Spesso ci interroghiamo su quali libri proporre agli studenti per aiutarli a comprendere fino in fondo cosa significhi essere messi ai margini e quanto possano essere distruttive le parole, quando si trasformano in pettegolezzi, allusioni velenose e giudizi sussurrati, ma carichi di malizia. Tra i titoli imprescindibili, nel vasto panorama di quei classici che continuano a parlare al presente e ad insegnare umanità e sensibilità nei confronti delle ferite invisibili, spicca senza dubbio Gli occhiali d’oro. Un romanzo breve, nemmeno cento pagine, ma capace di restituire con delicatezza il ritratto di una solitudine che si consuma in silenzio, un’amicizia nata nell’ombra e un mondo - quello della Ferrara degli anni ’30 - sull’orlo dell’orrore delle leggi razziali. Un libro che resta nel cuore e nella coscienza.
Sullo sfondo di una Ferrara ad un passo dalle leggi razziali, il destino di un giovane studente ebreo – voce narrante del romanzo – si intreccia con quello del dottor Fadigati, brillante otorinolaringoiatra veneziano, titolare del magnifico ambulatorio privato di via Gorgadello. Alto, grosso, con il cappello a lobbia, i guanti gialli e i suoi inconfondibili occhiali d’oro, Athos Fadigati - giunto a Ferrara da Venezia alla fine della prima guerra mondiale - è uno dei medici più ammirati e stimati in città, non solo per la sua bravura, ma anche per la sua notevole cultura letteraria e artistica, i suoi modi sempre cortesi, il suo profondo spirito di carità e la sua incantevole riservatezza. Ma com’è possibile - si chiedono i suoi concittadini - che un uomo talmente straordinario non abbia ancora preso in considerazione l’idea di sposarsi? Negli anni ’30, il dottor Fadigati ha infatti ormai una quarantina d’anni e a Ferrara iniziano ben presto a diffondersi voci sulla sua presunta omosessualità, voci che si moltiplicano e che mettono in luce l’ipocrisia dei cittadini ferraresi borghesi, sempre più curiosi e impazienti di andare a fondo alla questione: «“Non lo sai? Mi risulta che il dottor Fadigati è…” “Sta a sentire la novità. Conosci mica quel dottor Fadigati […]? Ebbene, ho sentito dire che è…”»[1]. Il narratore - interno al racconto – rivela con chiarezza le opinioni e i pettegolezzi della Ferrara benpensante, evidenziando, con uno sguardo sempre lucido e oggettivo, gli interessi e gli occhi indiscreti di una società perbenista, frivola e superficiale:
Esaminando le vicende narrate, si nota come il giudizio della città prenda forma attraverso l’uso ricorrente della terza persona plurale, una forma impersonale che dà voce ad un’entità collettiva vaga e indefinita. Il lettore si trova così di fronte ad un insieme indistinto di sguardi e di volti, un’eco anonima di giudizi e di sospetti che non assume mai contorni ben precisi e di cui non si conosce nulla di certo, se non la comune provenienza sociale: si tratta di membri della borghesia cittadina, la stessa classe a cui appartengono sia il medico protagonista che il narratore. In una prospettiva di verifica delle forme sintattico-narrative, il brano bene si presta all’analisi delle forme della narrazione corale, che nel romanzo talora sostituisce il punto di vista (prevalente) del narratore in prima persona, che contiene molti particolari appartenenti alla figura storica di Giorgio Bassani.
Nel 1936, quando Fadigati comincia a viaggiare sul treno Ferrara-Bologna due volte a settimana, incontra - nel vagone di terza classe - un gruppo di studenti universitari. É questa l’occasione in cui lo stimato medico e l’io narrante si conoscono, occasione che segnerà l’inizio di una profonda e autentica amicizia. Tra i giovani studenti si distingue, in particolare, Eraldo Deliliers, il ragazzo più amato e idolatrato della combriccola, che tuttavia non degna Fadigati neppure di uno sguardo, ferendolo - ogni volta che gli capita - con trasparenti allusioni e brutali doppisensi. Di fronte agli insulti e alle provocazioni del giovane, il dottore – quieto, bonario e spesso intento a leggere il “Corriere della sera” – impallidisce e resta sconcertato, trovandosi in una situazione che non riesce ad affrontare se non reagendo con estrema educazione e mantenendo sempre la sua consueta compostezza:
Con l’arrivo dell’estate, Fadigati e Deliliers si recano - come ogni anno - in villeggiatura a Riccione e, sulla spiaggia affollata, non si parla altro che di loro, della loro “amicizia scandalosa”. “Gli sposini” – così vengono soprannominati dalle tante famiglie ferraresi in vacanza - soggiornano infatti in vari alberghi, mangiando allo stesso tavolo, dormendo nella stessa stanza e viaggiando a bordo di una Alfa Romeo rossa, rombante e nuova di zecca.
Biondo, abbronzato e bellissimo nelle sue magliette aderenti, Deliliers guida l’automobile. Fadigati, invece, tutto fiero del suo berretto di panno scozzese, si limita a farsi scarrozzare su e giù, a fianco del compagno.
Ben presto, però, Deliliers comincerà a prendere progressivamente le distanze dal medico, fino a sparire completamente, lasciandogli il conto da pagare e costringendolo a rientrare a Ferrara.
Nel frattempo, anche il narratore è giunto a Riccione e ha modo di ascoltare e riportare i pettegolezzi della vox populi, compresi i giudizi cinici e sprezzanti della Signora Lavezzoli che, puntando l’occhialetto verso gli ombrelloni, vigile e con le orecchie sempre tese, riferisce - «con la tecnica, quasi, di un cronista sportivo»[2] - tutto ciò che vede e sente.
Poco dopo, Deliliers si traferisce a Parigi e il medico si ritrova così solo, abbandonato e soffocato dall’imbarazzo dello scandalo: i suoi pazienti diminuiranno sempre di più e, in breve tempo, il dottor Fadigati sarà inevitabilmente colpito da una grave crisi economica.
Intanto, le leggi razziali stanno per entrare in vigore e, in autunno, quando la campagna denigratoria contro gli ebrei è ormai iniziata, anche il narratore rientra a Ferrara. Il dottore gli confiderà quanto accaduto durante l’estate, mentre il giovane ebreo, di fronte ai tanti articoli pubblicati sui quotidiani, si mostra sempre più inquieto e timoroso per proprio il futuro. È dunque un momento di grande preoccupazione non solo per il medico, ma anche per l’io narrante e per la sua famiglia: per la prima volta, infatti, il narratore inizia a sentirsi profondamente solo, diverso ed escluso. Un’emarginazione – questa – in cui il dottor Fadigati, specialmente in seguito allo scandalo estivo, può facilmente riconoscersi e che, pertanto, costituirà un tassello fondamentale nella costruzione del legame profondo tra i due protagonisti:
Link 3 – l’omosessuale e l’ebreo
Un giorno, il giovane ebreo - mentre attende una telefonata da parte del medico – nota sul giornale del lunedì, in fondo alla pagina di sinistra, a fronte di quella sportiva, un titolo di media grandezza. Lo legge e ha l’impressione che, per un istante, il suo cuore si sia fermato. Il titolo recita: «Noto professionista ferrarese annegato nelle acque del Po».[3] È con la notizia della morte del dottor Fadigati che il romanzo si chiude. Un’uscita di scena tanto delicata quanto profondamente struggente, in cui appare ormai chiaro come, dietro la raffinatezza e la condotta ineccepibile del medico, si celi in realtà un abisso di solitudine, una profonda sofferenza causata da un “vizio” del tutto intollerabile nell’Italia di quegli anni. Il titolo stesso del romanzo è, in questo senso, particolarmente emblematico: gli occhiali d’oro che scintillano sul volto del dottor Fadigati diventano il simbolo di una diversità inaccettabile che – così come l’appartenenza all’ebraismo del narratore - non può che andare incontro ad una deriva tragica.
Con uno sguardo lucido e al tempo stesso profondamente partecipe della realtà che descrive, Bassani ci narra così la storia di due emarginazioni, quella legata alla fede ebraica dell’io narrante e quella derivata dall’omosessualità del protagonista. Due diversità che si incontrano dando vita ad una amicizia.
Il racconto è scorrevole e di altissima intensità emotiva, senza dubbio adatto alla lettura a scuola: si tratta di un romanzo breve - pubblicato nel 1958 e poi incluso ne Il romanzo di Ferrara - che, attraverso uno stile elegante, raffinato ma mai artificioso e un uso sapiente della narrazione in prima persona, affronta un’ampia gamma di temi – dall’esclusione sociale all’ipocrisia e al conformismo della società borghese - tanto cruciali quanto estremamente attuali. Ambientato nella Ferrara fascista degli anni ’30, Gli occhiali d’oro non solo offre agli studenti l’occasione di toccare con mano il clima repressivo del tempo e la tragedia delle discriminazioni razziali, ma fornisce anche lo spunto per porsi alcuni interrogativi essenziali e di grande attualità: che cos’è la normalità? Quali forme di emarginazione esistono ancora oggi? É meglio cambiare sé stessi per timore di non essere accettati o preservare la bellezza della propria unicità?
Da questo punto di vista, il ruolo dell’insegnante si rivela senza dubbio fondamentale: ogni singolo studente, per lo sviluppo della propria personalità, necessita di essere apprezzato, incluso, stimato e mai messo in disparte. Certo, la sfida dell’inclusione è tutt’altro che semplice: occorre, in primo luogo, spogliarsi delle proprie convinzioni e mettersi nei panni dell’altro, ricordando che le differenze non costituiscono mai un ostacolo, ma sempre un’occasione di conoscenza, di riflessione e di crescita. Il primo passo da compiere è dunque quello di modificare le percezioni e i rigidi schemi cognitivi con cui rappresentiamo gli altri, così da poter superare stereotipi e pregiudizi.
L’inclusione è una sfida aperta, una sfida che parte dalla formazione e dalla scuola; e se vogliamo essere davvero inclusivi, dobbiamo innanzitutto prestare attenzione al linguaggio: quando si comunica occorre precisione e consapevolezza del significato, del senso delle parole. «Le parole possono essere muri o ponti. Possono creare distanza o aiutare la comprensione dei problemi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate, confondere o addirittura offendere».[4] Ed ecco che, in un’ottica di accettazione della diversità e di reciproco arricchimento attraverso il confronto, la forza e la bellezza dell’amicizia – come quella tra il dottor Fadigati e il giovane ebreo - può senz’altro essere una chiave preziosa per superare qualsiasi barriera.
A questo proposito, nell’ambito di un possibile percorso didattico incentrato sul racconto bassaniano, non si può non fare riferimento al film Quasi amici, la cui visione può certamente offrire agli studenti un ulteriore spunto di riflessione sul tema. Si tratta di un film, ispirato ad una storia vera e ambientato a Parigi, che mette emblematicamente in luce come la profondità del sentimento umano possa talvolta superare limiti che appaiono invalicabili. I destini di Driss e Philippe, protagonisti della pellicola, si incrociano all’improvviso e dal loro incontro nasce un rapporto autentico e prezioso, all’interno del quale entrambi si sentono liberi di esprimersi e di essere sé stessi, senza alcun timore di essere giudicati. Il film mette a confronto due personaggi che, fin dall’inizio, non sembrano avere nulla in comune: Driss è un ragazzo di origine senegalese, povero, cresciuto in un quartiere malfamato ai margini della periferia parigina e, per di più, ex detenuto alla ricerca dell’ennesimo sussidio di disoccupazione. Philippe, invece, un aristocratico benestante che vive in una lussuosa villa nel centro della città, è divenuto paraplegico a causa di un incidente in parapendio, la sua più grande passione. I due si conosceranno quando Philippe assumerà Driss come badante personale e in pochissimo tempo diventeranno grandi amici: scopriranno che, benché le loro personalità siano agli antipodi, condividono - ciascuno a modo suo - l’esperienza dell’emarginazione e comprenderanno, dopo numerosi diverbi, di non poter fare a meno l’uno dell’altro. Tutti e due sono infatti a loro modo discriminati: Philippe per il suo stato di salute e Driss per il colore della sua pelle. Tuttavia, quando sono insieme, sono semplicemente Driss e Philippe e, come per magia, gli stereotipi dentro i quali si sentono costantemente imprigionati svaniscono. Due personaggi diversi, proprio come i protagonisti del racconto bassaniano, ma accomunati dalla medesima forza d’animo e legati da una profondissima intesa. D’altronde, ciò che davvero conta è il cuore, l’essenza, che - come ha mirabilmente affermato Antoine de Saint-Exupèry nel suo celebre Piccolo Principe – è invisibile agli occhi. In fondo, come recita il proverbio, “chi trova un amico trova un tesoro”; ma il tesoro può essere disseppellito soltanto cambiando prospettiva e imparando a mettersi, ogni volta, nei panni dell’altro.
18 giugno 2025
[1] G. Bassani, Gli occhiali d’oro, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 15.
[2] G. Bassani, Gli occhiali d’oro, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 42.
[3] G. Bassani, Gli occhiali d’oro, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 90.
[4] Dolores Rollo, Le età dello sviluppo, Milano, FrancoAngeli, 2019, pp. 136-137.