Sandra Carapezza - Identità a rovescio: gli italiani nel Seicento

«Por mi vida, que de gente!» commenta Ferrer nella sua lingua, mentre, in italiano, blandisce la folla[1]. Nei Promessi Sposi il passato si propone come 'rovescio' del presente. L'età delle «magnifiche sorti e progressive»[2] è l'esatto opposto dell'impaludamento culturale e sociale secentesco che fa da sfondo al romanzo. Il narratore sottolinea la contrapposizione: «Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo» (cap. VIII, 26). Il commento è distinto dalla consueta ironia manzoniana: forse il mondo va tuttora così e il Seicento, apparentemente rovescio negativo dell'Ottocento, in realtà non è del tutto superato. La posizione dello scrittore non si appiattisce comunque su un cupo scetticismo: il romanzo mostra infatti l'evoluzione sociale dei protagonisti, verso un modello borghese, in cui Renzo ha conquistato lo status di piccolo imprenditore tessile. A scongiurare il rischio dello scetticismo interviene anche la funzione che Manzoni assegna alla letteratura. Il romanzo è destinato agli italiani dell'Ottocento i quali riconoscono nella storia (ma soprattutto nella Storia) molti aspetti negativi che devono essere superati. Primo fra tutti, l'oppressione dello straniero. Il Seicento appare veramente come il rovescio dell'Ottocento: come quest'ultimo è il secolo del Risorgimento, della costruzione dell'Italia, il primo è invece il secolo dell'Italia spagnola, succuba del potere straniero.
La descrizione dell'Italia spagnola nelle pagine di Manzoni lascia l'impressione di una nazione asservita a un governo inefficiente, con poteri locali servilmente proni al dominatore straniero. In questo clima, l'identità italiana è ufficialmente negata, perché non esiste nazione e la penisola è bottino di guerra delle potenze straniere. Ma proprio in contrasto con lo straniero si affaccia problematicamente un senso di italianità, che emerge a rovescio, per distinzione.
A scuola la riflessione critica sull'identità come rovescio e quindi ovviamente anche come 'rovescio del rovescio', ovvero affinità, è oggi quanto mai essenziale. Dal punto di vista metodologico si presta a un fecondo scambio interdisciplinare, perché può coinvolgere i docenti di storia, filosofia, letteratura italiana, letteratura e civiltà inglese o francese, diritto ed economia. Inoltre, induce al confronto diretto con testi e documenti, consentendo così di esercitare le capacità di lettura critica: non solo decodifica linguistica del testo, ma anche collocazione nel tempo, nello spazio e quindi nel contesto politico-sociale.
Il percorso intende condurre a riflettere sulla percezione che gli italiani - ovvero coloro che oggi si definirebbero tali - avevano di se stessi nel XVII sec. per meglio intendere la complessità esclusiva di quel momento storico e, contemporaneamente, per figurare la rete di rapporti con il quadro generale. L'identità a rovescio degli italiani nel Seicento è lo stimolo per riflettere su questioni di attualità che si affacciano con grande frequenza nel dibattito quotidiano, scolastico e non. È l'incalzante tema della globalizzazione: mentre ci domandiamo se e quando ci sentiamo italiani oggi (e anche gli studenti più ostili ammetteranno di aver inneggiato all'Italia durante i mondiali), inseriamo questa domanda nella storia e interroghiamo gli italiani del passato.

1. Taluni però di que' fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati cosí nuovi, cosí strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose piú forti: e, quello che ci parve piú decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe piú tentato di negarla (A. Manzoni, I promessi sposi, Introduzione).

Il narratore dei Promessi Sposi ricorre all'espediente del ritrovamento di un manoscritto antico, che racconta una storia italiana del Seicento. Ma l'autore, per quanto scrupoloso raccoglitore di fonti storiche, vive in pieno Risorgimento. La sua ambizione, pur all'interno della serrata cornice di realismo in cui inscrive la vicenda, non è presentare un quadro storico autonomo e filologicamente ineccepibile, bensì usare il ricco materiale ricavabile dal contesto storico d'ambientazione per tradurre idee e messaggi profondamente radicati nel proprio tempo. Quando il narratore afferma, nell'introduzione, di essersi messo a frugare nelle memorie del tempo del finto manoscritto per «chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo», non dà garanzia di poterci fidare dell'esito come fonte storica: lettori del XXI secolo, sappiamo che l'urgenza che incalzava lo scrittore era far sentire la propria voce nell'Italia preunitaria e dunque il romanzo risulta caricato di istanze risorgimentali che finiscono col viziare la prospettiva storica che se ne ricava.

Per sapere che cosa significava essere italiani nel Seicento è più proficuo tralasciare chi parla due secoli dopo, e dare la parola a chi visse proprio nel Seicento. Le testimonianze superstiti non possono che offrire un quadro incompleto della situazione. La ricostruzione della storia attraverso fonti letterarie non può essere democratica, perché la possibilità di pubblicare è concessa a pochissimi[3]. Si deve comunque tenere in considerazione la natura eclettica dell'uomo di cultura dell'età moderna: non solo scrittore, ma consigliere politico, frequentatore di salotti, protagonista delle cronache cittadine. Il poeta del Seicento acquista il diritto di esser ascoltato come voce credibile sulla vita del suo tempo perché è un uomo immerso attivamente nelle vicende politiche, partecipe delle occasioni sociali e coinvolto intimamente dalle evoluzioni dell'economia, ben lontano dallo stereotipo romantico dell'intellettuale arroccato nella sua torre eburnea.
Indagando il modo in cui gli italiani pensavano se stessi non si può prescindere dal dato macroscopico della frammentarietà che caratterizza storicamente il paese. Alcuni poli culturali meritano attenzione: oltre a Firenze e Roma, un posto di spicco hanno ormai acquisito Venezia e, Genova, che fino a un certo momento ne condivide il destino di libertà, almeno apparente; altro centro fiorente è Napoli; si affaccia sulla scena la Torino sabauda e rimangono attive le città dell'Emilia.
Quando si comincia a interrogare gli intellettuali del XVII sec. sull'Italia si è colpiti primariamente dal silenzio delle risposte, in contrasto alle accorate parole di Machiavelli e di Guicciardini, nel secolo precedente. È noto che il Seicento in ambito poetico converge nel barocco, trionfo del meraviglioso e del concettoso, che lasciano poco spazio a dissertazioni politiche. Il tema politico resiste negli anni iniziali del secolo, ma va poi sempre più riducendosi o confluisce nella direzione del panegirico in onore dei potenti.

2. Paolo Sarpi il 12 maggio del 1609 a Venezia in una lettera a Gillot, cattolico gallicano (francese resistente alla disciplina imposta dalla Chiesa) scrive:

Quel poco di libertà che conserviamo o godiamo in Italia, lo dobbiamo interamente alla Francia. Voi ci avete insegnato a resistere alla tirannide [ecclesiastica] e ne avete svelato i segreti [...]. Ma io sono costretto a portare una maschera: nessuno, in Italia, può farne a meno.[4]

È la rivendicazione lucida e argomentata dell'autonomia dello stato dalla Chiesa, in nome della sovranità del primo, basata sul diritto. Dalle parole di Sarpi emerge immediatamente il motivo topico della libertà di Venezia. Il nemico della Repubblica veneziana, quando Sarpi scrive, è la Chiesa romana, qui definita tirannide; sono gli anni che seguono l'interdetto lanciato da Paolo V contro la città lagunare. La Chiesa, per affrontare la riforma, tenta di rafforzare le proprie posizioni. L'interdetto è un segnale della ferma politica papale, decisa a non cedere le proprie prerogative in materia giudiziaria. Fra Roma e la Francia Sarpi inclina verso la seconda, rivelando così di non percepirsi come parte di un'unica entità politica o culturale con il resto della penisola. La patria per il veneziano è sicuramente Venezia: per essa si possono usare toni commossi e partecipi, mentre l'Italia esiste come spazio dell'egemonia castrante della Chiesa, che impone a tutti di muoversi sempre come sotto una maschera. Sono anni cruciali per il pensiero politico: vedono la luce le teorie giuridiche che giustificano l'autonomia della formazione statale. Si tratta di un punto essenziale nell'età moderna, connesso alla nascita di un pensiero scientifico, non subordinato alle auctoritates come in età medievale, che trova la sua più eloquente incarnazione in Galilei.
In sintesi, la lettura del passo di Sarpi sollecita la riflessione sui seguenti punti:

il topos della libertà di Venezia;
la linea di condotta della Chiesa dopo la riforma e il persistere di movimenti di dissenso al limite dell'eresia;
l'identificazione della patria nella città, almeno nel caso veneziano;
la nascita di un pensiero politico autonomo e avviato verso la legittimazione dell'autonomia dello stato;
lo sviluppo del pensiero scientifico, basato sull'osservazione e sulla concretezza e non sulle auctoritates.

3. Nel 1594 i Turchi assediano Taranto; il poeta Giovan Battista Marino per la circostanza scrive una corona di quattordici sonetti. Sono poesie d'occasione: vi si sciorina il repertorio dei topoi classici e vi si sfoggia una retorica enfatica che impone di tarare più realisticamente la portata della vittoria cristiana. È opportuno sottolineare questi espedienti di enfatizzazione perché sono veri e propri strumenti del mestiere del poeta barocco, che raggiunge in Marino la sua migliore rappresentazione: egli si muove fra diverse corti italiane e straniere e si guadagna la protezione dei signori proprio con la sua poesia. Roma, Torino (con Carlo Emanuele I), Parigi (con Maria de' Medici e poi con Luigi XIII) sono alcune delle sue mete: è evidente quindi il carattere europeo dell'uomo di cultura e da esso discende la difficoltà di parlare di identità italiana o di patria. I due terzi degli intellettuali italiani del Seicento vivono a corte, ma non sono legati per la vita a una specifica corte: la mobilità orizzontale è notevole, a riscontro di una bassa permeabilità verticale fra classi sociali.
Il motivo scelto da Marino attinge alla secolare rivalità con il Turco:

Conforta i Cristiani a prender l'armi contro il Turco
Ecco, da' suoi riposti ermi confini
move a' danni d'Italia il fero Trace,
e la nostra a turbar tranquilla pace
piega superbo i temerari lini.
Già sotto i curvi abeti e i cavi pini,
geme, rotto da' remi, il mar vorace;
al corso, al grido orribilmente audace
treman le rive e i bei colli vicini.
Vinto fu dianzi, e pur non teme o langue:
sassel de' sacri eroi l'invitto scoglio,
e di Naupatto i lidi e d'Azzio il sanno.
Ite, schiere animose, e il duro orgoglio
rompete voi del barbaro tiranno,
troppo di furti ormai vago e di sangue![5]

La battaglia di Lepanto (1571) alimenta un fervore di crociata che più di vent'anni dopo non è ancora spento, come attesta l'entusiasmo con cui Marino celebra la resistenza italiana contro gli infedeli. I Turchi sono presentati secondo l'iconografia topica: barbari, fieri e superbi; è significativo il modo in cui vengono presentati gli italiani: godono della loro tranquilla pace. Gli scrittori dell'epoca insistono molto su questa immagine di pace connessa all'Italia: la fine del conflitto, alla metà del XVI sec., segna evidentemente l'avvio di una stagione di pace e né gli effetti del governo spagnolo né la sbandierata crisi economica annullano la positiva impressione dell'assenza di guerre. La concezione del Seicento come secolo buio, retaggio della storiografia risorgimentale, deve essere corretta anche a partire da questi documenti che tradiscono, pur con le cautele della retorica e del genere letterario, l'immagine che gli italiani avevano dello spazio da loro abitato. La palesano come immagine di pace.
In sintesi:

l'esibizione retorica e la cura formale sono espedienti attraverso i quali i poeti ottemperano ai doveri sociali attraverso poesie d'occasione;
gli uomini di cultura dipendono dalle corti e quindi conducono vita itinerante: la dimensione europea dell'intellettuale ha segno opposto rispetto al senso identitario nazionale;
persiste il motivo del conflitto fra cristiani e Turchi;
alla fine del XVI sec. l'Italia è percepita come spazio di pace.

4. Alessandro Tassoni, modenese, viaggia tra Roma, la Spagna e Torino, dove è segretario di Carlo Emanuele I. A sostegno di quest'ultimo, scrive nel 1614 le Filippiche che circolano anonime. Sono orazioni a sfondo politico in cui si attacca con forza la Spagna e si rivendica il diritto di autogoverno per l'Italia. Nei primi anni del secolo Tassoni compone due gustosi componimenti che descrivono con accenti caricaturali Madrid e Modena. Colpisce l'impressione di confusione, di disordine, di eccesso e di bestialità che il poeta comunica nel suo ritratto della città spagnola, assediata da «mori infiniti e sbirri». Al contrario, la città italiana vive quasi impantanata nel fango che la cinge, che sembra attutire i rumori e rallentare i movimenti. Oltre il margine di amplificazione implicito nelle opere satiriche, le poesie confermano la percezione già intuita nel caso di Marino: che l'Italia viva in quiete, in una sorta di segregazione dal resto.
In sintesi:

nell'Italia del Seicento si levano voci antispagnole, sebbene non siano le sole;
la Savoia di Carlo Emanuele I va assumendo i contorni di piccola ma potente entità, cosciente di poter giocare un ruolo non irrilevante nello scacchiere internazionale, in forza di una posizione strategica;
gli italiani vedono le capitali europee come centri di traffici politici ed economici attivi e ferventi, rispetto ai quali l'Italia sembra relegata ai margini.

5. Il rovescio del punto di vista di Tassoni è offerto da Virgilio Malvezzi, sicuramente un personaggio minore nella cultura e nella storia italiana, che ben rispecchia la tipologia dell'intellettuale secentesco ironicamente dipinto da Manzoni nel personaggio di don Ferrante: l'erudito che si cimenta in ogni campo del sapere. Appartiene a una famiglia bolognese che vanta lunga affezione ai monarchi spagnoli ed è al servizio del duca Olivares. Il suo caso dimostra che i ceti dirigenti dei regni soggetti alla Spagna spesso non sono in conflitto con la potenza straniera, bensì si legano ad essa con accordi dai quali traggono vantaggi, in primis per la riduzione delle tensioni interne ed esterne. Le ragioni matrimoniali e la facilità della circolazione delle persone creano una rete di relazioni fra chi gestisce il potere all'interno della quale le categorie contemporanee di nazione e di nazionalità non hanno significato. I regni italiani non sono meri strumenti manovrati dagli Spagnoli, come attestano voci come quella di Malvezzi. Sarebbe una leggerezza etichettarle come manifestazioni di vile servilismo. Quando Olivares cade in disgrazia Malvezzi lo segue, perché si sente intimamente legato al duca. Nella sua raccolta di pensieri politici si trova il sogno di un impero universale: eppure l'abdicazione di Carlo V, un secolo prima (1556; Malvezzi muore nel 1634), ha mostrato il fallimento del progetto imperiale sull'Europa (e le colonie d'oltreoceano). Anche Malvezzi è cosciente della natura utopistica della monarchia universale: la direzione delle organizzazioni politiche europee verso la formazione di entità statali monarchiche è chiara agli occhi di un uomo del Seicento, sebbene sopravviva, per un fervente filospagnolo, il miraggio di ritorno al passato imperiale.
In sintesi:

gli italiani nel Seicento non si percepiscono universalmente come vittime della tirannide straniera: ci sono italiani che vedono nella Spagna un'occasione per migliorare le condizioni dell'Italia;
l'evoluzione politica degli stati europei è avviata nel senso delle monarchie nazionali;
da parte spagnola resiste il sogno imperiale, ma con la percezione della sua inapplicabilità.

6. Il più eloquente rovescio dell'ideale nazionale ottocentesco è rappresentato nel XVII sec. dal poeta bolognese Claudio Achillini. Nel 1628, all'indomani della presa di La Rochelle da parte di Luigi XIII, Achillini scrive un sonetto in cui celebra la vittoria del re francese. La poesia è citata ironicamente nei Promessi Sposi, come massima espressione del servilismo degli italiani del Seicento.

Loda il Gran Luigi, Re di Francia,
che dopo la famosa conquista della Roccella
venne a Susa e liberò Casale
Sudate, o fochi, a preparar metalli,
e voi, ferri vitali, itene pronti,
ite di Paro a sviscerare i monti,
per innalzar colossi al Re de' Galli.
Vinse l'invitta Rocca e de' vassalli
spezzò gli orgogli e le rubelle fronti,
e macchinando inusitati ponti
diè fuga ai mari e gli converse in valli.
Volò quindi su l'Alpi e il ferro strinse,
e con mano d'Astrea gli alti litigi,
temuto solo e non veduto, estinse.
Ceda le palme pur Roma a Parigi:
ché se Casare venne e vide e vinse,
venne, vinse e non vide il gran Luigi.[6]

Achillini manifesta palesemente un sentire che due secoli dopo, in pieno fervore d'unificazione, non può non sembrare vigliaccamente filostraniero. Sarebbe però un errore confinare indiscriminatamente gli intellettuali secenteschi nella poco onorevole schiera degli ignavi, proni ai potenti: essi hanno invece la percezione, non infondata, che l'intervento esterno, sia francese sia spagnolo, possa essere fattore di stabilità.
In sintesi:

anche in Italia giunge la propaganda politica di Luigi XIII, basata sul motivo dello scontro con gli ugonotti per consolidare la monarchia francese; dunque, persiste il motivo religioso ai fini propagandistici;
la difficile identità italiana a rovescio nel Seicento deve fare i conti anche con voci filofrancesi;
i rapporti fra intellettuali e potere sono complessi: si realizza in certi casi una convergenza di interessi, non c'è solo l'intenzione servile da parte dell'uomo di cultura.

7. Alla metà del secolo Francesco Fulvio Frugoni giunge a parlare di «mondo in epilogo» a proposito di Parigi: è il mondo stesso qui a rovesciarsi. Frugoni è figura molto interessante a partire dalle vicende biografiche: parlando di sé afferma di avere perso tutto mentre era ancora in fasce, a Genova. Studia teologia a Salamanca e viaggia moltissimo. Nel 1651 diventa consigliere personale di Aurelia Spinola e paga la sua fedeltà alla gentildonna con l'espulsione da Genova; ricovera in Francia, a Torino e a Milano. Scrive opere in prosa, fra cui un romanzo, L'eroina intrepida, in cui la protagonista, Aurelia Spinola, giunge a Parigi accompagnata dal Peregrino, nome fittizio per l'autore stesso. È la Parigi di Luigi XIV: capitale di una Francia che si afferma come potenza egemone sul continente, sotto il potere assoluto del suo re. L'impressione che la città suscita in chi proviene dall'Italia è particolarmente forte: Frugoni (come Tassoni poco meno di sessant'anni prima) dipinge l'Italia come uno stagno, al tempo stesso fortunato per la sua quiete ma relegato al di fuori del fervore delle località centrali. A Madrid è subentrata Parigi nella posizione centrale nel continente, ma in ogni caso l'Italia permane periferia e gli italiani se ne dimostrano consapevoli.
In sintesi:

l'uomo di cultura si muove intensamente fra gli stati europei;
la posizione centrale in Europa è conquistata da Parigi;
gli italiani sono consapevoli che l'Italia vive in posizione provinciale;
l'Italia, al di fuori della centralità, guadagna una pace che diventa quasi un luogo comune nei testi dell'epoca.

8. Con la guerra di successione spagnola (conclusa nel 1714) termina il dominio spagnolo. Ma in Italia l'evento non sembra salutato con incontrastato sollievo: anzi, ritorna il tema dello sfruttamento della penisola da parte degli stranieri. L'immagine risorgimentale dell'Italia preda delle potenze straniere si ritrova in un sonetto del poeta Vincenzo da Filicaia. Alla fine del secolo si leva il lamento sulle sorti italiane che era mancato per quasi tutto il Seicento (salvo l'eccezione di Tassoni). Filicaia rappresenta un'Italia infelicemente ricca di bellezze naturali e artistiche che assetano i predatori stranieri. I soldati francesi scendono a torrenti dalle Alpi e insanguinano la terra italiana, decretando per i suoi abitanti il tragico destino di una perenne servitù.

La voce di Filicaia conferma che se nel Seicento italiano si può parlare di identità nazionale, essa si va definendo sempre a rovescio, in relazione con le altre identità che vivono, e dominano, nella penisola. Esistono realtà locali molto diverse all'interno di quella che è oggi l'Italia (es. Venezia); esistono posizioni diverse fra gli uomini di cultura e attivi politicamente (es. Tassoni anti-antispagnolo vs. Malvezzi); non si possono liquidare le posizioni filostraniere nel servilismo interessato, perché non si possono applicare categorie assenti in età moderna, come quella di senso nazionale; i ceti dirigenti si muovono in uno spazio europeo (le vicende biografiche di uno qualsiasi fra i personaggi citati lo provano); il senso identitario non si definisce su una base geografica, ma sulla solidarietà nel conflitto contro un medesimo nemico (es. il Turco o l'ugonotto): a rovescio, per differenza. L'idea ottocentesca dell'Italia preda degli stranieri non è completamente infondata. Fin dall'inizio del loro dominio gli Spagnoli hanno attinto alla penisola per sostenere economicamente le guerre della corona. A fine secolo, si paventa la tirannide francese e i poeti possono recuperare la stessa retorica e gli stessi motivi di due secoli prima. Ciò non significa che dalla discesa di Carlo VIII (1494) alla pace di Rastadt (1714) non sia mutato nulla nella situazione italiana. Sui testi letterari pesano condizionamenti di genere, di lingua, di stile e di tradizione che devono essere mostrati agli studenti affinché essi siano coscienti del limite (e, letterariamente, della ricchezza) che tali testi hanno se sfruttati come fonte storica. Il confronto fra l'ottava conclusiva dell'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, scritta dal poeta che era conte di non esigue tenute a Scandiano nel fatidico 1494, e il sonetto All'Italiadi Vincenzo da Filicaia (incluso nelle sue Poesie toscane del 1707) consente di riflettere sull'evoluzione della percezione dell'Italia negli scrittori e sulla sopravvivenza di luoghi comuni nella poesia.
L'identità italiana secentesca si definisce quindi in maniera problematica: da un lato essa si va affermando proprio per reazione alla presenza straniera sul suolo nazionale, d'altro lato il rapporto con lo straniero non è univocamente conflittuale, anzi al potere esterno ci si riconosce debitori di una distintiva stabilità.

 

Note:


[1] A. Manzoni, I promessi sposi, a c. di A. Marchese, Milano, Mondadori, 1985, cap. XIII, in http://www.liber-liber.it/biblioteca/m/manzoni/i_promessi_sposi/html/index.htm.

[2] G. Leopardi, La ginestra, v. 51, pubblicata postuma nei Canti del 1845, ma l'espressione è usata dal poeta Terenzio Mamiani, nella Dedica agli Inni sacri del 1832.

[3] Per integrare con qualche studio di storici sul tema, si segnalano a titolo esemplificativo i contributi di G. Quazza, La decadenza italiana nella storia europea, Torini, Einaudi, 1971; C. Vivanti, Le due "monarchie" sull'Italia, in Storia d'Italia, vol. II, Torino, Einaudi, 1974, pp. 385-427; P. Renucci, Il Seicento: dalla selva barocca alla scuola del classicismo, ivi, pp.1360-1445; F. Braudel, L'Italia fuori d'Italia. Due secoli e tre Italie, in Storia d'Italia, ivi, pp. 2092-2248; M. Verga, Gli antichi stati d'Italia, in Storia moderna, Roma, Donzelli, 1998, pp. 351-371.

[4]P. Sarpi, Lettera a Jacques Gillot, 12 maggio 1609, in P. Sarpi, Lettere ai Gallicani, a c. di B. Ulianich, Wiesbaden, Steiner, 1961.

[5] Giovan Battista Marino, Conforta i cristiani a prender l'armi contro il Turco, da La lira, in Marino e i Marinisti, a c. di G.G. Ferrero, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 404.

[6] Claudio Achillini, Loda il Gran Luigi, ivi, p. 698.