Quanto è attuale Pasolini oggi? Ha ancora qualcosa da dirci? Io credo di sì. Anche riletto ai nostri giorni, Pasolini colpisce per la sua vitalità, è un autore che continua a parlare e a provocare. Ciò accade perché le contraddizioni e le tensioni del nostro mondo sono affrontate e in qualche modo profetizzate dalla sua opera: noi viviamo le conseguenze esasperate di quel processo di trasformazione socioculturale colto in particolare negli Scritti corsari.
Leggere il Pasolini corsaro in una classe dell’ultimo anno della scuola superiore significa non solo ripercorrere alcuni passaggi chiave della storia recente del nostro paese, ma soprattutto proporre agli studenti un autore in grado di farli riflettere sul nostro presente, sul suo fascino e sulle sue contraddizioni.
Il presente contributo vuole suggerire una traccia per compiere questo viaggio.
1. Le premesse: dalla letteratura dell’impegno alla crisi degli anni Sessanta
Gli Scritti corsari sono un’opera degli anni Settanta, ma per comprenderli è necessario fare qualche passo indietro e ripercorrere, pur sinteticamente, quanto accaduto in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, perché lì affondano le radici dei problemi in essa trattati
L’Italia esce dal disastro del fascismo e della Seconda guerra mondiale radicalmente trasformata; distrutta dal conflitto bellico, assapora una nuova libertà dopo gli anni della dittatura (dalla monarchia alla repubblica), ma nello stesso tempo si trova di fronte a un mondo diviso in due blocchi che fanno capo a USA e URSS. Sono gli anni della ricostruzione, ma anche dell’inizio della guerra fredda.
Per la cultura italiana è un periodo di grande fermento: nella Presentazione del 1964 alla nuova edizione de Il sentiero dei nidi di ragno (1947) Italo Calvino parla di una «esplosione letteraria» che è stata, «prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo»[1] Tanti intellettuali, sentendosi depositari di «un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero»,[2] avvertono la responsabilità di dare il loro contributo per cambiare la società rendendola più giusta, più equa e più libera. A metà degli anni Cinquanta, descrivendo il clima dell’immediato dopoguerra, Pasolini afferma che «la caduta del fascismo ha fatto sì che tutto ciò ch’era rimasto implicito e compresso nel mondo culturale italiano per venti anni, si sfogasse, irrompesse a un tratto alla luce». In un altro passo, riferendosi alle opere più riuscite del tempo, ricorda con ammirazione «quegli stupendi giorni del ’46, del ’47 in cui Roma città aperta e La terra trema, Cristo si è fermato a Eboli e il “Politecnico”, erano prodotti appena creati, segni di un rinnovamento e di una passione che si presentavano come assoluti».[3]
La letteratura vuole fare la sua parte per risvegliare le coscienze, così che l’incubo del fascismo non possa ripetersi più: la parola d’ordine è “impegno”, come attiva partecipazione ai problemi sociali e politici del paese; la poetica dominante è il realismo. Anche Pasolini condivide queste preoccupazioni e da qui nascono le sue opere degli anni Cinquanta: tanto i romanzi Ragazzi di vita (1955), il primo grande successo, e Una vita violenta (1959), quanto la poesia de Le ceneri di Gramsci (1957) perseguono un «allargamento contenutistico», nel senso di apertura al mondo degradato e innocente delle periferie, che «era un effetto della poetica del realismo, e quindi dell’impegno sociale».[4]
Ma le cose sono destinate a cambiare. Negli anni Sessanta grazie al boom economico l’Italia diventa un paese industriale a tutti gli effetti, con conseguenze impressionanti sulla crescita del reddito pro capite e sull’innalzamento del tenore di vita. Aumenta la capacità di spesa: si diffondono le automobili e nelle case degli italiani iniziano a comparire i primi elettrodomestici. Per larghi strati della popolazione diventa possibile un’esistenza meno occupata dal lavoro, con più spazio per il tempo libero; si diffonde quello stile di vita che i sociologi chiamano “cultura del consumo” o “consumismo”.
Si tratta di cambiamenti profondi all’interno della società italiana, che investono e trasformano la vita delle persone: un mondo finisce e uno nuovo inizia. Il contraccolpo si avverte anche in campo culturale, tanto che gli osservatori più attenti se ne accorgono in fretta. Il 4 febbraio 1965 su «Vie nuove», il settimanale del PCI, Pasolini scrive: «All’inizio degli Anni Sessanta si è avuto nella cultura italiana uno di questi ‘momenti zero’: finiva un’epoca e ne cominciava un’altra».[5] Si tratta di un giudizio che dieci anni dopo Calvino si trova a condividere:
Ciò che è avvenuto durante gli anni Sessanta è qualcosa che ha cambiato in profondità molti dei concetti con cui avevamo avuto a che fare, anche se si continua a chiamarli con gli stessi nomi. Non sappiamo ancora cosa significherà tutto questo come effetti ultimi sul futuro della nostra società, ma già sappiamo che c’è stata una rivoluzione della mente, una svolta intellettuale. […] Tutti i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo sono messi in questione. Non solo quelli più legati a valori storici, ma anche quelli che sembravano essere categorie antropologiche stabili: ragione e mito, lavoro ed esistenza, maschio e femmina, e persino le polarità delle topologie più elementari: affermazione e negazione, sopra e sotto, soggetto e oggetto.[6]
Sul fronte letterario si registra il tramonto delle poetiche realistiche che avevano dominato il decennio precedente[7] e questo, per molti, coincide con la fine dell’epoca dell’impegno. In una conferenza, tenuta il 27 novembre 1964 a Torino per l’Associazione Culturale Italiana, Pasolini dipinge un quadro sconfortante:
Ci troviamo dunque in un momento della cultura imponderabile, in un vuoto culturale, popolato da scrittori ognuno dei quali non fa che seguire una propria storia particolare, come un’isola linguistica o un’area conservatrice. Non si tratta della solita crisi, ma di un fatto del tutto nuovo, che evidentemente si ripercuote dalle strutture della società.[8]
Per Pasolini le prime avvisaglie di questa crisi e del fallimento del progetto degli anni Cinquanta sono di natura linguistica; le riconosce nel farsi strada di una lingua tecnico-scientifica nuova, una lingua più povera che «si presenta come omologatrice delle altre stratificazioni linguistiche» tipiche dell’italiano letterario.[9] Nel suo carattere “omologante” Pasolini identifica l’elemento distintivo della nuova epoca; ciò che in quel momento si manifesta a livello linguistico, dieci anni più tardi, al tempo degli Scritti corsari, sarà pervasivo a livello sociale.
La letteratura sembra aver perso la propria battaglia per cambiare il mondo, finendo per essere solo un prodotto tra tanti, addomesticata dalla nuova società dei consumi. Così nel 1964 Calvino osserva amaro:
Oggi che scrivere è una professione regolare, che il romanzo è un “prodotto”, con un suo “mercato”, una sua “domanda” e una sua “offerta”, con le sue campagne di lancio, i suoi successi e i suoi tran-tran, ora che i romanzi italiani sono tutti “di buon livello medio” e fanno parte della quantità di beni superflui di una società troppo presto soddisfatta, è difficile richiamarci alla mente lo spirito con cui tentavamo di ricominciare una narrativa che aveva ancora da costruirsi tutto con le proprie mani.[10]
Lo stesso Calvino, che dopo i fatti di Budapest del 1956 si era dimesso dal PCI, nel 1965 pubblica Le cosmicomiche: l’opera può essere presa come manifesto di una letteratura che si allontana sempre più dall’impegno per cambiare il presente e si chiude in se stessa, esplorando con distacco ironico i propri meccanismi e la propria capacità di dare vita a mondi immaginari. Siamo agli albori del postmoderno.
La strada intrapresa da Pasolini è differente: non una rinuncia, ma una svolta radicale. Si apre per lui una stagione nuova, di «piena ricerca»[11] e incessante sperimentazione: da una parte egli accentua le riflessioni sulle trasformazioni culturali in atto e sui processi distruttivi del neocapitalismo, dall’altra esaspera la ricerca di strumenti espressivi nuovi, in grado di resistere al consumo estetico e capaci di lasciare il segno o «raggiungere la vita in modo più completo».[12] In questa ottica deve essere inteso non solo il esordio come regista cinematografico, ma anche la collaborazione con riviste e periodici. Dal 1960 al 1965 tiene la rubrica «Dialoghi con Pasolini» sul settimanale comunista «Vie Nuove», nella quale risponde ai lettori; dal 1968 al 1970 cura uno spazio intitolato «Il caos» sul periodico romano il «Tempo»: sono le prime esperienze di un nuovo tipo di rapporto con il pubblico, un rapporto diretto e non mediato come in letteratura, preludio alla stagione degli Scritti corsari.
2. Gli Scritti corsari
Nel gennaio 1973 il direttore del «Corriere della Sera» Piero Ottone propone a Pasolini di collaborare con il suo giornale, affidandogli la rubrica «Tribuna aperta». Si tratta di una scelta coraggiosa: il «Corriere» è il giornale dell’establishment, della borghesia industriale del nord Italia, mentre Pasolini è un intellettuale famoso, ma discusso e controcorrente. All’inizio la collaborazione stenta a decollare – tre soli articoli nel 1973 –, ma dal giugno dell’anno successivo il giornale sposta la rubrica di Pasolini in prima pagina. I suoi interventi prendono spunto da fatti di cronaca per riflettere su questioni più ampie, di politica, costume, società e religione; spesso danno vita a dibattiti o polemiche, che proseguono sulle pagine del «Corriere» o di altri giornali.
Come detto, non è la prima volta che Pasolini scrive su un giornale, ma è la prima volta che decide di raccogliere i suoi interventi e pubblicarli in volume, dando loro risalto e valore: nel 1975, poco prima della sua morte, escono gli Scritti corsari. L’opera è articolata in due sezioni: la prima, Scritti corsari, comprende articoli usciti sul «Corriere della Sera» e su altri giornali; la seconda, Documenti e allegati, raccoglie recensioni letterarie e scritti polemici pubblicati in altre sedi.
Per parlare degli Scritti corsari ci soffermeremo su tre parole – potere, omologazione e cuore –, attraverso le quali cercheremo di delineare i nuclei dell’opera, le preoccupazioni che agitano Pasolini in questi anni, i caratteri della sua scrittura “corsara” e la sua capacità di interpellare anche il lettore di oggi. L’intento non è, evidentemente, quello di sviluppare una trattazione analitica, ma piuttosto quello di suggerire alcune coordinate per orientarsi e stimolare approfondimenti ulteriori.
3. Potere
«Che cos’è la cultura di una nazione?», si chiede Pasolini nell’incipit di Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo (24 giugno 1974).[13] È la somma di tutte le culture di classe, culture che «per molti secoli», nel nostro paese, «sono state distinguibili anche se storicamente unificate». Oggi invece tali culture sono cancellate e omologate dall’opera di «un nuovo Potere».[14] Con il termine “potere”, indefinito ma retoricamente rilevato dall’antonomasia, Pasolini indica la forza che ha introdotto uno sconvolgimento violento nella società italiana. E prosegue:
Scrivo «Potere» con la P maiuscola […] solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. […] questo Potere ha anche «omologato» culturalmente l’Italia: si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre.[15]
In un articolo precedente, intitolato Acculturazione e acculturazione (9 dicembre 1973), Pasolini sostiene che attraverso l’offerta seduttiva e rassicurante del benessere, il nuovo Potere, che assume il volto del «centralismo della civiltà dei consumi», ha cambiato l’Italia, è riuscito lì dove il «centralismo fascista» aveva fallito.[16] Infatti,
Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. Si può dunque affermare che la «tolleranza» dell’ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.[17]
Secondo Pasolini, il Potere ha potuto realizzare la propria opera di repressione «attraverso due rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e «la rivoluzione del sistema d’informazioni».[18] Non si tratta, ed è questo l’aspetto significativo, di rivoluzioni violente; esse hanno l’aspetto apparentemente innocuo della modernizzazione del paese, eppure il loro avvento è gravido di conseguenze. Infatti, le strade – l’Autostrada del Sole, che collega l’Italia da nord a sud, viene inaugurata il 4 ottobre 1964 – e la diffusione della motorizzazione «hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale», mentre
la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza.[19]
In che modo? Proponendo un «nuovo tipo di vita “edonistico”»,[20] una cultura che umilia l’uomo e che è ben rappresentata da un programma televisivo come “Carosello”,[21] con i suoi sketch comici seguiti da messaggi pubblicitari, nel quale «esplode in tutto il suo nitore, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani “devono” vivere».[22] La caratteristica vincente del «bombardamento ideologico televisivo» è il fatto di non essere esplicito, di proporsi non attraverso un messaggio razionalmente argomentato, ma attraverso modelli rappresentati:
mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto decantato: è presentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico mimico, il linguaggio del comportamento.[23]
Sono pagine che possiamo comprendere senza sforzo, perché la globalizzazione – annullamento delle distanze, economia interconnessa, social media – non ha fatto altro che esasperare queste dinamiche, e perché la violenza dell’ideologia del consumo si esprime oggi in modi ancora più pervasivi.
4. Omologazione
Il prodotto del Potere della civiltà dei consumi è un livellamento verso il basso, un impoverimento culturale mai visto prima, una vera e propria «rivoluzione antropologica» che Pasolini indica con il termine di “omologazione”. I due articoli che meglio aiutano a capire questo aspetto sono Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia (10 giugno 1974)[24] e Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia (11 luglio 1974),[25] nei quali Pasolini analizza la vittoria schiacciante del “no” al referendum del 12-13 maggio 1974 per l’abolizione della legge sul divorzio, la cosiddetta “legge Fortuna-Baslini”, approvata dal Parlamento italiano nel dicembre 1970. Il referendum abrogativo, fortemente voluto dalla Conferenza Episcopale Italiana e da parte della Democrazia Cristiana, si rivela una disfatta per il fronte cattolico. Dopo una campagna molto accesa, al voto partecipa l’87,7% degli aventi diritto e la sconfitta del movimento referendario è netta: solamente il 40,7% si esprime a favore del “sì”, mentre i “no” raggiungono il 59,3% dei voti. La legge sul divorzio rimane in vigore.
Le forze progressiste di sinistra salutano l’esito del referendum come una vittoria della loro linea politica, ma Pasolini ha un giudizio diverso:
La mia opinione è che il cinquantanove per cento dei «no», non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due cose:
1) che i «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.
2) che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.).
Il «no» è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una «mutazione» della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista.[26]
Pasolini vede nella vittoria del fronte del “no” un sintomo di un cambiamento estremo ormai compiuto: «ogni forma di continuità storica si è spezzata» e «lo “sviluppo”, pragmaticamente voluto dal Potere […] ha radicalmente “trasformato”, in pochi anni, il mondo italiano».[27] Si tratta di qualcosa di «enorme», di un fenomeno «di “mutazione” antropologica» che ha ormai «mutato i caratteri necessari al Potere»; è ormai nata una «cultura di massa» con «delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica» tali da creare un Potere «che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini».[28] Mentre il potere fascista per legittimarsi aveva ancora avuto bisogno di appoggiarsi a una certa cultura e tradizione italiana, il nuovo Potere può ormai farne a meno:
L’omologazione «culturale» che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa.[29]
Come immaginabile, l’intervento scatena un acceso dibattito, a cui partecipano intellettuali e scrittori come Maurizio Ferrara, Alberto Moravia, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. Pasolini, convinto di essere stato equivocato, decide di rispondere, tornando sul tema con una intervista a cura di Guido Vergani apparsa sul «Mondo» l’11 luglio 1974 (Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia).
È un’ulteriore occasione per descrivere l’omologazione degradante che egli vede, con preoccupazione, farsi strada nella società italiana e che colpisce soprattutto i più deboli, come i giovani. Per farsi capire ricorre a un’immagine:
Oggi anche nelle città dell’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla: anche qui non si nota più alcuna differenza sostanziale, tra i passanti (soprattutto giovani) nel modo di vestire, nel modo di camminare, nel modo di esser seri, nel modo di sorridere, nel modo di gestire, insomma nel modo di comportarsi. […] è invece un fenomeno negativo da gettare in uno stato d’animo che rasenta il definitivo disgusto e la disperazione.
La proposizione prima di tale linguaggio fisico-mimico è infatti la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali».
L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui «deve» obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L’uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una «falsa» uguaglianza ricevuta in regalo.[30]
Poi aggiunge:
Una delle caratteristiche principali di questa uguaglianza dell’esprimersi vivendo, oltre alla fossilizzazione del linguaggio verbale (gli studenti parlano come libri stampati, i ragazzi del popolo hanno perduto ogni inventività gergale) è la tristezza: l’allegria è sempre esagerata, ostentata, aggressiva, offensiva. La tristezza fisica di cui parlo è profondamente nevrotica. Essa dipende da una frustrazione sociale. Ora che il modello sociale da realizzare non è più quello della propria classe, ma imposto dal potere, molti non sono appunto in grado di realizzarlo. E ciò li umilia orrendamente.[31]
La falsa uguaglianza diffusa dal Potere è in realtà una «uniformità» e ha come nota dominante la «tristezza»; ma si tratta di una tristezza «profondamente nevrotica», che dipende dall’impossibilità a realizzare i modelli sociali imposti. La società del benessere non ha migliorato la vita degli italiani, ma ha portato «ansia» e «frustrazione». È osservando questi effetti che Pasolini comprende il pericolo delle trasformazioni in atto e lancia il suo grido di allarme contro la violenza omologante che genera solo «angoscia»:
Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione? La condizione contadina o sottoproletaria sapeva esprimere, nelle persone che la vivevano, una certa felicità «reale». Oggi, questa felicità – con lo Sviluppo – è andata perduta. Ciò significa che lo Sviluppo non è in nessun modo rivoluzionario, neanche quando è riformista. Esso non dà che angoscia.[32]
Il metro di giudizio di Pasolini non può non sorprendere: per lui il vero banco di prova di ogni rivoluzione, il punto da guardare per misurare il progresso di una società è semplicemente la felicità delle persone.
5. Cuore
Pasolini torna sul tema il 1° febbraio 1975 in un testo famoso, L’articolo delle lucciole,[33] nel quale descrive la trasformazione avvenuta nella società italiana attraverso una metafora: il tramonto dei valori del «vecchio universo agricolo e paleocapitalistico» («Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità») è paragonato alla scomparsa delle lucciole dovuta all’inquinamento dell’aria e dell’acqua.[34] Si è prodotto un trauma «fulmineo e folgorante», che ha portato non «a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana»: gli italiani «sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale».[35] Poi aggiunge «Basta soltanto uscire per strada per capirlo», infatti:
per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione.[36]
Pasolini avverte “sulla sua stessa pelle” («con i miei sensi») il dramma di cui parla, non riesce a mantenere il distacco imperturbabile dell’intellettuale perché la sua non è un’analisi ma un grido di dolore, come spiega all’amico Moravia in un altro articolo intitolato «Sacer»:[37]
[…] tu [Moravia] scherzi sul fatto che «da qualche tempo la mia bestia nera è il consumismo»: tale tuo scherzare mi sembra un po’ qualunquistico in quanto riduttivo. Lo so bene, tu sei pragmaticamente per accettare lo status quo, ma io, che sono idealistico, no. «Il consumismo c’è, che ci vuoi fare?» sembri volermi dire. E allora lascia che ti risponda: per te il consumismo c’è e basta, esso non ti tocca se non, come si dice, moralmente, mentre dal punto di vista pratico ti tocca come tocca tutti. La tua profonda vita personale ne è indenne. Per me no, invece. In quanto cittadino, è vero, ne sono toccato come te, e subisco come te una violenza che mi offende […]: ma come persona (tu lo sai bene) io sono infinitamente più coinvolto di te. Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. […] È da quest’esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea, che nascono in conclusione tutti i miei discorsi ideologici. In quanto trasformazione (per ora degradazione), antropologica della «gente», per me il consumismo è una tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, taedium vitae, accidia e, infine, come rivolta idealistica, come rifiuto dello status quo. Non vedo come possa un amico scherzare sopra tutto questo.[38]
L’origine di «tutti i suoi discorsi ideologici» è una «esperienza, esistenziale, diretta, concreta, drammatica, corporea», che lega Pasolini alla sorte della “gente” che gli vive accanto. Grazie a questo “radar” egli riesce a denunciare ciò che nessuno sembra vedere e a sentire con dolore ciò che tutti sembrano accettare. L’occhio con cui Pasolini osserva i cambiamenti della società italiana non è quello del politico, dell’economista o del sociologo, ma lo sguardo partecipe e carico di pietà del poeta. È uno sguardo che lui stesso, in una intervista di Enzo Biagi del 1971, definisce “religioso”: «il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico. Vedo sempre le cose come un po’miracolose […] ho una visione, in maniera sempre informe, non confessionale, ma in un certo qual modo religiosa del mondo»;[39] si tratta, aggiunge altrove, di «una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la profondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose».[40]
Al contrario, il nuovo potere «consumistico e permissivo» è per natura nemico di questo senso del sacro, argine di fronte alla riduzione della vita a meccanismo, a qualcosa di manipolabile a piacimento. L’unica sacralità che il potere conosce scrive in Cuore (1 marzo 1975), è «la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio»:[41]
Come polli d’allevamento, gli italiani hanno subito assorbito la nuova ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere: tale è la forza di attrazione e di convinzione della nuova qualità di vita che il potere promette, e tale è, insieme, la forza degli strumenti di comunicazione (specie la televisione) di cui il potere dispone. Come polli d’allevamento, gli italiani hanno indi accettato la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo.[42]
In questa occasione Pasolini sta intervenendo sul problema dell’aborto, di cui si discuteva in quei mesi in seguito a una proposta di referendum avanzata dai radicali. In modo inaspettato si era dichiarato contrario («Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché lo considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio»),[43] diventando subito bersaglio di dure critiche e attacchi personali.
Non importa ora entrare nel merito della polemica, né discutere la posizione pasoliniana sul problema dell’aborto; interessa piuttosto osservare che, come già era avvenuto in seguito al referendum sul divorzio, Pasolini si muove controcorrente rispetto al fronte progressista, a cui pure per orientamento politico-ideologico dovrebbe appartenere, perché pensa che la battaglia per i diritti civili, anziché favorire una liberazione delle persone, rischi invece di condurre a una maggiore schiavitù. Pasolini invita i suoi amici intellettuali che lo hanno criticato, tra cui Calvino e Moravia, a vigilare. Infatti, se si ha coscienza chiara della violenza omologante e silenziosa della società dei consumi, è facile rendersi conto che in un simile contesto i «vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti» non solo si rivelano «spuntati e inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere»:
Dire che la vita non è sacra, e che il sentimento è stupido, è fare un immenso favore ai produttori. E del resto è ciò che si dice far piovere sul bagnato. I nuovi italiani non sanno che farsene della sacralità, sono tutti, pragmaticamente se non ancora nella coscienza, modernissimi; e quanto a sentimento, tendono rapidamente a liberarsene.[44]
Per farsi capire Pasolini allarga l’orizzonte alla violenza dilagante di matrice terroristica e non, sintomo di un processo disumanizzazione che affonda le proprie radici nella medesima «ideologia irreligiosa e antisentimentale del potere»:
Che cos’è infatti che rende attuabili – in concreto nei gesti, nell’esecuzione – le stragi politiche dopo che sono state concepite? È terribilmente ovvio: la mancanza del senso della sacralità della vita degli altri, e la fine di ogni sentimento nella propria. Che cos’è che rende attuabili le atroci imprese di quel fenomeno – in tal senso imponente e decisivo – che è la nuova criminalità? È ancora terribilmente ovvio: il considerare la vita degli altri un nulla e il proprio cuore nient’altro che un muscolo […].[45]
«Al contrario di Calvino», conclude Pasolini, «io dunque penso che – senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica – non bisogna aver più paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore».[46]
Negli ultimi anni della sua vita – morirà il 2 novembre 1975 – Pasolini è sempre più cupo e disilluso: «vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto», confessa a Biagi nell’intervista citata, e aggiunge «La parola speranza è cancellata completamente dal mio vocabolario».[47] Pasolini osserva davanti a sé i segni di una “mutazione antropologica” che, come una malattia mortale, si diffonde sull’Italia e sembra svuotare l’anima delle persone. È senza speranza, eppure continua a scrivere, fino ai suoi ultimi giorni, non tace rassegnato. Perché? Per questo cuore, che si ribella a ogni tipo di ideologia, anche quella del nulla in cui siamo immersi.
21 dicembre 2023
[1] Italo Calvino, Presentazione [1964], in Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, Mondadori, 2000, p. VI. Lo scrittore aggiunge: «Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo appena fatto in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi di una sua eredità».
[2] Ibidem.
[3] Pier Paolo Pasolini, Letteratura italiana 1945-55, «Il Presente», III, 10, estate 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 641-646: 642.
[4] Pier Paolo Pasolini, Nuove questioni linguistiche, in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 1253-1254.
[5] Pier Paolo Pasolini, I dialoghi, a cura di Giovanni Falaschi, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 373 (vd. anche p. 351).
[6] Italo Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura [25 febbraio 1976], in Una pietra sopra, poi in Saggi 1945-85, 2, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, I, pp. 351-360: 352.
[7] «Il neorealismo è stato l’espressione cinematografica della Resistenza [...]. La cosa è durata fin verso la fine degli anni Cinquanta. Dopodiché il neorealismo morì perché l’Italia era cambiata» (Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, ora in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1308-1309).
[8] Pier Paolo Pasolini, Nuove questioni linguistiche, cit., p. 1258.
[9] Ivi, p. 1264.
[10] Italo Calvino, Presentazione, cit., p. XXII.
[11] «Quanto a me, ripeto, sono in piena ricerca. Non rinnego affatto il mio lavoro degli anni Cinquanta, e non accetto le critiche moralistiche che in nome del ‘marxismo perfetto’ mi muovevano gli stalinisti di allora. Sento tuttavia superata, oggi, quell’operazione di scavo in materiali sublinguistici che è stata poi l’operazione principe della letteratura impegnata. Occorrono evidentemente altri strumenti conoscitivi: ma quali?» (Pier Paolo Pasolini, Lo ripeto: io sono in piena ricerca, «Il Giorno», 6 gennaio 1965, ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 2442-2447: 2447).
[12] L’espressione è riferita al cinema, a cui Pasolini approda come regista già nel 1961 con Accattone, e che «consente di mantenere il contatto con la realtà, un contatto fisico, carnale, direi addirittura sensuale» (Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Roma, Editori Riuniti, 1983, ora in Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 1401-1550: 1413).
[13] Pier Paolo Pasolini, 24 giugno 1974. Il vero fascismo e quindi il vero antifascismo, in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2001 [1975], pp. 45-50: 45.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, pp. 45-46.
[16] Pier Paolo Pasolini, 9 dicembre 1973. Acculturazione e acculturazione, in Scritti corsari, cit., pp. 22-25: 22.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 23.
[19] Ivi, pp. 45-46.
[20] Pier Paolo Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto» sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, cit., pp. 56-64: 58.
[21] Programma televisivo andato in onda sul Programma Nazionale (poi Rete 1) della Rai dal 3 febbraio 1957 al 1° gennaio 1977.
[22] Ivi, p. 59.
[23] Ibidem.
[24] Pier Paolo Pasolini, 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari, cit., pp. 39-44.
[25] Pier Paolo Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto», cit.
[26] Pier Paolo Pasolini, 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, cit., pp. 40-41.
[27] Ivi, p. 41.
[28] Ibidem.
[29] Ivi, pp. 41-42.
[30] Pier Paolo Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del «bozzetto», cit., p. 60.
[31] Ivi, p. 61.
[32] Ibidem.
[33] Pier Paolo Pasolini, 1° febbraio 1975. L’articolo delle lucciole, in Scritti corsari, cit., pp. 128-134.
[34] Ivi, p. 130.
[35] Ivi. p. 131.
[36] Ibidem.
[37] Pier Paolo Pasolini, 30 gennaio 1975. «Sacer», in Scritti corsari, cit., pp. 105-109.
[38] Ivi, pp. 106-107.
[39] Intervista realizzata da Enzo Biagi nel corso del programma «Terza B facciamo l’appello», Rai 1, 1971 (https://www.youtube.com/watch?v=OIoqZHYvdwQ, visitato il 15/05/2022); l’intervista andò in onda soltanto dopo la morte di Pasolini.
[40] Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, cit., pp. 1421-1422.
[41] Pier Paolo Pasolini, 1° marzo 1975. Cuore, in Scritti corsari, cit., pp. 122-127: 126.
[42] Ivi, pp. 126-127.
[43] Pier Paolo Pasolini, 19 gennaio 1975. Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti, in Scritti corsari, cit., pp. 98-104: 104.
[44] Ivi, p. 127.
[45] Ibidem.
[46] Ibidem.
[47] Intervista realizzata da Enzo Biagi nel corso del programma «Terza B facciamo l’appello», Rai 1, 1971, cit.