione completa dell’opera; l’unica traduzione è quella in inglese di Diana Robin (L. Cereta, Collected letters of a Renaissance feminist. Transcribed, translated and edited by Diana Robin, Chicago, The University of Chicago Press1997) che però non presenta il testo a fronte.  

[8] «Con ogni probabilità il nome Bibulo Sempronio, come suggerito da Sue Crowson, è un appellativo che tende a motteggiare il destinatario per la sua inclinazione al bere (da cui, Bibulo)», ma è difficile da stabilire chi sia davvero il personaggio (Silvia Lorenzini, Laura Cereta. Carteggi e corrispondenti, in Elisabetta Selmi, La scrittura femminile a Brescia tra il Quattrocento e l’Ottocento. Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 2001); Crowson suggerisce che esso stia a indicare «il prototipo degli uomini che disprezzano le donne erudite». Cfr. anche S. Crowson, A Renaissance Feminist in Self Defense: A rethorical Analysis of Laura Cereta’s Lettere «To Bibulo Semproni, In Defense of a Liberal Edication for Women’s», Texas Women’s University Press, s.d..

[9] La lettera, testo latino e traduzione, si può leggere in A. Iacono, Isotta Nogarola. Lettera a Damiano del Borgo, in Scrittrici del Medioevo. Un’antologia, a cura di Elisabetta Bartoli, Donatella Manzoli, Natascia Tonelli, Roma, Carocci, 2023, pp.112-115.

[10] Per le citazioni e le traduzioni mi servo di Giovanni Boccaccio De mulieribus claris, a cura di V, Zaccaria, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, dir. da Vittore Branca, vol. 10, Milano, Mondadori, 1967.  Cfr. anche la voce De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio ad opera di L. Trenti in La Letteratura Italiana Einaudi, diretta da A. Asor Rosa, Le opere, vol. I, Torino, Einaudi, 1996. Boccaccio iniziò a comporre il De mulieribus claris, una raccolta di biografie di 106 donne da Eva alle eroine mitologiche della Grecia e fino alle donne della Roma antica, nel 1361-1362 e la riprese in seguito rimaneggiandola. La possiamo leggere nel manoscritto autografo della Biblioteca Laurenziana di Firenze, Plut.  XC sup. 98, che contiene l’ultima redazione risalente al 1367-1370. Da segnalare anche Renzo Bragantini, Il Decameron e il Medioevo rivoluzionario di Boccaccio, Roma, Carocci, 2022.

[11] Queste lettere sono conservate nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Cfr. Giovanna Rao, a cura di, Il carteggio Acciaioli della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1996. Vedi anche Luisa Miglio, Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Roma, Viella, 2008. Per quanto riguarda Andreola vedi Giovanna Murano (a cura di), Autographa II. 1. Donne, sante e madonne (da Matilde di Canossa a Artemisia Gentileschi, Imola, Editrice La Mandragora, 2018, p.33-35.

[12] G. Boccaccio, Decameron, a cura di Marco Veglia, Milano, Feltrinelli, 2020.

[13]  Cfr. almeno Scrittrici del Medioevo. Un’antologia, cit..

[14] E. Bartoli, Lettere di donna: vita privata e pubblica nelle raccolte di modelli del XII secolo, in «De Medio Aevo», 10 (2), 2021, pp. 387-399.

[15] Christine de Pezan (2004). La città delle dame, edizione critica a cura di Patrizia Caraffi, Roma, Carocci, 2004.

[16] Mi permetto di rimandare al riguardo al mio L’ésprit n’a pas de sexe. Donne e istruzione nel Settecento, in    «Rassegna Europea della Letteratura Italiana», 61-62, 2023.

[17] Tiziana Plebani, T. (2007). Scritture di donne nel Rinascimento italiano, in G. Belloni e R. Drusi (a cura di), Umanesimo ed educazione. Treviso, Angelo Colla editore, 2007, pp. 243-263 : 245sgg.

[18] Non abbiamo notizie su Pietro Zeno o Pietro Zecchi da Padova e questa è l’unica lettera indirizzata a lui da Laura. Ciò che interessa sono le considerazioni di Cereta sul matrimonio, da lei chiaramente indicato come tema al destinatario con «de subendo maritali jugo», dove il verbo ‘subendo’ e il sostantivo ‘jugo’ alludono fin da subito alla fatica femminile nel sottostare al vincolo matrimoniale.

[19] Cfr. Federico Sanguineti, Per una nuova storia letteraria, Bologna, Argolibri, 2022¹.

[20] Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili, a cura di Rino Faranda, Milano, TEA, 1988. Cfr. Elsa Filosa, Tre studi sul «De mulieribus claris», Milano, LED, 2012, pubblicata online in «Medieval Sophia» 15-16, 2014

[21] Elsa Filosa, Tre studi…, cit. p. 155.

[22] Ipsicratea (I sec. a. C.-I sec. d. C.) fu l’ultima moglie di Mitridate VI, re del Ponto; per amore del marito, imparò l’arte militare e lo seguì sempre in battaglia, combattendo e vestendosi come un uomo. Quando il marito fu sconfitto da Pompeo, la moglie gli rimase fedele e lo seguì in esilio.

[23] Porzia (70-42 a.C.), figlia di Catone Uticense e moglie di Giunio Bruto, si suicidò inghiottendo dei carboni accesi, poco prima della sconfitta e della morte di Bruto a Filippi. Cfr. Valerio Massimo, Dictorum…, IV 6, 5: «… cum apud Philippos victum et interemptum virum tuum Brutum cognosses, quia ferrum non dabatur, ardentes ore carbones haurire non dubitasti…».

[24] Le clamidi erano una «Sorta di mantello di lana che gli antichi Greci portavano come indumento sia civile sia militare sopra la tunica, soprattutto andando in viaggio o a cavallo; aveva forma di rettangolo, con taglio a semicerchio sul lato superiore, ed era fermato con una fibbia sul petto o su una spalla; ad Atene veniva consegnata ai fanciulli quando raggiungevano i 18 anni». (Treccani, Vocabolario online). 

[25] Non si sa a quale fatto si riferisca Cereta. Boccaccio, De mulieribus…, cit., 65, intitolando De romana iuvencula, riporta il fatto ma senza indicare il nome della giovane donna. Cfr. anche Valerio Massimo, Dictorum…, cit., V 4, 7 De pietate erga parentes et fratres et patriam , e Plinio il Vecchio, Naturalis historia, VII 36, 121. Ricorda il fatto anche Christine de Pizan in La città delle donne, cit., 2. 11. 1.

[26] Cfr. nell’edizione del 1621 presso Gio. Battista Combi il Capitolo primo Delle donne scientiate, e di molte arti ornate. Questo testo digitalizzato si può leggere online in La nobiltà, et l'eccellenza delle donne, co' difetti, e mancamenti de gli ... - Lucrezia Marinelli - Google Libri. L’edizione del 1600 Appresso Giovan Battista Ciotti Senese, si trova nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna ed è anch’essa digitalizzata.

[27] P. Allen, The Concept of Woman, volume II: The Early Humanist Reformation, 1250-1500, Grand Rapids, MI-Cambridge UK, William B. Eermans Publishing Company, 2002, pp. 935-1050, su Cereta pp. 993-1008.

[28] Scrive Robin p. 152 «To Cereta, Fortune is simply the personification of contingency and to deify Fortuna is to indulge foolishlyin pagan superstition» e anche in questa lettera «Cereta’s De Fortuna» is part rhetorical showpiece and part self-consolation for the death of her husband, a subsidiary theme revealed only at the very end of the letter.»

[29] Il nome stesso rivela la propria natura di artificio. Tema dell’epistola è la condanna dell’avidità, di cui il lupo era, nella tradizione medievale, uno dei simboli per eccellenza”. (Lorenzini 2001, p. 350)