Il fiore delle illusioni (Feltrinelli, 2024) è la storia del rapporto tra due cugini, Francesco e Luciano, divisi da due opposte visioni del mondo, ma accomunati dallo stesso ardore nel cuore, dalla stessa risolutezza e dallo stesso intenso desiderio di coltivare i propri sogni, sperando - un giorno - di poterli realizzare.
Alla fine degli anni ‘60, i genitori di Francesco, originari della Basilicata, sono emigrati al Nord e il piccolo sognatore cresce nella periferia di Milano, una città che - ai suoi occhi – appare sempre terribilmente fredda e grigia, uno spazio ristretto in cui i sogni e le promesse non sembrano altro che mere illusioni. Eppure, Francesco ha un sogno: diventare uno scrittore, lo stesso sogno che, tanti anni prima, suo padre non aveva avuto il coraggio di inseguire. Scrivere – per Francesco - è «come toccare il fondo, rovistare in angoli nascosti»:[1]
Il suo desiderio di scrivere nasce, prima di tutto, dalla necessità di indagare la realtà, dal bisogno di raccontare la verità più autentica e di scavare in profondità nelle fratture del suo animo: «iniziai a scrivere una storia con l'idea di farne un romanzo, e più scrivevo, più sapevo di tradire i miei genitori, il loro progetto per me: non erano emigrati per generare uno spiantato. Eppure, scavavo dentro la vergogna che provavo per le mie origini, che era ciò che mi salvava, e mi sembrava di non avere niente di più sensato da fare che indagare quella contraddizione».[2] La scrittura diventa così un mezzo per rimarginare una ferita, per riconciliare due anime opposte.
Diventare uno scrittore, però, non è semplice, soprattutto quando Francesco si trova a dover fare i conti con un padre che nei suoi ideali non ha mai creduto, un padre che vorrebbe un figlio «sistemato»,[3] magari ingegnere, impiegato o laureato in Economia: «come facevo a spiegargli quel viluppo di inadeguatezza e presunzione che mi affliggeva, di fronte a un sogno che era troppo grande? Il fatto che fossi nato negli anni settanta e non nei quaranta come lui rendeva impossibile che capisse. Lui si era strappato dalla fame per me».[4]
E se Francesco, con la passione per i libri e il sogno dell’arte, desidera allontanarsi dalla miseria delle sue radici, sperando in un futuro diverso da quello dei suoi genitori, Luciano, invece, astuto, determinato e dai solidi valori morali, sceglie di restare nella terra aspra della Basilicata di cui si sente parte integrante: per lui contano solo la solitudine della campagna, la fedeltà alle origini e il legame indissolubile con la terra che ogni giorno coltiva con orgoglio, sognando, un giorno, di ingrandire la sua masseria.
Ogni anno, d’estate, Francesco torna in Basilicata con i suoi genitori e ritrova così, nei colori e nella bellezza della natura, una parte di sé, un’antica identità perduta. La rigidità del Nord lascia spazio alla spensieratezza del Sud e Francesco, nella sua casa in pietra a Monte Aspro, può finalmente respirare una nuova aria di libertà: «c'era qualcosa di mio lì, qualcosa che non ricordavo più e che faticosamente lottava per venire a galla […]. Tutto era diverso, lì. Il mondo, fuori, forse era lo stesso, ma se lo era non lo sembrava. Si respirava lo spazio, quello del fieno da poco trebbiato che tagliava la valle; e il tempo era nelle increspature delle cortecce dei faggi».[5]
Insieme a Luciano, il giovane sognatore lavora nei campi, munge le mucche, impara a guidare la Vespa e fuma la sua prima sigaretta, dimenticando la fatica, le costrizioni e la tensione dell’inverno milanese: «la stagione delle torture»[6] si è ormai conclusa e le colline illuminate dal sole assumono splendide sfumature giallo-arancio, mentre nonna Luisa, la rimediante del paese, prepara panini ripieni di frittata e peperoni fritti. Ogni estate, ad accogliere Francesco, c’è – quindi – un’altra Italia, un mondo opposto in cui la vita è diversa, piena, leggera e autentica, una realtà di pace e di serenità del tutto sconosciuta al Nord, dove dominano invece l’apparenza, l’illusione del progresso e un senso di profonda solitudine. È una società, quella del Nord Italia degli anni ’90, che agli occhi di Francesco appare vuota, opaca, inautentica e priva di valori, in cui il malaffare, la corruzione e il razzismo nei confronti di chi emigra sono all’ordine del giorno, con tutte le offese, le umiliazioni e le frustrazioni che ne derivano. A Milano, infatti, Francesco assiste ad una sparatoria che coinvolge due passanti innocenti e se al Sud tenta di mascherare il suo accento milanese, qui, invece, è il teruncel, deriso e svilito dagli sguardi pietosi dei compagni di scuola:
Con il suo stile intimo, poetico e diretto, Catozzella ci narra così un lucidissimo e toccante romanzo sociale, che offre interessanti spunti di riflessione e abbraccia la vita in tutta la sua complessità, dipingendo aspirazioni, fallimenti, lacrime e sorrisi. L’autore affronta, con uno sguardo profondamente umano e sincero, il tema cruciale del divario tra Nord e Sud e descrive, in una prosa chiara, limpida e asciutta, la realtà dell’emigrazione e l’illusione del miracolo economico in un’Italia fratturata e piena di ombre, in cui il progresso è il contrario della libertà. La lettura in classe di alcuni passi significativi di questo romanzo può allora diventare un’importante occasione di riflessione, uno spunto per acquisire una maggior consapevolezza della storia di un’Italia che non sa cambiare, di tanti giovani che – come Francesco - sognano un futuro diverso da quello dei propri genitori in un Paese che spegne le speranze e uccide i sogni: «ogni cosa era corrotta, opaca, progrediva chi stava al sicuro dentro le maglie di una rete, come un pesce catturato. […] Poi mi dissi che sognare un mondo che non esisteva e fingersi felici era già arrendersi, ritirarsi dalla vita. Io invece volevo combattere […] e lo feci scavando con le parole in quella ferita»[7].
Lo stesso Catozzella, nato a Milano e figlio dell’emigrazione dal Sud al Nord alla fine degli anni ’60, ha raccontato, in una recente intervista, come spesso, da ragazzo, non solo avvertisse dentro di sé una profonda frattura - la sensazione di essere stato in qualche modo strappato dalle sue radici - ma si sentisse anche fortemente ostacolato dalla sua stessa famiglia, convinta che i suoi sogni fossero soltanto illusioni.
É proprio in questo senso che Il fiore delle illusioni, romanzo dai chiari risvolti autobiografici, tratteggia la parabola del sogno nel nostro Paese: che cosa è accaduto, nelle ultime tre generazioni, al desiderio e alla parte più autentica e originaria di noi stessi? É ancora possibile sognare, essere felici e diventare chi siamo realmente? Che fine ha fatto il sogno in un Paese che rende sempre più difficile, specialmente per i più giovani, tenere accesa l’immagine della versione migliore di noi stessi?
La frenesia della città e la rincorsa al successo rischiano continuamente di spegnere i fuochi della passione, di distoglierci dal contatto con la nostra interiorità, di separarci dal nostro Io più puro e genuino. Catozzella sembra allora suggerirci di cercare dentro di noi il coraggio e la forza di inseguire i nostri sogni, conservando la nostra autenticità e ascoltando la nostra voce più intima, perché è solo dal fiore delle illusioni che può nascere il frutto della realtà.
Attraverso un punto di vista interno al romanzo - la voce narrante del protagonista - l’autore ci guida così nel mondo interiore di Francesco, in un viaggio tra sogni e disillusioni, tra radici e destinazioni, mostrandoci, con la luminosità e l’immediatezza della sua scrittura, un periodo fondamentale della storia italiana nelle sue luci e nelle sue ombre, ricordandoci di continuare a splendere e di lottare sempre per realizzare i nostri sogni.
[1] G. Catozzella, Il fiore delle illusioni, Milano, Feltrinelli, 2024, p. 67.
[2] Ivi, pp. 120-121.
[3] Ivi, p. 138.
[4] Ivi, p. 139.
[5] Ivi, pp. 19-20.
[6] Ivi, p. 20.
[7] Ivi, p. 146.