Simonetta Teucci - Dante da guelfo a ghibellino sulla scia del capitale

 

‘Capitale’ e ‘capitalismo’ saranno usati ante litteram, per quanto ‘capitale’ si trovi, citando quanto riportato da Pinto in La maledetta lupa del capitale, nel testo di Pietro di Giovanni Olivi in questi termini: «ciò che è destinato dal suo proprietario a un probabile profitto non è semplice denaro, esso ha una certa ragione seminale di profitto che comunemente chiamiamo capitale»,[1] in un contesto lontano da quello in cui storicamente è nato il vero capitalismo, sia che si tratti del tempo analizzato da Max Weber[2] sia della realtà studiata da Karl Marx,[3] quando esiste una struttura socio-economica diversa da quella medievale. Per Dante si potrebbe usare il termine cupiditas, che riassume gli aspetti materiali e spirituali medievali e che viene inquadrato nel sistema dei vizi capitali, nato nel V-VI secolo in ambito monastico e che si è via via adeguato ai cambiamenti della realtà, della cultura, delle vicende storiche.[4]

La trasformazione economica fiorentina fu dovuta, lo sappiamo, alla lavorazione del panno e alla manifattura laniera con la conseguente introduzione del capitale nel commercio, però Dante nella Commedia l’affronta soprattutto dal punto di vista della morale e sostiene che la ricchezza impedisce la perfezione morale, e in Paradiso XXVII 121-135 

 

Oh cupidigia, che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor de le tue onde!             123
   Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continüa converte
in bozzacchioni le sosine vere.                      126
   Fede e innocenza son reperte
solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
pria fugge che le guance sian coperte.          129
   Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta,
qualunque cibo per qualunque luna;             132
   e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera,
disïa poi di vederla sepolta.

 

vediamo come si scaglia contro chi (il “Popolo grasso”) tramite la ricchezza, si è fatto classe egemone e si è impadronito anche del potere politico, legandosi al Papato e alla casa di Francia. Tanto che Ramat commenta: «Firenze, diabolicamente legata alla Curia nella sua usurpazione temporale, è necessariamente antimperiale».[5]

Dante non è contrario all’attività economica in genere, ma è contro l’insaziabile avidità dell’accumulazione e contro la bramosia del lucro, che rompe l’armonia sociale, come si legge nel Convivio, quando commentando Le dolci rime distingue la ricchezza “lecita” da quella “illecita”: «licito [procaccio] dico, quando è per arte o per mercatantìa o per servigio meritante; illicito dico, quando è per furto o per rapina» (Cv. IV xi 7). 

La tradizione storiografica latina è portatrice di un nesso concettuale che lega espansionismo, arricchimento e degenerazione, e Sallustio, ad esempio, fa risalire la crisi di Roma a quando, dopo la vittoria su Cartagine, è venuto meno il metus hostilis, che aveva assicurato la misura e l’equilibrio del vivere sociale e l’unità interna di Roma. Non sappiamo se Dante abbia letto i testi sallustiani, sappiamo però che discorsi o passi tratti dalle monografie latine erano studiati come modelli di retorica. Facili e pressoché immediati risultano allora l’accostamento e la concordanza tra le parole di Sallustio e il pensiero che Dante sviluppa nelle sue opere. Leggiamo il paragrafo 10 (I 10. 2-6) del De Catilinae coniuratione:[6]

 

 [2] qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. [3] Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. [4] Namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. [5] Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. [6] Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.[7]

 

Si potrebbero usare molte delle parole di Sallustio per descrivere ciò che è accaduto nella Firenze dantesca, dove inizialmente il Comune è cresciuto grazie alla fatica e alla giustizia, «labore et iustitia», mentre in seguito all’espansione economica «primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit», dapprima crebbe il desiderio del denaro, poi il desiderio del dominio. È quanto è accaduto con l’ascesa della classe dei mercanti che, dopo aver ottenuto il controllo del potere economico si sono impadroniti di quello politico, sovvertendo il volto della città. Così i Neri si sono sostituiti ai Bianchi, nelle cui file militava Dante fin da giovane. Si tratta della lubido dominandi, che già Sallustio[8] additava come causa della corruzione nella Roma di Catilina. E in quel caso non si parla certo di capitalismo.

Infatti, se con capitalismo si intende un sistema economico, all’interno di un orizzonte produttivo sviluppato, in cui il capitale è di proprietà privata ed è retto da un’economia di libero mercato e di iniziativa privata, tale termine non è del tutto appropriato all’età di Dante, perché quel “sistema” nasce solo con l’apparire della grande industria. Invece nel Medioevo possiamo parlare di capitalismo commerciale, come specifica Rinaldo Comba:

 

Il capitalismo commerciale è un sistema economico in cui i mercanti-imprenditori controllano la produzione artigianale attraverso il controllo del lavoro a domicilio, disciplinandola fino ad adeguarla alle esigenze dei mercati più lontani. Per capitalismo industriale intendiamo invece un sistema in cui gli imprenditori non si limitano più a controllare la produzione, ma si preoccupano di riorganizzarla.[9]

 

In relazione all’economia medioevale (XIII-XV secolo) nella maggior parte dei casi possiamo parlare appunto di capitalismo commerciale e non dobbiamo assolutizzare quelle, per altro isolate, attestazioni di sviluppo industriale, o pre-industriale, che caratterizzano la fine dell’età medievale.

Il Nostro condanna l’eccessiva brama del denaro, che finisce per ostacolare il meccanismo della circolazione della ricchezza, in quanto l’accumulo del denaro e il suo non reinvestimento nel mercato lo rendono sterile, improduttivo e inutile per la società; da qui deriva la condanna di usurai, scialacquatori, avari e altri dannati infernali. Anzi sembra che per Dante proprio l’accumulo del denaro e l’immobilità finanziaria che ne scaturisce producano una instabilità politica globale, per contrastare la quale è necessario un potere politico sovraterritoriale, come sosterrà nella Monarchia.

Nelle vicende socio-politiche di Firenze tra ’200 e ’300 si confrontano e si contrappongono i Magnati da una parte e il Popolo dall’altra. Queste due definizioni non sono da intendersi in modo assoluto, perché al loro interno contenevano realtè socio-economiche variegate, coagulando in una sola denominazione (Magnati) la composita tradizione dell’appartenenza alle antiche famiglie nobiliari, a partire da quella nobiltà minore che abbandona la campagna per la città per sfuggire al predominio e alla violenza dei grandi feudatari, e per la quale la liberalità era, o meglio era stata, la cifra caratterizzante di chi possedeva ricchezze e proprietà fondiarie, per così dire ‘un capitale immobile’ e improduttivo, fino a quelle che si erano integrate nella militia con un’ascesa sociale dovuta agli ingenti guadagni. Mentre nell’altra parte (Popolo), costituita prevalentemente da membri delle Arti maggiori, era presente in modo specifico l’attenzione per il denaro, guadagnato con la propria attività, fosse quella di semplice artigiano o quella più lucrosa, per quanto più insidiosa, di mercante, di cambiavalute o addirittura di banchiere, se non di usuario. In questo secondo caso era il capitale mobile, cioè il denaro, che rappresentava l’oggetto del desiderio e che doveva essere reinvestito perché fruttasse altro denaro, senza dover passare necessariamente dalla sua fissazione, anche temporanea, in una merce. Mi limito a citare la famosa formula di Marx ne Il capitale: M-D-M diventa D-M-D e ora direttamente D-D.

È questo che fa sì che Dante punisca con l’inferno gli usurai (c. XVII), i simoniaci (c. XIX), i falsari (c. XXX), anche in considerazione che la morale cristiana e teologica condannava sia i chierici sia i laici che venivano irretiti dalla logica dell’accumulo improduttivo del denaro. Ma mostra anche l’interesse che il poeta nutre per le problematiche economico-finanziarie del tempo, ponendosi sul piano della misura nell’uso del denaro, sulla scia dei pensatori domenicani come Remigio de’ Girolami, piuttosto che su quello del ‘rischio d’impresa’, come invece predicavano i francescani e in particolare Pietro di Giovanni Olivi. Ma ciò non fa di Dante un anticapitalista.

Come avviene anche in altri periodi storici, chi possiede il potere economico capisce quanto questo possa essere rivoluzionario nell’ambito politico e così si serve del capitale per rafforzarsi ed estendersi sia socialmente che politicamente. Nemmeno la Chiesa medievale è immune dall’attrazione del denaro e del potere, nonostante che predichi la povertà, mentre operativamente riscuote le decime che diventano sempre più onerose, o meglio ne appalta la riscossione a famiglie di banchieri, fino a quella fiorentina dei Medici, nella persona di Cosimo il Vecchio. E sappiamo bene quale fu l’ascesa anche politica di questa famiglia.

Nella Firenze predantesca e dantesca erano prima i Guelfi e poi i Neri che in particolare detenevano la ricchezza mobile in una dimensione che possiamo chiamare capitalistica ante litteram. E i Neri erano di parte ‘popolare’!

In una vecchia conferenza dal titolo Dante e le attività economiche del tempo suo Giovanni Cherubini delinea con poche ma efficaci pennellate la realtà fiorentina tra il XIII e il XIV secolo, quando la città toscana non solo era una delle più popolate città europee, ma anche la più grande potenza economica e finanziaria d’Europa e grazie alle sue manifatture in campo lanifero dava da vivere alla popolazione urbana e a molte fasce di quella agraria, in quello scambio fruttuoso tra città e campagna, che fu la cifra caratterizzante del periodo e che rimane immortalata nel Buon governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Comunale di Siena.

Sappiamo che struttura e sovrastruttura sono strettamente legate e la prima influenza l’altra e viceversa; così i successi concreti dell’economia fiorentina provocarono un cambiamento ideologico, fornendo dignità alla mercatura, che piano piano sostituisce i suoi valori a quelli della precedente classe feudale e cavalleresca, quella dei magnati, dando importanza al desiderio sfrenato di guadagno, che Dante condanna come auri sacra fames (Aen. III, 57).

Per l’economia cosiddetta ‘classica’ i parametri da tenere in considerazione sono i dati pragmatici come “prezzi”, “profitto”, “interesse”, per affrontare invece un’analisi a più ampio raggio vanno considerati gli aspetti latamente culturali di un periodo, che tengano conto dell’immaginario collettivo, dei rapporti sociali, dei cambiamenti produttivi, perché sono le azioni e le scelte (non sempre del tutto quantificabili teoricamente) la spinta per un cambiamento. Si tratta di quella dialettica struttura/sovrastruttura che informa di sé la realtà storica, che non è rigida, ma procede sotterraneamente con fughe in avanti e ritorni indietro. Solo a posteriori forse è possibile ricostruire il cammino percorso. La letteratura – e questo è il caso - ci può offrire un valido strumento di comprensione.

Il Comune fiorentino nella seconda parte del Duecento tende a difendere la propria autonomia sul piano economico e su quello politico ed è la parte guelfa che se ne fa portabandiera, continuando per di più le rivalità delle fazioni dell’età immediatamente precedente. Dante sembra dominato sul piano politico da un desiderio a prima vista tutto medievale di restaurazione dell’impero, della reductio ad unum (desiderio che diventa più concreto con la discesa in Italia di Arrigo VII), e sembra desideroso di mantenere l’ordine sociale del passato, che appare essere stato sovvertito appunto dai mercanti e dai mercanti-banchieri attraverso la diffusione del «maledetto fiore». La differenza la fa questo “sembra”.

Cherubini conclude così il suo intervento:

 

Dante non capì la grandezza [dei nuovi mercanti] e respinse la loro funzione di costruttori di una nuova economia e di una nuova morale, ma ce ne lasciò, da par suo, e pur ripetendo il luogo comune dei mali prodotti dalla ricchezza, uno scorcio stupendo relativamente al loro preoccupato girovagare per strade e località diverse: “quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non pur di perdere l’avere ma la persona per l’avere! Ben lo sanno li miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che ’l vento fa menare, li fa tremare, quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni di securtade, cantando e sollazzando fanno loro cammino più brieve” (Cv. IV, 13)[10]

 

 

È proprio vero che Dante non capisce e respinge la funzione dei mercanti? Personalmente non lo credo e cercherò di chiarire il mio pensiero.

Nella Commedia due in particolare sono i passi nei quali egli evoca il tempo passato cittadino, nell’incontro con Farinata (If. X) e in quello con Cacciaguida (Pd. XV, XVI, XVII), nei quali si interroga soprattutto sulla coincidenza delle cause che hanno portato la crisi in Firenze, cioè quella «superbia, invidia e avarizia … ch’anno i cuori accesi» (If. VI, 74-75).

Quando Farinata apostrofa Dante ergendosi nell’arca infuocata, punta l’attenzione sugli accadimenti squisitamente politici della lotta tra guelfi e ghibellini, che hanno peraltro alla base strategie economiche. Dante, guelfo, e guelfo bianco, lo fa parlare legandolo al periodo in cui Farinata è stato attivo in Firenze come capo dei ghibellini, i discendenti delle famiglie magnatizie dei milites, che vedevano erodere la loro supremazia e il loro potere politico da parte del Popolo, al quale appartenevano i mercanti, i notai, i banchieri, quella che oggi chiamiamo genericamente borghesia, i quali tra l’altro avevano tutto l’interesse a usufruire dell’appoggio e della rete di contatti e di collegamenti che la Chiesa, per essere un potere sovranazionale, aveva creato da tempo e che si andavano rinsaldando con l’aumento del potere politico della Chiesa stessa, che istituzionalmente si opponeva all’Impero.

Nel 1262 si consolidò il legame dei Guelfi, o meglio della classe mercantile fiorentina, con il papato e con la casa angioina di Francia, che gran peso ebbero nei decenni a seguire nelle vicende e nella gestione del potere del Comune fiorentino. Nella città toscana si assiste a un profondo cambiamento istituzionale con quella che viene chiamata “rivoluzione di popolo”, a seguito della quale i mercanti-banchieri si legano appunto alla Francia e sostengono e finanziano le attività militari dell’asse papato-Francia.

Passare dal piano economico a quello politico è facile per i Guelfi, i quali esautorano ed esiliano i capi della fazione ghibellina, quando dopo il 1266, anno della sconfitta di Manfredi a Benevento, costoro non trovano più l’appoggio ideologico-istituzionale nell’Impero. Ora il ceto mercantile accede ai posti di comando e Brunetto Latini con le sue opere fornisce al Popolo gli strumenti culturali e direi ideologici per gestire il potere e affermarsi come classe dirigente.

Con il diffondersi dei commerci e del bisogno del denaro, diventa sempre più diffusa e per molti aspetti necessaria l’usura, o meglio il prestito a interesse. A più riprese Dante condanna l’usura anche se era molto diffuso il prestito a interesse, necessario per i mercanti e per le loro transazioni internazionali. Per questo motivo la condanna non contemplava, come scrive Montefusco,[11] i «grandi mercanti-banchieri cristiani e più in generale gli operatori del credito in relazione con i poteri politici del tempo», dai sovrani ai Comuni. Sono accusati di usura soprattutto gli ebrei, che erano fuori della giurisdizione cristiana, e coloro che si pongono fuori della circolazione virtuosa della ricchezza, perché la immobilizzano. Tale accusa non riguarda il mercante che porta avanti la sua attività, esponendosi sì al rischio, ma investendo il suo capitale e riuscendo a farlo fruttare invece che renderlo immobile.

Il Medioevo cristiano eredita dalla Bibbia il divieto assoluto del prestito usuraio, a partire dal “mutuum date nihil sperantes” di Luca (6, 35) e l’usura viene progressivamente condannata come eresia. In Dante troviamo il tradizionale divieto di “dare mutuum”, quando ad esempio in Inferno XI fa spiegare a Virgilio che l’usuraio disprezza la bontà divina perché mette la sua speranza in cose diverse dalla natura e dalla volontà di Dio: 

 

«Ancora in dietro un poco ti rivolvi»,

              diss’io, «là dove di’ ch’usura offende

 la divina bontade, e ’l nodo solvi».            96         

«Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende.

   Nota, non pure in una sola parte,

   come natura lo suo corso prende

dal divino ’ntelletto e da sua arte;

   e se tu ben la tua Fisica note,                  

              tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote

 segue, come ’l maestro fa ’l discente;

 sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente     

o Genesì dal principio, convene

  prender sua vita e avanzar la gente;    

e perché l’usuriere altra via tene,

 per sé natura e per la sua seguace

 dispregia, poi ch’in altro pon la spene»      111 

 (Inf. XI 94-111)

 

L’usura diventa il male che ha portato la città alla rovina, a causa dell’avarizia che ha generato, tanto che nel XVII canto dell’Inferno gli usurai sono tutti fiorentini, tranne un padovano. Non dobbiamo dimenticare che il padre di Dante era un prestatore “a consumo” e “usuraio manifesto”, e che era stato condannato per questa sua attività e che nella sua giovinezza Dante, anche per appartenenza familiare, ha assistito al mantenimento della proprietà fondiaria di ascendenza medievale. Se guardiamo alla storia della famiglia Alighieri, vediamo che il ramo a cui appartiene Dante apparteneva alla fascia media di coloro che esercitavano l’attività di cambio. Secondo Indizio[12] gli Alighieri dell’età pre-dantesca probabilmente si staccano (o si erano staccati) dalla militanza ghibellina, diventata piuttosto scomoda, e si erano fatti per lo più ‘popolari’, e quindi guelfi, e avevano intrapreso attività mercantili. In più il prestito di denaro, che in genere veniva garantito dal pegno di beni immobili, come le proprietà fondiarie, le quali diventavano del prestatore se il debitore era insolvente, avevano portato a Bellincione numerosi terreni ed è attestato che nel 1251 Bellincione fosse di parte popolare e di orientamento politico genericamente guelfo. Inoltre nel decennio 1250-1260 il regime guelfo popolare domina Firenze, dedicandosi da una parte alla buona amministrazione e dall’altra alle guerre sia esterne sia civili, purché queste fossero produttive per gli affari.

La diatriba se Dante era pro-capitalismo o anticapitalista è stata magistralmente affrontata da molti critici, che hanno passato al vaglio moltissimi testi danteschi, da Le dolci rime alla Monarchia. Nella vasta bibliografia, non si può non citare Pinto, che nel suo articolo La logica del mercato nelle prime riflessioni di Dante sull’economia fa risalire ai testi posteriori alla Vita nuova e alla polemica con Donna me prega di Cavalcanti il pensiero economico di Dante, e pone l’attenzione sulla coppia di canzoni Le dolci rime e Poscia ch’Amor, dove si trovano considerazioni utili al nostro discorso. Pinto mi scuserà se saccheggio brevemente quanto scrive. Ne Le dolci rime, Dante nega che le ricchezze possono essere il fondamento della nobiltà, perché per natura sono imperfette.  

 

            Ché le divizie, sì come si crede,                                      

non posson gentilezza dar né torre,                              

però che vili son da lor natura, […] (49-51)                

 

Che sian vili appare ed imperfette,                                

ché, quantunque collette,                                                 

non posson quīetar, ma dan più cura; (vv. 56-58)    

 

Qui si può vedere in filigrana il peso giocato da quei cambiamenti sociali e di mentalità, che troviamo già nella canzone Al cor gentil di Guinizzelli, per il quale la vera nobiltà non consiste nelle ricchezze ma nella disposizione dell’animo. 

 

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
  dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé                                             35
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’

sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.                      40

(G. Guinizzelli, Al cor gentil, vv. 31-40)

 

Nel IV libro del Convivio (Cv. IV xii 2) commentando Le dolci rime, Dante spiega che le ricchezze sono imperfette perché il loro desiderio e la loro acquisizione non ha limiti, come scrive Aristotele nella Politica quando distingue ciò che è necessario alla sopravvivenza, cioè il valore d’uso del denaro, dalla ricchezza come valore di scambio.

La seconda dottrinale, Poscia ch’Amor, prosegue Pinto, analizza le trasformazioni antropologiche prodotte dalla logica di mercato, e polemizza con coloro che nei loro comportamenti sono dominati da questa.

 

Qual non dirà fallenza                                                      

Divorar cibo ed a lussuria intendere?                               

Ornarsi, come vendere                                                      

Si dovesse al mercato di non saggi?                            

Ché ’l saggio non pregia om per vestimenta,                

ch’altrui sono ornamenta,                                              

ma pregia il senno e il gentil coraggi.  (vv. 32-38)       

 

Mi sembra perspicuo il parallelo tra i versi 36-38 e le parole di Cacciaguida quando nel Paradiso critica le nuove mode dei comportamenti fiorentini, e non si tratta di rimpiangere un tempo ormai passato bensì di stigmatizzare le false apparenze che stanno dilagando in Firenze.

Concordo con Pinto nel riconoscere che le trasformazioni dei ruoli politici e dei rapporti sociali in Firenze sono dovute proprio alla logica di mercato e Dante lo capisce bene e sa anche che, una volta innescato un processo di trasformazione, non è possibile tornare indietro. Tuttavia, pur accettando o adeguandosi alla deriva capitalistica dell’economia, non diventa un laudator temporis acti, come è stato dipinto basandosi sull’elogio dei costumi antichi fatto pronunciare da Cacciaguida, bensì capisce che è necessario limitare o comunque correggere le ‘perversioni’, così le definisce Pinto, causate dall’economia. 

Si vede il cambiamento dei costumi e della mentalità in modo esemplare nell’ostentazione dell’abito e di nuovi comportamenti grazie alle parole di Cacciaguida:  

 

Fiorenza dentro da la cerchia antica,

               ond’ella toglie ancora e terza e nona,

   si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,

               non gonne contigiate, non cintura

              che fosse a veder più che la persona.

(Pd. XV, 97-102)

 

 

e a quelle di Forese nel XXIII del Purgatorio 

 

Tempo futuro m’è già nel cospetto,

   cui non sarà quest’ora molto antica,

   nel qual sarà in pergamo interdetto

a le sfacciate donne fiorentine

   l’andar mostrando con le poppe il petto.

(Pg. XXIII 98–102)

 

La moda aveva fatto irruzione in modo prepotente sulla scena cittadina, come insegna Muzzarelli,[13] e nella seconda metà del Duecento le leggi suntuarie facevano parte degli statuti e prevedevano multe, da pagare anche anticipatamente, per chi indossava abiti troppo lussuosi. E come spesso accade, tali multe erano strettamente legate alle necessità dei Comuni di fare cassa, per cui erano accettate sia da chi pagava, perché poi poteva sfoggiare tutti gli abiti e i gioielli che voleva, sia dal Comune che rimpinguava l’erario pubblico. Ci sono pervenute le leggi suntuarie fiorentine del 1299, quando Dante era attivo nella vita politica della città e non poteva non conoscerle. Le parole di Cacciaguida pertanto sono in stretta relazione con le pratiche del tempo di Dante e solo apparentemente manifestano il rimpianto dantesco per il passato. Dante è consapevole che non è possibile tornare indietro e che il denaro e la moda sono ormai la cifra della sua epoca, ma auspica che questi due fenomeni possano essere mitigati, altrimenti la conseguenza sarà il totale fallimento politico e morale e la rovina della società. Troppo forte è la sua attenzione per quella che potremmo chiamare la ‘realtà effettuale’ del tempo.

La misura, di ascendenza aristotelica, è centrale nel disciplinamento suntuario, il cui scopo era quello di far convivere gli aggressivi cavalieri e i buoni mercanti, come nota Montefusco. La nuova cultura doveva riuscire a comporre alcuni tratti di quella cortese con alcuni aspetti di quella mercantile operando sui valori di liberalità e magnanimità ma anche di limite e di bene comune. Il Dante ormai esule stigmatizza gli avidi usurai e gli arroganti esibitori di ricchezze facendo intravvedere le terribili conseguenze negative di quegli atteggiamenti egoistici che avrebbero travolto, se non frenati, la vita sociale dei fiorentini (e non solo) e la tenuta morale della collettività. Stava parlando degli effetti di un’economia di mercato non disciplinata e riteneva che era compito di chi governava disciplinarla; a lui non restava che denunciare il fenomeno tramite la condanna dei comportamenti. Secondo me qui consiste il punto nodale, in quanto il poeta sostiene la necessità che l’economia di mercato sia disciplinata da un istituto politico, che progressivamente nel tempo riconosce nell’Impero, e non si pone in una posizione di anticapitalismo, ma di chi riconosce l’importanza del capitale purché sia ben gestito per il bene comune. È il cammino che lo porta alla Monarchia. Era stato proprio Brunetto Latini che aveva insegnato ai fiorentini e anche a Dante il concetto di bene comune, che contrastava con la gestione aristocratica e magnatizia delle ricchezze.

Così Dante individua nell’Impero l’unico rimedio e l’unico strumento, in quanto la politica, cioè la gestione della ‘cosa pubblica’, può contrastare le degenerazioni e ricondurre gli uomini sulla retta via. Ecco che la Monarchia teorizza, a parer nostro “ghibellinamente”, la necessità dell’Impero, che assurgendo a un ruolo super partes mette un freno a quel capitalismo deteriore che si è diffuso nei Comuni e nelle organizzazioni politiche territoriali, ma non all’uso saggio e oculato del capitale.  

 

Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est: tunc enim solum politie diriguntur oblique - democratie scilicet, oligarchie atque tyramnides - que in servitutem cogunt genus humanum, ut patet discurrenti per omnes; et politizant reges, aristocratici quos optimates vocant, ut populi libertatis zelatores; quia cum Monarcha maxime diligat homines, ut iam tactum est, vult omnes homines bonos fieri: quod esse non potest apud oblique politizantes. [10] Unde Philosophus in suis Politicis ait quod in politia obliqua bonus homo est malus civis, in recta vero bonus homo et civis bonus convertuntur’. Et huismodi politie recte libertatem intendunt, scilicet ut homines propter se sint. (Mn. I xii 9-10)[14]

 

Con sapienza dottrinale e con una argomentazione, per così dire, geometrica, Pinto in La maledetta lupa del capitale dimostra che Dante arriva alla teorizzazione della necessità dell’Impero, partendo dalle posizioni dell’autonomia del Comune, ma staccandosi progressivamente da quella politica e condannando le violenze degli scontri tra le consorterie della sua città. Segue cioè il cammino della reductio ad unum, applicandola all’ambito pragmatico e politico, che gli fa individuare appunto nella Monarchia l’Impero come unico e supremo potere, che può guidare gli uomini in terra. 

Già nella polemica contro l’Italia, quando nel canto XVI del Purgatorio per bocca di Marco Lombardo spiega: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse» (v. 97) e contro la Chiesa, i cui uomini hanno unito «la spada / col pasturale» (vv. 109-110), confondendo le due guide date da Dio agli uomini, sostiene la netta divisione del potere politico e civile da quello religioso. Tale affermazione lo situa chiaramente nella posizione di condanna dei chierici che hanno usurpato un potere che non spettava loro. In più Dante fin dalla giovinezza ha militato nelle file dei Bianchi, che si opponevano alla saldatura politica ed economica dei mercanti Neri con la Chiesa e con la Francia, e a quale altro potere politico, per così dire “innocuo”, non invasivo nella realtà fiorentina e comunale italiana, poteva guardare un uomo, mandato in esilio e che disperava di tornare a Firenze, se non quello imperiale? In più, quando scrive la Monarchia è immerso nella speranza della discesa in Italia di Arrigo, che avrebbe dovuto rifondarvi il potere imperiale e liberare l’Italia da tutti coloro che si erano impadroniti con l’inganno del potere legittimo.

Rispetto alla realtà fiorentina medievale Marx sostiene che il fiorino era il fattore dirompente che dissolveva i legami che avevano tenuto salda la comunità entro la cerchia antica. Per Marx il denaro è la comunità, e non può tollerarne un’altra che gli sia «superiore»; in questo caso la comunità superiore è quella della città comunale, che comincia a sgretolarsi proprio quando inizia la circolazione monetaria del fiorino. C’è bisogno allora di una comunità più grande e non territorialmente limitata che inglobi e regoli quella del denaro con un punto di vista superiore. Questa è l’Impero.

Rispondendo a un’intervista riguardante la crisi economica della Grecia dei primi anni ’10 di questo secolo, Giulio Tremonti[15] dichiara che è necessario «pensare a investimenti pubblici in beni di interesse collettivo». Cita poi il presidente francese Hollande, che aveva dichiarato: «Non ho denunciato il sistema finanziario nel suo insieme, ma gli eccessi della finanza deregolata, la deriva della speculazione e del capitalismo incontrollato».

Lungi da me voler fare un’attualizzazione fuori luogo e senza senso del pensiero di Dante, servendomi di questo esempio. Vorrei però sottoporre una ulteriore riflessione sulla posizione di Dante, che non condanna il capitale, ma la sua degenerazione capitalistica. Il nodo ideologico contro il quale lotta sono gli interessi economici che hanno stravolto l’ordinamento politico perché non sono più le ideologie che si confrontano, ma, almeno dalla parte dei Neri, l’interesse pecuniario, camuffato da ideologia, ha sovvertito un ordine che Dio provvidenzialmente ha posto sulla terra. Il continuo richiamarsi all’antica Roma e al suo impero fa capire inoltre che l’Impero attuale non è altro che l’erede di quello antico, voluto da Dio per unire e pacificare gli uomini nel suo disegno provvidenziale.

 

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,

   due soli aver, che l’una e l’altra strada

   facean vedere, e del mondo e di Deo.

 L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada

   col pasturale, e l’un con l’altro insieme

   per viva forza mal convien che vada;

però che, giunti, l’un l’altro non teme:

(Pg. XVI, 106-112)

 

 

Nel dibattito politico a cavallo dei due secoli siamo di fronte a un punto in comune tra chi sostiene la supremazia del pontefice, anche in campo politico, e che possiede il diritto di conferire o togliere l’autorità che i sovrani esercitano sui sudditi, e chi sostiene invece l’autonomia del potere politico da quello religioso e l’unicità dell’imperatore in campo politico e civile. Tolomeo da Lucca sviluppa sul piano squisitamente politico il pensiero di Tommaso rispetto alla superiorità del potere papale, mentre Marsilio da Padova (1275-1342) nel suo Defensor pacis (1324) elabora una teoria non teocratica dello Stato. E sostiene che la Chiesa, pur essendo la custode della legge divina, non ha il potere temporale, per cui è subordinata allo Stato, alle sue leggi e a colui che incarna e regge le sorti dello Stato (Defensor pacis, XIX, 11-13). Mi sembra significativa la sua affermazione, molto pragmatica, che gli uomini tendono a una «vita sufficiente», cioè una vita che possa soddisfare i bisogni e le necessità essenziali; quello che Dante chiama «il bene comune». 

 

Ma il vivere e il ben vivere conviene agli uomini in due diversi modi, l’uno dei quali è temporale o terreno, mentre l’altro vien detto di solito eterno o celeste. Tuttavia l’intero genere dei filosofi non è stato capace di provare per via dimostrativa questo secondo modo di vivere, ossia l’eterno […]. Ma i famosi filosofi hanno inteso quasi completamente, per via di dimostrazione, quel primo modo di vivere e di viver bene che abbiamo detto terreno ed anche i suoi mezzi necessari. E conclusero che, per raggiungerlo, è necessaria la comunità civile senza la quale non potrebbe esser mai raggiunta la vita sufficiente. (Defensor pacis, VI 3)[16]

 

Le cose non sono statiche, ma si muovono, si trasformano con il passare del tempo e nel loro movimento incidono sul modo di pensare degli uomini. A Dante succede la stessa cosa. Si è schierato politicamente in Firenze, ha subìto l’esilio, ha cambiato castelli e città, è stato alla corte di diversi signori, dai conti Guidi del Casentino, ‘neri’, a Moroello, ‘nero’ in Lunigiana, agli Scaligeri a Verona, ‘ghibellini’ e vicari dell’imperatore, ai Da Polenta a Ravenna. A tutti costoro ha dovuto la sopravvivenza e presso le loro corti ha potuto intessere rapporti anche di tipo politico. Ciò può spiegare almeno in parte il progressivo avvicinamento dantesco ai ghibellini, ma di sicuro ebbero un peso notevole l’esilio e la separazione dai Bianchi, già quando prima del tentativo della Lastra (1304) decise di fare «parte per se stesso», momento che secondo Edoardo Sanguineti «diventa perfettamente leggibile come momento sublimato e ideologizzante del lacerarsi del tessuto sociale cittadino».[17]

Ed è precisamente per questa via che Dante, facendosi ghibellino convinto, approfondisce la condanna tutta politica nei confronti della forma-Comune, e argomenta sempre più a fondo la necessità dell’Impero, il quale sarà risolutivo per l’umana convivenza perché cancellerà una dimensione economica che è la fine di ogni armonia sociale.

Dante vede che nel Comune si è verificata una saldatura tra potere economico e potere politico tale che risulta impossibile un controllo da parte di quello politico perché gli attori dell’uno e dell’altro sono gli stessi. Questa è la spinta che lo fa diventare ‘ghibellino’ ed esaltare l’Impero. Ha a disposizione le categorie politiche del tempo e per sostenere la necessità del controllo politico sull’economia si rivolge a un potere non territorialmente limitato e che non identifichi tout court l’attività politica con quella economica ma la controlli da un’ottica superiore. Solo l’Impero può rappresentare per lui questo controllo autonomo e indipendente da interessi peculiari e che corrisponde all’ideale di misura e di equilibrio di matrice aristotelica.

Per dirla con Diego Quaglioni «La Monarchia […] non è ideologica né utopica, ma paradossalmente realistica».[18]

 

 

Bologna, 11 giugno 2025

 

 


 

[1] Cfr. Raffaele Pinto, La maledetta lupa del capitale, Introduzione, Firenze, Cesati, 2022, p. 9, e Pietro di Giovanni Olivi, Un trattato di economia politica francescana: il “De emptionibus et venditionibus de usuris, de restitutiionibusdi Pietro di Giovanni Olivi, Roma, nella sede dell’Istituto, 1980.

[2] Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, traduzione di Anna Maria Marietti, Milano, BUR, 1991.

[3] Karl Marx, Il capitale, a cura di Eugenio Sbardella, traduzione di Ruth Meyer, Milano, Newton Compton, 2015.

[4] Cfr. Carla Casagrande, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000.

[5] Raffaello Ramat, Il mito di Firenze e altri saggi danteschi, Messina-Firenze, D’Anna 1976, p. 121.

[6] C. Sallustio Crispo, De Catilinae coniuratione, prefazione e traduzione di Luca Canali, Bologna, Pàtron, 1998.

[7] «[2] coloro che sopportavano le fatiche, i pericoli, le situazioni difficili e aspre, a costoro l’ozio e le ricchezze, desiderabili in altre situazioni, furono motivo di peso e di miseria. [3] Cosicché dapprima crebbe il desiderio del denaro, poi il desiderio del dominio; queste furono quasi la materia di tutti i mali. [4] Infatti l’avidità sovvertì la lealtà, la lealtà e le altre buone arti: al loro posto insegnò la superbia la crudeltà, il disprezzo degli dei, a possedere tutto ciò che aveva un valore economico. [5] l’ambizione spinse molti uomini a diventare falsi, ad avere chiusa nel cuore una cosa, ad averne un’altra sulla punta della lingua, a dare un valore alle amicizie e alle inimicizie non dalla realtà, ma dall’interesse, ad avere più il volto che l’animo buono. [6] Dapprima queste cose crebbero a poco a poco, talvolta furono puniti, poi quando il contagio si diffuse come una pestilenza, la città cambiò, il potere da giustissimo e ottimo divenne crudele e intollerabile.»

[8] Scrive Sallustio che a Roma «pro pudore, pro abstinentia, pro virtute audacia, largitio avaritia vigebant» (De Cat. con. III 3)

[9] Rinaldo Comba, Storia Medievale, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2012, p. 279.

[10] Giovanni Cherubini, Dante e le attività economiche del tempo suo, in «Rivista di storia dell’agricoltura», vol. 29, n. 2, 1989, pp. 3-17.

[11] Cfr. Antonio Montefusco, Banca e poesia al tempo di Dante, In Ciclo di conferenze e seminari, “L’uomo e il denaro,” Milano, Università cattolica del sacro cuore, 23 Gennaio 2017, pp. 9–45 : 6, Quaderno 58, 2017.

[12] Giuseppe Indizio, Problemi di biografia dantesca, Ravenna, Longo, 2014.

[13]  Cfr. Maria Giuseppina Muzzarelli, Dante e la dismisura: osservazioni dal caso del disciplinamento suntuario e del prestito convenzionato, in «Dante Studies», 2020; cfr. anche Reconciling the Privilege of a Few with the Common Good: Sumptuary Laws in Medieval and Early Modern Europe, In «Journal of Medieval and Early Modern Studies» 39, no. 3, 2009, pp. 597–617

[14] «[9] Il genere umano soltanto sotto l’impero del Monarca vive per sé e non per gli altri: ché solo così vengono raddrizzate quelle forme di deviazione politica (vale a dire democrazie, oligarchie, tirannidi) che riducono il genere umano in servitù, come è chiaro a chi tutte le passi in rassegna, e si ha il buon governo dei re, degli aristocratici detti ottimati e dei fautori della libertà democratica, perché il Monarca, amando gli uomini come nessuno, come si è già accennato, vuole che sieno buoni, e questo non può avvenire con forme di governo aberranti. […] in un governo ortodosso l’uomo buono e il buon cittadino vengono a coincidere. [10] Per questo il Filosofo nella sua Politica dice che in una forma di degenerazione politica l’uomo che segue il bene è un cattivo cittadino, mentre in un governo ortodosso l’uomo buono e il buon cittadino vengono a coincidere. E i governi di quest’ultimo tipo volgono la libertà a retto fine cioè nel senso che gli uomini devvano vivere per sé.»

[15]Tremonti: Un freno agli eccessi della finanza, in «Gazzetta di Parma» intervista a cura di Domenico Cacopardo del.’11-03-2012.

[16] Marsilio da Padova, Il difensore della pace, a cura di C. Vasoli, Torino, Utet, 1975.

[17] Edoardo Sanguineti, Saggio introduttivo a L.M. Batkin, Dante e la società italiana del trecento, Bari, De Donato, 1970, p. 8.

[18] Dante, Monarchia, edizione commentata a cura di Diego Quaglioni, Milano, Mondadori, 2015.