Sara de Carlo - Gli alberi, il Mediterraneo e noi

Alcuni spunti per un percorso didattico sul colonialismo

 

“I met History once, but he ain’t recognize me”

Derek Walcott

 

La topica del passato si snoda come quella della mente, è terra di lacune incolmabili, interrogarla significa camminare su incrinature, pieghe, scarti, scorgere vuoti, residui, brandelli, voragini. Interrogare poi la storia moderna e contemporanea significa fare i conti con un rimosso: il nostro passato coloniale. Ed è un passato che non passa, che si incardina nel presente con forme differenti e man mano più pervasive. È, tra gli altri, Tzvetan Todorov[1] a narrarci il primo atto di questa débacle relazionale, di un incontro mancato tra quell’io che porta il nome di Europa occidentale e l’altro da sé; così il 1492 segna l’anno di una doppia espunzione, dentro e fuori: se nel cuore del vecchio continente viene portata a termine la Reconquista e sono cacciati dalla Spagna i musulmani e gli ebrei, al contempo oltreoceano si realizza la conquista dell’America e si mette mano al più grande genocidio della storia.

Colombo ha scoperto l’America, non gli americani. Tutta la storia della scoperta dell’America, primo episodio della Conquista, soffre di questa ambiguità: l’alterità umana è, al tempo stesso, rivelata e rifiutata. Già la data del 1492 simboleggia, nella storia della Spagna, questo doppio movimento: in quello stesso anno il paese ripudia il suo Altro interno, riportando la vittoria sui Mori nell’ultima battaglia di Granada e obbligando gli ebrei ad abbandonare il territorio spagnolo; e scopre l’Altro esterno, quella parte dell’America che diventerà latina.[2]

Un’opera di dominio che passa per l’annichilimento di corpi e culture, che silenzia l’alterità anche a forza dell’imposizione di nuove parole, nuovi nomi da assegnare ai luoghi in sostituzione di quelli autoctoni dal momento che «il nominarli […] equivale a una presa di possesso»[3].

Quando, dopo essersi snodata per secoli, quest’opera di dominio entrerà a gamba tesa in una geografia che l’Occidente teneva a preservare dalla sua stessa barbarie si griderà allo scandalo: è quanto accade col nazismo, reo di aver condotto nel cuore dell’Europa quella violenza fino ad allora accettata solo se agita in territori d’oltremare. Ed echeggia, a proposito, la denuncia di Aimé Césaire: Hitler non avrebbe fatto altro che smascherare l’ipocrisia occidentale riportando il crimine in un continente che si era sempre autoassolto; era infatti un nazismo prima del nazismo quello che si realizzava nei confronti dei popoli non europei.

Sì, varrebbe proprio la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista, cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto, rimosso; ovvero, che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano state prerogativa esclusivamente agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai negri dell’Africa.[4]

Si fatica ancora a confrontarsi con questa vertigine, si fatica – più in generale – a sgranare i crimini commessi dalle democrazie occidentali,[5] si stenta a operare una disamina che sia al tempo stesso feroce e sincera su quanto sta accadendo per azione di quell’Occidente travasato nel malamente detto “Medio Oriente”[6] che è lo stato d’Israele.

Come farlo a scuola? Come restituire alle ragazze e ai ragazzi la scabrosità di una storia che è quella di una politica che esercita la sua violenza in mondovisione e che però pretende di essere spesso normalizzata nella narrazione mainstream? Come raccontare loro di quell’altro che recalcitra costantemente negli spazi della storia e ritorna mostruoso «nel discorso che lo interdice»?[7]

Lo scorso anno scolastico nella nostra scuola, il liceo “Eleonora Pimentel Fonseca” di Napoli, abbiamo provato a farlo in un progetto che si è articolato in tre giornate e nel quale abbiamo, per così dire, “radicalizzato l’altro”, tirandolo fino a una soggettività che non ha voce in capitolo nella storiografia umana: quella del non umano.

 

Ad aiutarci in questo percorso è stato il libro di Paola Caridi Il gelso di Gerusalemme:[8] l’autrice, una delle massime esperte italiane di cultura araba e del Mediterraneo Orientale, sceglie di raccontare la storia della Palestina (ma non solo) facendo riferimento a fonti non scritte, a voci diverse da quelle a cui siamo abituati, cercando di stanarla nella linfa degli alberi, spesso testimoni e strumento delle azioni degli uomini. Alberi come luoghi d’incontro, come luoghi sacri a più religioni presenti su quel territorio, alberi come simboli e come fonte di sostentamento. Caridi racconta come l’attacco alla storia del popolo palestinese proceda di pari passo alla violenza operata ai danni di quegli stessi alberi.

E così ci dice di come a Gaza sia scomparso il suo albero simbolo, il fico sicomoro; di come le arance di Giaffa – simbolo della propaganda israeliana della propria capacità di far “rifiorire il deserto” – esistessero già su quelle terre prima dell’avvento dei sionisti e fossero anzi il vanto della borghesia palestinese; di come i pini di Aleppo piantati a migliaia in Palestina a partire dagli inizi del ‘900 dal Fondo Nazionale ebraico e poi massicciamente dal ’48 in poi siano serviti per mutare la fisionomia del territorio, finanche a nascondere la Nakba…che si operi di sottrazione, di alienazione, di mistificazione o di giustapposizione, il punto è che nelle geografie non si gioca semplicemente una partita materiale, ma anche simbolica: ci si contendono primati, narrazioni, descrizioni, culture e colture.

Questo libro ci ha dato insomma l’opportunità di indagare lo stretto legame tra ecocidio e genocidio e di ragionare su come l’annichilimento delle storie autoctone veda l’ambiente, la fauna e la flora protagonisti e vittime dalla medesima azione coloniale: la distruzione e la trasformazione di un territorio procede di pari passo alla distruzione e all’alterazione delle relazioni che là si realizzano.

 

È stato un libro di cui alcuni di noi docenti del liceo hanno letto stralci a latere di alcune lezioni sulla storia israelo-palestinese; con queste suggestioni le alunne e gli alunni di diverse classi del triennio si sono ritrovati, nella prima delle giornate del progetto, in un momento d’incontro in cui hanno ascoltato le parole di Iain Chambers, già docente dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, esperto di studi culturali: sparigliando i confini disciplinari e attingendo a storia, letteratura, arte e musica, Chambers ha ripercorso alcuni snodi fondamentali che riguardano quella particolare ma non nuova[9] forma di colonialismo che si è realizzata e continua – con forme man mano più violente[10] – in Palestina e che prende il nome d’insediamento. Un colonialismo votato, a suon di occupazioni e politiche di apartheid, alla sostituzione delle popolazioni indigene con una società di coloni; questi arrivano per insediarsi, per restare, per esportare un modello economico e affermano la propria presenza in forma processuale rivendicando la propria sovranità su quelle terre a tal punto da voler costruire, passo passo, la fine del colonialismo stesso e realizzare uno stato supremo che espunga del tutto la presenza dell’altro da sé. Non solo la presenza fisica, ma anche la sua storia e la sua cultura: così l’espropriazione delle terre e dei villaggi si accompagna a un racconto mistificatorio che narra di una terra nullius, di una terra vuota, di lande desolate che i coloni avrebbero avuto il merito di far fiorire, di rendere fertili e produttive[11].

Il professor Chambers, a chiosa del suo intervento, ha lasciato alle ragazze e ai ragazzi due domande:

 

  • I palestinesi hanno il diritto di avere diritti? 
  • Perché i palestinesi dovrebbero sopportare il peso europeo dell’Olocausto?



Ed è col peso di questi interrogativi, che alcuni di loro - sotto la guida preziosa della professoressa di italiano Adriana Passione – hanno letto al pubblico di compagni, in forma corale, degli stralci del romanzo di Colum McCann Apeirogon;[12] anche in questo testo, infatti, natura e storia, mondo animale e mondo umano si rovesciano l’uno nell’altro in un incipit volutamente dissonante dove all’immagine della migrazione degli uccelli viene affiancata quella degli elicotteri israeliani in azione.

 

Nel corso della seconda giornata è stato proiettato il documentario Arbores di Francesco Bussalai; la proiezione è stata preceduta da una presentazione dello stesso regista, in collegamento virtuale. Bussalai, innestando le parole di Gramsci e Deledda su varie testimonianze attuali, racconta, nel suo lavoro, la vicenda del disboscamento della Sardegna attuato dai Savoia nel XIX secolo. Era il 1820 quando l’Editto delle Chiudende diede l’abbrivio a un’opera violenta di privatizzazione di quelle terre che fino a un attimo prima erano state condivise dalla comunità tutta; il paesaggio cominciò la sua metamorfosi forzata: e prima i muretti a secco a segnare compagini tra una proprietà e l’altra, poi i boschi furono demanializzati e venduti ai privati, alberi su alberi vennero sradicati. Si rese arida una terra verde, si prese la legna sarda e la si tradusse nell’Italia settentrionale per costruirvi ferrovie (ancora oggi in Sardegna scarseggia la rete ferroviaria!). Nelle classi era stato precedentemente letto il racconto di Grazia Deledda Colpi di scure,[13] che racconta dell’incedere angosciante di carbonari e scorzini, del loro avanzare abbattendo piante millenarie, narra del disboscamento attraverso una narrazione che finisce con l’immedesimarsi nello spazio naturale: «In fondo al bosco si odono ininterrotti colpi di scure, ripetuti dall’eco, e pare che tutta la foresta ne tremi».[14]

Ancora una volta l’ambiente, gli alberi, la fauna e la flora vivono i medesimi traumi degli uomini la cui storia accompagnano; una volta ancora, nel nostro passato recente e in un’isola che vive la quistione meridionale[15] – per dirla con Antonio Gramsci – che ha interessato il nostro Sud[16], si snoda una forma di dominio per certi versi analoga a quella che avevamo imparato a stanare in terra di Palestina. Così insomma, attraverso uno sbandamento da una sponda all’altra del Mediterraneo, si sono evidenziate le analogie tra due azioni differenti di azione predatoria e, attraverso un movimento circolare, si è tornati a ragionare sull’impalcatura teorica e su quel rimosso dell’Occidente che è il tema del colonialismo.

 

L’ultima parte del progetto è stata dedicata alla visita dell’Orto Botanico di Napoli che ospita un’intera area – un po’ nascosta e sconosciuta ai più – dedicata alle piante citate nella Bibbia: tra il sicomoro e l’incenso, il carrubo e l’ulivo, la mirra e la spina di Cristo, tra il cedro del Libano e l’alloro, le ragazze e i ragazzi hanno ritrovato parte della fauna che avevano incontrato, all’inizio del nostro percorso, in Palestina. Non è mancata una riflessione condivisa su quanto il luogo che ci ospitava, come tutti gli orti botanici, fosse esattamente precipitato di quella storia coloniale con cui abbiamo fatto i conti nel corso del nostro progetto didattico[17]. Così, ci siamo detti, rimettere in questione i rimossi, che siano collettivi o che siano privati, significa giocare con la dialettica complessa e talvolta contraddittoria che questi schiudono, e imparare a guardarci con feroce senso critico, assumerci la necessità di posizionamenti, talvolta anche scomodi e tentare di indossare panni non sempre nostri: che siano di altri popoli, di altri esseri umani, e che siano anche – e forse soprattutto! – di mondi non umani cui siamo radicalmente interrelati e con cui condividiamo, a volte senza saperlo, trame narrative.

Ci piace congedarci dalla presentazione di questo percorso didattico con le parole di Franco Fortini, parole che sono state lette anche alle alunne e agli alunni nel corso della prima giornata. Nell’estate del 1967, all’indomani della guerra dei 6 giorni, l’intellettuale toscano risponde alle accuse di silenzio che gli erano state avanzate da amici e parenti (egli era per parte di padre ebreo) con un testo denso e strano, I cani del Sinai, in cui leggono le contraddizioni e le atrocità del proprio presente rinviando a una disamina complessa e di ampio respiro, assumendo il punto di vista delle rivoluzioni anticoloniali.

E così:

Non è antirazzista chi rifiuta soltanto l'ereditarietà biologica, il determinismo del sangue. Anche una separazione e una gerarchia fra gli uomini fondata solo sulle loro eredità storiche può condurre ad aberrazioni razziste […]. Se l'eredità storica dei diversi gruppi umani e degli individui non è vissuta come consapevolezza-prassi, essa diventa il più ipocrita alibi dei giorni nostri, sotto la forma di uno storicismo degradato che pretende conoscere il donde con il rifiuto del dove. Gli uomini i gruppi i popoli non sono uguali; ma non sono diversi solo perché il loro passato è diverso e perché diversamente li determina. Non sono, non debbono, non possono essere uguali, anzi debbono essere, sono costretti ad essere, diversi, perché qui e ora agiscono diversamente, perché diversamente si collocano nel complesso delle forze storiche, nella simultaneità del mondo. Il loro passato li ha collocati dove sono; ma è il futuro a farli muovere. E sono diversi rispetto a te perché coinvolgono, con il loro agire nel presente, la tua diversità, il tuo agire.[18]

 

 

 

Bibliografia essenziale:

 

P. Caridi, Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi, Feltrinelli, Milano, 2024.

A. Césaire, Discorso sul colonialismo, trad. it. di L. Di Genio e A. Pardi riviste da M. Mellino, Ombre corte, Verona, 2014.

M. de Certeau, La scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, Cortina, Milano 2005.

A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005.

G. Deledda, Colpi di scure in Cenere. I giuochi della vita, La Riflessione, Cagliari, 2007.

F. Fanon, I dannati della terra, a cura di L. Ellena, Einaudi, Torino, 2007.

F. Fortini, I cani del Sinai, in Saggi ed Epigrammi, Mondadori, Milano, 2003.

A. Gosh, La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi, trad. it. dall’inglese di N. Gobetti e A. Nadotti, Neri Pozza, Vicenza, 2022

A. Gramsci, Il topo e la montagna in Fiabe, Barbès Editore, Firenze, 2010.

A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Le opere, a cura di A. A.Santucci, Editori Riuniti, Roma, 1997.

C. McCann, Apeirogon, trad. it. di M. Magrì, Feltrinelli, Milano, 2022.

A. M. Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano, 1997.

I. Pappé, Breve storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi, trad. it. dall’inglese di V. Nicolì, Fazi, Roma, 2024.

E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. it. di S. Galli, Feltrinelli, Milano, 1999.

T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», trad. it. di A. Serafini, Einaudi, Torino, 1984.

-                 

 


[1] Si veda T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», trad. it. di A. Serafini, Einaudi, Torino 1984.

[2] Ivi, p. 60.

[3] Ivi, p. 33. Todorov dedica diverse pagine, in particolare, alla relazione di Colombo rispetto alle lingue indigene: il suo misconoscimento della diversità linguistica sbanda tra la negazione che le popolazioni locali sappiano parlare e una violenta assimilazione, l’idea cioè che gli indiani parlino la sua stessa lingua ma in maniera sgangherata e scorretta. Tornano in mente le parole della Ortese: «E comincia con l’imposizione di un linguaggio, oppure, al contrario con la distruzione sistematica del linguaggio originale di un paese – su cui si voglia agire in profondità; comincia con questa aratura imponente del suolo umano qualsiasi seria operazione di colonizzazione o dominio», si veda A.M. Ortese, Corpo celeste, Adelphi, Milano 1997, pp. 24-25. Un’altra interessante riflessione sul linguaggio, su scrittura e oralità, nell’ambito della relazione tra Occidente moderno e Americhe si trova in M. de Certeau, La scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, Cortina, Milano 2005.

[4] A. Césaire, Discorso sul colonialismo, trad. it. di L. Di Genio e A. Pardi riviste da M. Mellino, Ombre corte, Verona 2014, p. 55.

[5] Non possiamo non pensare al meraviglioso saggio di Sebald dedicato a un altro grande rimosso: quello dei bombardamenti fatti dalle forze alleate in Germania durante la seconda guerra mondiale; è una riflessione, quella dello scrittore tedesco, che partendo dalle vicende tedesche fa di quella storia una storia tristemente universale e che si è realizzata in svariati altri posti, dall’Italia al Giappone. Si veda W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, trad. it. di Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2004.

[6] Ci preme ricordare che il termine “Medio Oriente” è un’eredità coloniale: nasce in Inghilterra per indicare un territorio in relazione alle proprie coordinate, è l’Occidente che inventa il Medio Oriente; diverse le diciture che sarebbe preferibile utilizzare al termine: chi parla di Mediterraneo orientale, chi di Asia Occidentale, chi di WENA (Western Asia North Africa). Scontato rinviare a E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, trad. it. di S. Galli, Feltrinelli, Milano 1999.

[7] M. de Certeau, La scrittura dell’altro, op. cit., p. 74.

[8] P. Caridi, Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi, Feltrinelli, Milano 2024. Per procedere nel suo lavoro, Caridi accoglie una suggestione contenuta nel libro di Amitav Gosh La maledizione della noce moscata, opera imprescindibile per avvicinarsi a una storia materiale del colonialismo. Si veda A. Gosh, La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi, trad. it. dall’inglese di N. Gobetti e A. Nadotti, Neri Pozza, Vicenza 2022.

[9] Si tratta dello stesso tipo di colonialismo che realizzano gli europei al momento della conquista dell’America.

[10] Ci basti rinviare semplicemente all’ultimo rapporto, dello scorso luglio, in cui Francesca Albanese descrive il passaggio dall’economia di occupazione all’economia di genocidio: https://cdn77.pressenza.com/wp-content/uploads/2025/07/Rapporto-Francesca-Albanese-def.pdf. Rimandiamo poi a un bell’articolo di Chambers apparso su Il Manifesto dello scorso maggio, in cui l’autore scrive: «ci troviamo quindi a convivere con il termine “genocidio”. Non, proprio come il colonialismo, semplicemente una cosa del passato, specifica di un tempo e di un luogo, o ristretto alla storia di un popolo. Indica strutture più profonde di potere, oppressione e brutalità che continuano a modellare le nostre vite. In questo caso, la semantica viene sottratta alla purezza teocratica e ideologica e ai guardiani di ogni singolo racconto del tempo. La lingua tradisce sempre un eccesso ineluttabile che rifiuta di essere intrappolato nei confini di un ordine imposto. Se alla fine è il linguaggio a rimanere, esso sostiene sempre un ritorno che interroga il presente proprio con ciò che cerca di negare»; si veda https://ilmanifesto.it/il-genocidio-e-larchivio-coloniale-che-si-riapre.

[11] Oltre alle disamine di diversi autori palestinesi, è stata la stessa “nuova storiografia israeliana” ad aver decostruito questa narrazione negli ultimi decenni; noi facciamo riferimento, in particolar modo, a Ilan Pappé; tra le tante opere dense dello storico israeliano, rinviamo – ai fini di un uso didattico - alla più agevole e divulgativa: I. Pappé, Breve storia del conflitto tra Israele e Palestina. Dal 1882 a oggi, trad. it. dall’inglese di V. Nicolì, Fazi, Roma 2024.

[12] Si veda C. McCann, Apeirogon, trad. it. di M. Magrì, Feltrinelli, Milano 2022.

[13] G. Deledda, Colpi di scure in Cenere. I giuochi della vita, La Riflessione, Cagliari 2007

[14] Ivi, p. 272. Anche una favola di Gramsci è stata presa in esame; si tratta de Il topo e la montagna in cui il pensatore sardo dimostra una visione ecologica di grande attualità; si veda A. Gramsci, Il topo e la montagna in Fiabe, Barbès Editore, Firenze 2010, pp. 226-227.

[15] A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, in Le opere, a cura di A. A.Santucci, Editori Riuniti, Roma 1997, pp.179-204.

[16] Angelo Del Boca, parlando di Meridione, addita nella guerra al brigantaggio la realizzazione di una “guerra di tipo coloniale”, una sorta di laboratorio preparatorio a quelle forme di violenza coloniale che il Regno d’Italia avrebbe poi realizzato in Africa Orientale; si veda A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 55-68.

[17] Alla storia degli orti coloniali è dedicata anche una parte del libro di Paola Caridi; si veda P. Caridi, Il gelso di Gerusalemme, op. cit., pp. 103-121.

[18] F. Fortini, I cani del Sinai, in Saggi ed Epigrammi, Mondadori 2003, p. 443; da questo testo nel 1976 è stato tratto anche un documentario diretto da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet in cui lo stesso Fortini legge stralci e di cui consigliamo la visione.

 

 

14 novembre 2025