Rossella Romice - Una notte del ’43 di Giorgio Bassani

Una proposta didattica tra narrazione letteraria e riscrittura cinematografica

 

Il presente contributo si pone l’obiettivo di delineare e proporre un possibile percorso didattico incentrato su Giorgio Bassani, prendendo in esame, in particolare, il racconto intitolato Una notte del ’43, anche alla luce dell’adattamento cinematografico, La lunga notte del ’43, realizzato da Florestano Vancini nel 1960.

Grazie all’ampia documentazione messa a disposizione dall’Archivio eredi Bassani di Parigi e dalla Fondazione Giorgio Bassani di Ferrara - nata nell’aprile del 2002 per onorare e mantenere viva la memoria dello scrittore – l’autore, negli ultimi anni, è stato oggetto di grande interesse e di studi significativi, che hanno consentito di mettere in luce alcuni aspetti cruciali non solo del suo mondo letterario e cinematografico, ma anche – specialmente grazie alle preziose analisi condotte da Beatrice Pecchiari e da Angela Siciliano, sulle carte manoscritte e dattiloscritte delle Cinque storie ferraresi - del suo peculiare modus operandi, del suo procedere, cioè, per “abbozzi”, per varianti che continuamente si sovrappongono e si intrecciano, svelando un’incessante e faticosa ricerca che tende alla nitidezza della forma compiuta.

Ragionare sul ricco e profondo lavoro filologico compiuto in questi anni sulle carte di Bassani, non intende ovviamente proporre a scuola alcuna forma di erudizione filologica, ma sfruttare la messa a disposizione di materiale preparatorio come occasione per entrare dentro il ‘laboratorio’ della scrittura: farne insomma un’occasione di esercizio di consapevolezza sulle modalità e sulle diverse articolazioni dello scrivere (anche in relazione alla questione, cruciale per la didattica della letteratura, delle ‘riscritture’ nei passaggi tra media e codici narrativi diversi)

Nella prima parte del lavoro l’attenzione è rivolta al tema, centrale in Bassani, dell’incoscienza collettiva borghese, incarnata simbolicamente dal personaggio di Pino Barilari, protagonista del racconto.

Nella seconda parte è stata presa in considerazione l’idea di arricchire la riflessione sul tema, affiancando ad un’attenta lettura integrale del racconto la visione del film di Vancini, con l’obiettivo di mettere in luce il personaggio cruciale (nel film, ma assente nel racconto) di Franco Villani e il concetto di adattamento cinematografico. Il progetto proposto ambisce dunque non solo a sviluppare competenze di analisi del testo letterario, ma anche a mettere in rilievo il rapporto di collaborazione e di reciproco arricchimento tra la letteratura e il cinema, due differenti media rappresentativi che si avvalgono di specifici strumenti e tecniche espressive.

Da ultimo, è stato preso in esame il problema del punto di vista narrativo, ponendo a confronto il testo bassaniano originale di Una notte del ‘43 con l’adattamento teatrale scritto e diretto da Carlo Varotti (2018), in cui la voce del narratore corale lascia spazio al punto di vista interno di Pino Barilari. Il contributo propone, a tal proposito, di dare vita ad attività di cooperative learning e di role playing volte a raccontare la storia attraverso punti di vista differenti.

 

1. Una notte del ’43: Pino Barilari e l’inettitudine borghese

In Una notte del ’43, racconto conclusivo delle Cinque storie ferraresi, Bassani si serve della Storia e degli eventi realmente accaduti a Ferrara nel novembre del ‘43  per ricostruire, con la precisa rievocazione dei luoghi e di quel particolare clima storico, un episodio fondamentale dell'Italia di quel periodo: nella notte tra il 14 e il 15 novembre del ‘43 alcuni inermi cittadini ferraresi vennero fucilati dai fascisti della neonata Repubblica di Salò per rappresaglia all’uccisione di Igino Ghisellini, segretario provinciale di Ferrara del Partito Fascista. La mattina del 14 novembre 1943, Ghisellini, atteso in città dai suoi collaboratori per recarsi a Verona al Congresso del nuovo Partito Fascista Repubblicano (non più, quindi, il vecchio PNF ma una nuova realtà costituitasi poche settimane prima) non si presentò all’appuntamento.

Verso le 10 del mattino, nei pressi di Castel d’Argile (25 chilometri a Nord.ovest di Bologna), il corpo di Ghisellini fu rinvenuto in un fossato. A Verona giunse ben presto la notizia che il federale era rimasto vittima di un attentato. Nella notte tra il 14 e il 15 novembre, militi delle brigate nere provenienti da Padova e da Verona diedero così avvio alla spedizione punitiva e rastrellarono undici cittadini, rei, secondo l’accusa, di aver manifestato sentimenti antifascisti (in realtà erano principalmente esponenti dell’antifascismo moderato). L'eccidio avvenne pubblicamente lungo la spalletta della fossa del Castello Estense e l'omicidio Ghisellini resta ancora oggi avvolto da un’aura di mistero: chi ha ucciso il federale? Sono stati gli antifascisti o Ghisellini è rimasto vittima delle tensioni interne che dividevano le diverse fazioni del nuovo PFR?

In questo quadro si inserisce il racconto di Bassani che, tuttavia, sceglie di posticipare di un mese la data della strage poiché, come egli stesso sottolinea in più di un’intervista, era affascinato dall’immagine dei corpi esanimi dei fucilati distesi sulla neve. Nella finzione del racconto, la fucilazione ha così luogo il 15 dicembre 1943, in una Ferrara dipinta di bianco. L’unico testimone della strage è il farmacista Pino Barilari, protagonista immaginario di Una notte del ‘43, che, costretto alla immobilità da una grave malattia contratta in gioventù durante la Marcia su Roma, la sifilide, trascorre gran parte delle sue giornate affacciato alla finestra della sua cameretta sopra la farmacia e, con il suo binocolo, osserva tutto ciò che accade nel sottostante Corso Roma (oggi Corso Martiri della Libertà). Tuttavia, dopo la guerra, durante il processo contro gli uccisori, Barilari rifiuta di testimoniare contro i responsabili: alla domanda precisa su cosa accadde quella notte risponde «Dormivo».[1] La finestra della sua stanzetta si trova esattamente di fronte al muretto del fossato del Castello Estense e Barilari non può, presumibilmente, non avere visto tutto, ma sceglie di tacere, assurgendo così, nel racconto, al ruolo di personaggio emblematico della fretta dei ferraresi (e, più in generale, degli italiani) di sottrarsi ad ogni esame di coscienza collettivo sulle proprie responsabilità.

Pino Barilari diviene così il simbolo delle responsabilità della borghesia italiana nei confronti del Fascismo: Una notte del ‘43 evidenzia i tratti più scandalosi di quella che Bassani definisce «incoscienza collettiva borghese»[2] e sviluppa una critica impietosa nei confronti di un atteggiamento acquiescente nei confronti anche del volto più sinistro del Fascismo, come quello violento e repressivo si Salò. Il racconto denuncia infatti il comportamento collettivo dei ferraresi borghesi benpensanti che con il Fascismo stabiliscono sin dal suo avvento un rapporto di consenso passivo e di connivenza. È l’ignavia di una borghesia meschina e superficiale, prima acquiescente nei confronti delle aberrazioni del Fascismo, poi, nel dopoguerra, incapace di fare i conti con il passato e pronta rapidamente a dimenticare. Quella stessa parte della società a cui appartiene anche il farmacista Pino Barilari, che con la sua paralisi simbolica del corpo e della coscienza, la rappresenta metaforicamente all’interno del racconto.

Una notte del ‘43 non è dunque solo il racconto di un tragico fatto storico, ma presenta con rigorosa precisione e acutezza visiva, in una storia romanzata, le basse ideologie di quegli anni, evidenziando il modo di ragionare turpe e ipocrita dei ferraresi borghesi, che dopo l'eccidio aderiscono alla Repubblica di Salò prendendo in massa la tessera del Fascio, a conferma di una logica del gregge subalterna verso il Regime.

Non a caso, Pino ha contratto la sifilide nel ’22, durante la Marcia su Roma; poi la malattia ha taciuto subdola nel suo corpo finché proprio nel ‘39 si è manifestata improvvisa. Proprio per questa coincidenza di date, che va dall'affermazione della politica del fascismo all'anno che ne prepara la dissoluzione, la malattia di Pino diventa chiaramente l'immagine della borghesia contagiata per aver stretto con Mussolini un patto scellerato già a partire dalla Marcia su Roma.

Anche nell’ammicco rivolto da Carlo Aretusi (il gerarca fascista, soprannominato Sciagura, su cui pesa, nella finzione del racconto, la responsabilità della rappresaglia) a Pino prima di testimoniare, è possibile individuare simbolicamente una polemica nei confronti della connivenza della borghesia con il fascismo che è sempre stata un gioco di sorrisi e ammicchi, proprio come quello manifestato dai borghesi di Ferrara, così solleciti a giustificare l'eccidio dei fascisti.

Pino Barilari, il testimone reticente che ha taciuto il nome di Aretusi, viene così ad incarnare l'ennesima immagine dell'inettitudine borghese: Pino trascorre i suoi giorni felicemente recluso nella casa paterna con lo svago della settimana enigmistica. Per lui, la vita è un rebus di facile soluzione. Tuttavia, nonostante la malattia che lo costringe alla carrozzella o a stentati passi con le stampelle, il farmacista vive in uno stato di paradossale felicità e quando guarda lo spettacolo del mondo dalla sua finestra, come se fosse a teatro, non progetta mai fughe liberatorie. La paralisi gli consente infatti di tornare allo stadio pre-edipico del bambino in simbiotico legame affettivo con la madre; il malato diventa bisognoso di protezione come un bambino, al punto tale da instaurare con la moglie-mamma Anna un rapporto filiale in cui non mancano addirittura atteggiamenti capricciosi: ogni volta che risolve un rebus della «Settimana enigmistica», Barilari pretende dalla moglie un complimento gratificante, a conferma dell'infantile autostima narcisistica che lo nutre.

 

E così, per farle vedere com'era bravo […] si metteva a chiamarla: “Anna, Anna!”: con tanta impazienza e insisteva che lei, per quietarlo, doveva piantare immediatamente la cassa, salire di sopra, e aspettare che lui, mostrandole il problema, al fine si decidesse, con gli occhi che gli brillavano di orgoglio, a rivelargliene la soluzione.[3] 

 

Significativo, a questo proposito, è il fatto che Anna Barilari, immaginaria moglie del protagonista, negli anni del dopoguerra lasci il marito per darsi alla prostituzione. Una decisione, questa, volta a recidere ogni legame con quella stessa classe borghese che, dopo la notte del ‘43, proprio come il marito al processo, aveva detto: «Dormivo».[4]

Se dunque, da un lato, Pino Barilari è un personaggio impregnato di valori legati alla malattia come metafora della degradazione morale che ha colpito la classe borghese negli anni del fascismo, la scelta di Anna, all'opposto, diventa la metafora della rivolta contro quella stessa società borghese pervasa di ipocrisia.

 

2. Letteratura e cinema: La lunga notte del ’43

L’incoscienza collettiva borghese, tema – come abbiamo visto - cruciale in Una notte del ’43, emerge in maniera forse ancora più evidente ne La lunga notte del ’43, adattamento cinematografico del racconto bassaniano diretto da Florestano Vancini nel 1960. La sceneggiatura è redatta dallo stesso Vancini in collaborazione con Ennio de Concini e Pier Paolo Pasolini e il film, presentato alla Mostra di Venezia, ricevette il Premio Opera Prima. Bassani, pur esprimendo un giudizio complessivamente positivo - specialmente per quanto concerne l’efficacia della resa dell’eccidio - decise di non collaborare alla realizzazione del film, poiché, come egli stesso dichiara in un’intervista, non voleva firmare una versione della storia di Pino Barilari, di sua moglie Anna e di Sciagura, diversa da quella che aveva scritto nel 1955 e poi pubblicata in volume nel ’56. Si tratta di un lungometraggio che, pur ispirandosi al racconto originale, mostra una grande libertà creativa e interpretativa, offrendo allo spettatore una riflessione ulteriore sulla Storia e sul tema della memoria.

Come ci ricorda Sergej Ejzenstejn, nell'ambito della transizione dal testo scritto alle immagini in movimento, una trasposizione cinematografica rigorosamente fedele della pagina letteraria non è mai possibile, né tantomeno desiderabile. Ogni volta che un autore, nel passaggio dalla modalità narrativa a quella performativa, si trova a confrontarsi con un modello di partenza, deve dunque essere consapevole che ogni tentativo di riprodurre l'originale non può che essere illusorio. A questo proposito, anche Linda Hutcheon, in un libro ormai classico, Teoria degli adattamenti,[5] evidenzia come un adattamento non sia mai una mera riproduzione dell’opera adattata, ma sempre un atto critico-interpretativo e creativo, un processo di appropriazione e reinterpretazione dell’originale.

A causa dell'assenza di un percorso narrativo lineare nel racconto di Bassani, Vancini, ad esempio, ha dovuto crearne uno nuovo, che si adattasse ai meccanismi cinematografici e alle aspettative di sviluppo della trama da parte degli spettatori. Ecco quindi che il regista non solo sceglie di dare maggiore rilievo al personaggio di Anna (diventata, nel film, secondo Bassani, una lagnosa e sentimentale donnetta borghese), ma arriva anche a modificare l’intreccio, dando vita ad una storia d’amore che è assente nel racconto e che l’autore critica, definendola fiacca e poco interessante rispetto a quella cruciale di Pino Barilari. Dall’originaria ed essenziale triade Barilari-Anna-Sciagura, il sistema dei personaggi si arricchisce di un nuovo protagonista: Franco Villani, uomo di famiglia borghese antifascista, amante di Anna e figlio di una delle vittime della rappresaglia fascista. É proprio su questo sconcertante personaggio, che appare persino più ignavo dello stesso farmacista e che, all'indomani dell’eccidio, fugge non solo materialmente da Anna e da Ferrara, ma anche dalla responsabilità morale di conoscere la verità, che si trasferisce il giudizio corrosivo formulato da Bassani riguardo alla condotta di una parte degli italiani durante la guerra civile. Villani, infatti, rappresenta una sorta di raddoppiamento dei vizi e delle debolezze di Barilari: Pino e Franco rappresentano due facce della stessa medaglia, due facce della medesima incapacità di vedere della borghesia italiana.

Pino, da un lato, rifiutando di denunciare i responsabili dell’eccidio, si rivela un personaggio totalmente privo di colore, una figura grigia incapace di assumersi le proprie responsabilità e di prendere una posizione (Un aspetto, questo, che nel racconto di Bassani, emerge anche dal processo per l'individuazione dei responsabili del massacro, processo che, tuttavia, non viene descritto nella pellicola).

Similmente, Franco, che non sembra provare in alcun modo un sentimento di amore autentico nei confronti di Anna, mostra di non essere in grado di compiere una scelta di resistenza attiva al fascismo: al suo ritorno nella Ferrara degli anni ‘60, quando incontra il responsabile dell’eccidio, Carlo Aretusi, lo descrive alla moglie svizzera come una persona che non si è mai macchiata di crimini, un poveraccio che non ha mai fatto nulla di male. Se, quindi, nel racconto di Bassani, centrale è la figura di Pino Barilari, la cui infermità fisica e la cui omertà denunciano la bassezza morale e il conformismo di una borghesia infettata dal fascismo sin dalla fase iniziale della sua ascesa, Vancini si spinge oltre e sviluppa questa denuncia grazie all'invenzione del personaggio di Franco: il suo rifiuto di conoscere la verità rappresenta rifiuto dell’intera borghesia di fare i conti con le responsabilità del passato.

A questo proposito, il grande regista russo Andrej Tarkovskij (1932-1986), parlò di un ‘silenzio sinistro’ che, a suo avviso, avvolgerebbe l’intera pellicola. Il silenzio è innanzitutto quello di Pino Barilari, la cui paralisi diventa lo specchio di un’Italia travolta dagli eventi e capace solo di rimozione, ma è anche quello di Franco Villani che decide di espatriare, e quando tornerà stringerà la mano a Sciagura, il diabolico responsabile della rappresaglia fascista. Ma il silenzio riguarda anche la figura di Anna, moglie infelice di Barilari e amante di Franco. Consapevole di quanto è accaduto, la donna, infatti, abbandona Ferrara per sempre. É il silenzio di un Paese che è stato alla finestra e ha chiuso gli occhi, tacendo di fronte a tutto. Un Paese con una debole coscienza civile, che sceglie non solo di dimenticare, ma soprattutto di non denunciare. Un Paese, in cui, come proclama Carlo Aretusi in una delle ultime scene del film «il passato sarà cancellato, le colpe saranno redente!».[6]

La grande libertà creativa che anima la riscrittura cinematografica vanciniana emerge, in particolare, nell'epilogo della pellicola. Vancini, alla fine del film, abbandona la narrazione di ciò che accade ai personaggi nel 1943 per trasportarci bruscamente nel presente, in quel 1960 in cui il film è stato girato. In una Ferrara che sembra ormai vivere felicemente negli anni del miracolo economico - evocato dalle macchine e dalle immancabili Vespe che vediamo nelle strade, ma anche dalle varie insegne al neon che pubblicizzano i prodotti da comprare – Vancini ci mostra Franco Villani (accompagnato dalla moglie e dal figlio) che, dopo una passeggiata nei pressi della lapide che commemora l'eccidio degli undici cittadini ferraresi, decide di fermarsi con la sua famiglia al bar. Seduto al tavolino, incrocia casualmente lo sguardo di Aretusi e dopo quattro chiacchiere amichevoli, finisce per stringere la mano all’assassino di suo padre «con un atteggiamento misto di cordialità ed indifferenza che non può non lasciare lo spettatore con la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco».[7] Poco dopo, Vancini ci mostra la famiglia Villani attraversare la strada e passare nuovamente davanti alla lapide, per poi concludere la pellicola con un rapido zoom sulla lapide stessa che rimarca la superficialità, l’apatia e la mancanza di memoria storica di Villani e, potremmo dire, degli italiani in generale.

Ecco quindi che, nell’ottica di un percorso didattico incentrato su Giorgio Bassani, la riscrittura vanciniana, in questo segmento finale della pellicola, offre una riflessione per certi versi più diretta su uno dei temi principali che emergono dalle pagine bassaniane. L’indagine retrospettiva sulla condotta degli italiani compiuta da Bassani attraverso la descrizione del microcosmo ferrarese, grazie alla distanza storica istituita dall'epilogo rispetto agli eventi precedenti, si arricchisce, nel film, di una riflessione critica sul rapporto tra passato e presente: la rievocazione storica di un avvenimento sarebbe priva di significato se non se ne utilizzasse l’insito potere di monito, di esortazione ad agire sul presente per migliorarlo, se non si considerasse il passato come un’esperienza che deve in primo luogo insegnarci a comprendere e a riflettere affinché certi eventi negativi non si ripetano in futuro. La visione del film, accompagnata naturalmente da un’attenta lettura integrale del racconto, può allora indubbiamente stimolare la riflessione e il confronto in classe, mostrando al contempo come letteratura e cinema siano due discorsi artistici che, seppur rappresentando la realtà attraverso mezzi espressivi differenti, non sono mai separati da una barriera invalicabile, ma possono sempre collaborare e arricchirsi vicendevolmente.

 

3. Il problema del punto di vista

È chiaro come Una notte del ‘43 ruoti intorno a tre personaggi: il gerarca fascista Carlo Aretusi, il farmacista Pino Barilari e sua moglie Anna. Tra questi, però, è il solo Barilari, con la sua posizione privilegiata di osservazione (la finestra di fronte al castello), ad essere presente in maniera continuativa all’interno del racconto.

Occorre tuttavia sottolineare che Pino Barilari è un personaggio muto: Pino non prende mai la parola e viene costantemente colto attraverso gli occhi e il sapere di un personaggio collettivo che a sua volta lo spia: la popolazione di Ferrara. Esiste, cioè, un secondo punto di vista, superiore a quello del farmacista e degli altri personaggi principali: la vox populi dei ferraresi, attraverso la quale tutti gli avvenimenti vengono filtrati – si tratti della rappresaglia dei fascisti o delle vicende private di Barilari - e di cui vengono esposti i pensieri, i sentimenti e i timori.

Bassani, convinto che la verità possa emergere anche senza che il narratore abbia bisogno di sottolinearla, dà vita ad una rappresentazione corale della realtà e, attraverso l’uso del discorso indiretto libero, riferisce al lettore le opinioni del coro della città, il punto di vista della collettività: i pensieri e i ragionamenti dei cittadini ferraresi affiorano senza essere espressi direttamente dalla voce dei personaggi e senza essere introdotti dai verbi dichiarativi o dai segni di interpunzione propri del discorso diretto. È, insomma, il flusso del pensiero collettivo a dominare le pagine bassaniane, il parere soggettivo di una folla di osservatori attenti e mai imparziali che restituiscono una verità soltanto parziale e frammentaria. Barilari acquista perciò tratti che sono il risultato del giudizio delle persone che esprimono opinioni nei suoi riguardi. È, in altri termini, incorniciato così come appare nella particolare valutazione e visione dei cittadini ferraresi.

Si noti, ad esempio, il seguente passo tratto dal secondo capitolo del racconto:

 

Nel ’36, per esempio, quando il vecchio massone era morto, a vederlo prontamente prendere posto dietro il banco della farmacia la sorpresa era stata generale. Chiuso nel candido camice di precetto serviva i clienti con sicurezza, si lasciava chiamare dottore. Dunque aveva frequentato e finito l'università! -  mormoravano sbalorditi -. Ma dove? Quando? Chi erano stati i suoi compagni di studi?[8]

 

È evidente come attraverso il discorso indiretto libero che esprime l’opinione pubblica ferrarese, Bassani delinei qui il ritratto non certo edificante del protagonista, Pino Barilari, che si trova a ricoprire il ruolo di farmacista quasi per caso, per il solo fatto di essere il figlio del farmacista di Ferrara. La città pettegola osserva Barilari e si interroga sulla sua vita e sulle sue scelte, arrivando addirittura a mettere in dubbio il suo percorso di studi e la sua laurea.

Poco dopo, all’interno del medesimo capitolo, troviamo un altro passo senza dubbio emblematico:

 

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Il brano preso in esame è incentrato sul giudizio negativo che la gente di Ferrara esprime nei confronti della moglie di Barilari, aspetto sottolineato anche dal narratore stesso: «Per lei, da parte di molti, erano già stati azzardati a suo tempo i pronostici più straordinari». Anche nella delineazione del ritratto di Anna, donna procace e bellissima che il timido Pino Barilari è inaspettatamente riuscito a sposare, emerge dunque il pensiero soggettivo del personaggio collettivo, che trova il suo apice nell'espressione colloquiale «innato puttanesimo».  Il testo termina con una conclusione che, anche attraverso l'uso della parentetica «- concludevano con una smorfia -», assicura il lettore che il punto di vista non è quello dell’autore, ma quello del coro della città.

Il punto di vista corale è riscontrabile anche nel passo in cui emerge l’adesione della collettività al rinato fascismo della Repubblica di Salò, collettività che giudica negativamente i tentativi di sovversione antifascista e i loro autori, definendoli mascalzoni, disfattisti, sabotatori e spie. È il giudizio di quella stessa borghesia che, in seguito, tenderà a difendere per opportunismo le nefandezze commesse da Sciagura, giustificandone l’operato, per sfociare infine, a guerra conclusa, in un comodo oblio:

 

Si andava verso il peggio, altro che storie. Si era circondati da disfattisti, da sabotatori, da spie. E che le cose non marciassero per il verso buono lo si capiva osservando le facce di certi ebrei, ad esempio, nei quali era dato ancora adesso di imbattersi in pieno corso Roma, sotto il portico del Caffè della Borsa (tutti quanti nei ghetti, viceversa, si sarebbe dovuto tornare a rinchiudere gli ebrei: e basta coi soliti pietismi fuori posto!), oppure quelle di alcuni dei più sfegatati antifascisti cittadini, che dal Caffè  della Borsa ci passavano soltanto in occasione delle pubbliche disgrazie, e infatti eccoli sempre là, adesso, simili ad altrettanti uccellacci di malaugurio, che ci capitavano quasi ogni giorno.[9]

 

Anche nel seguente brano tratto dal terzo capitolo del racconto, il coro della città si rivela protagonista e fervido sostenitore della Repubblica di Salò. Si inanella tutta una serie di considerazioni, una sorta di arringa in difesa dei fascisti, definiti «poveri diavoli», e dello stesso Mussolini, «poveruomo», quasi costretti a recitare la parte dei “cattivi” per evitare, da un lato, la ferocia che avrebbero potuto esprimere gli alleati/invasori tedeschi, dall’altro, per difendere la popolazione dal pericolo concreto di una dittatura comunista, vero traguardo, nelle parole dell’autore, della guerra partigiana:

 

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Dopotutto, dal punto di vista della borghesia ferrarese, gli antifascisti messi in prigione sono appena una decina, mentre «Poveri diavoli, i fascisti», che con la loro attiva presenza evitano all’Italia, occupata dai tedeschi, ben altri orrori. L'uccisione del reggente Bolognesi, poi, è imitazione della lotta partigiana jugoslava e francese e Mussolini, «poveruomo», torna al comando per salvare il salvabile mentre la Monarchia si è data alla fuga.

 

4. La riscrittura teatrale come possibile esperienza didattica.

È proprio nell'ambito del tema del punto di vista che si inserisce l'adattamento teatrale di Una notte del ’43, scritto, diretto e interpretato da Carlo Varotti (presentato ufficialmente a Casa Ariosto, a Ferrara, in occasione del convegno “Laboratorio Bassani, del 23-24 maggio 2018). L'adattamento costituisce la prima parte di una trilogia dedicata a Bassani (le altre due parti sono Gli occhiali d'oro e Una lapide in via Mazzini) e incentrata sul tema dell'esclusione: la malattia (Una notte del ’43), l'omosessualità (Gli occhiali d'oro) e la condizione ebraica (Una lapide in via Mazzini). La riscrittura teatrale del racconto determina non solo un cambiamento del punto di vista adottato, ma anche una vera e propria ristrutturazione degli spazi in cui si svolge la vicenda: alla vox populi dei cittadini ferraresi, espressa dalla voce anonima di un narratore corale, si sostituisce il punto di vista di Pino Barilari, di colui che vive dall’interno e in prima persona il suo stesso dramma. A differenza di quanto accade nel racconto, la scena si sposta dall’esterno all’interno e Barilari, unico personaggio presente sul palcoscenico, prende la parola in un lungo monologo interiore, trovandosi, nella sua stanzetta, a dover fare i conti con il proprio passato. Ecco quindi che la finestra della sua cameretta non è più il luogo osservato attraverso gli occhi curiosi di una Ferrara malevola e ipocrita, ma il cantuccio dal quale Pino guarda la città che lo circonda. La riscrittura teatrale, se posta a confronto con il testo bassaniano originale, può allora offrire un interessante spunto di riflessione e costituire il punto di partenza di un possibile percorso didattico da sviluppare in classe: attraverso attività di cooperative learning e di role playing, leggere integralmente il racconto e provare a raccontare la storia da diversi punti di vista – quello di Barilari o della città, piuttosto che, ad esempio, quello di Sciagura o di Anna - trovando le parole e i mezzi di espressione più adatti ad esprimere la tragedia di cui il racconto si fa portavoce.

 

 

Bibliografia

 

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BOILLET E., Poeta, storico, testimone: la sintesi idealista, in Bassani nel suo secolo, a cura di Amrani S. e De Paulis-Dalembert M., Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2017, pp. 347-368.

CAVALERI G., Giorgio Bassani e il cinema italiano: dalla scrittura scenografica percepita come engagement alle trasposizioni cinematografiche, in Bassani nel suo secolo, a cura di Amrani S. e De Paulis-Dalembert M., Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2017, pp. 99-111.

CUPO R., Un mirabile sogno: l'apprendistato letterario di Giorgio Bassani, Ravenna, Giorgio Pozzi Editore, 2021.

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 11 giugno 2024

 


[1] G. Bassani, Cinque storie ferraresi, Torino, Einaudi, 1956, p. 255.

[2] P. Pieri, Memoria e giustizia. Le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani, Pisa, Edizioni ETS, 2008, p. 225.

[3] Ivi, p. 238.

[4] G. Bassani, Cinque storie ferraresi, Torino, Einaudi, 1956, p. 255.

[5] L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media, Roma, Armando Editore, 2011, pp. 26-27.

[6] Cfr. La lunga notte del ’43 (film), 1960, Florestano Vancini.

[7] F. Orsitto, Riflessioni sul percorso da letteratura a cinema: Una notte del ’43 da Bassani a Vancini, in P. Prebys e U. Baldassarri (a cura di), Luoghi dello spirito, luoghi della scrittura: Giorgio Bassani a Ferrara, Firenze, Roma, Atti del convegno internazionale (Firenze e Ferrara, 4-5 giugno 2019), Firenze, Le Lettere, 2019, p. 125.

[8] G. Bassani, Il romanzo di Ferrara, Milano, Mondadori, 1980, p. 137.

[9] Ivi, p. 140.