I) Premessa
Proporre (o riproporre) un classico alla lettura dei più giovani, o alla rilettura di chi ne abbia già gustato le pagine, non è mai un'operazione neutrale. Tanto più un classico così poco classico come le Metamorfosi dell'africano Apuleio di Madaura, un romanzo che Sant'Agostino, attento studioso anche delle opere filosofiche di quest'autore che si autodefiniva Platonicus, definì L'asino d'oro [1] . Esso ebbe straordinaria fortuna di lettori e critici per molti secoli, suggerendo trame e tecniche fin dal Medioevo al maestro della narrativa europea, il Boccaccio, che lo riscoprì, e fornendo a tanti artisti soprattutto del Rinascimento numerosi motivi ispiratori tratti dalle fabulae inserite nella cornice narrativa principale: uno per tutti, la storia di Eros e Psiche, la storia dell'incontro fra l'amore e l'anima.
Eppure, questo straordinario libro ha avuto un destino abbastanza marginale nella scuola, che raramente lo propone nella lettura integrale (data anche la sua lunghezza) e spesso lo utilizza come repertorio di racconti, sulla scorta delle fabulae Milesiae di tradizione ellenistica. Ma una lettura dell'opera intera, anche in buona traduzione (da quella esemplare di Massimo Bontempelli a quella recente di Alessandro Fo, per non fare che due esempi), è godibilissima e permette di superare l'inevitabile frammentarietà di una scelta antologica, per soffermarsi poi, se possibile, sul fulgente latino di alcuni capitoli, perché la lingua di Apuleio è di una ricchezza davvero singolare.
II) La trasformazione
Le Metamorfosi, come è noto, sono prima di tutto un grande, appassionante romanzo d'avventure, secondo la migliore tradizione greco-ellenistica, ripresa e rinnovata da Apuleio. In undici libri dallo stile estroso e sorprendente, il suo autore, col quale alla fine del romanzo s'istituirà un'identificazione del protagonista, racconta in prima persona le strabilianti avventure di Lucio, un giovane inquieto, avido di sensazioni e curioso di tutto, che in un suo viaggio in Tessaglia – terra, come tutti sapevano, di maghi e streghe – incorre per troppa curiosità in una serie di avventure, e fra gozzoviglie, scambi di persona, finti processi ed amori più o meno leciti (che occupano i primi tre libri del romanzo), giunge ospite del buon Milone, la cui moglie è la potentissima maga Panfila.
Proprio per inseguire costei trasformata in gufo Lucio ne supplica la schiava Fotide, sua amante, di consentirgli la stessa metamorfosi della strega cospargendogli il corpo con un unguento magico che Panfila ha rivelato all'astuta ragazza.
Ma, mai fidarsi di una schiava - questo è il primo insegnamento impartito all'improvvido Lucio! Fotide sbaglia vasetto ed ecco che il giovane è subito trasformato in asino.
Lucio potrà dunque riacquistare le sembianze umane solo cibandosi di rose (una pianta sacra a Iside, come acquisiremo nel corso della narrazione) e Fotide lo rassicura che già l'indomani lei stessa provvederà, ma da questo momento in poi tutto cospirerà contro di lui: Lucio ormai asino non riuscirà a restare nascosto fino a ottenere dalla ragazza l'agognato fiore ed anzi dovrà subito contendere al suo stesso giumento la poca biada e affrontare così l'ira e le bastonate del garzoncello di stalla, ridotto a bestia da battere e disprezzare pur conservando il sentimento umano: "Sic illa maerebat, ego uero quamquam perfectus asinus et pro Lucio iumentum sensum tamen retinebam humanum." [2] (libro III, inizio del cap.26).
III) L'asino che è in noi
Cosa significa la trasformazione in asino? Cosa rappresenta questo animale nell'immaginario del II secolo d. C.? La storia dell'uomo – asino era già stata narrata più volte in greco [3] : Apuleio se ne appropria, con un'operazione di contaminazione consustanziale non solo alla letteratura antica e specialmente latina, ma sottesa ad ogni pratica di scrittura, che intrattiene per sua stessa natura un fitto dialogo con altri testi precedenti e coevi. Se ne appropria dunque, e la fonde con il tema iniziatico, facendone cosa del tutto sua: dopo ogni sorta di sofferenza infatti, la cui narrazione occupa altri sette libri, nell'undicesimo Lucio potrà riprendere le sembianze primitive, per l'intervento salvifico della dea Iside, il cui splendore e la cui potenza rilucono tanto di più quanto più fondo è stato l'abisso in cui l'uomo è precipitato.
Si spiega anche così la natura profondamente originale dell'ultimo enigmatico libro rispetto ai primi dieci, a sottolinearne la corrispondenza con i numeri sacri della religione misterica, che alludono ai dieci giorni di preparazione ed iniziazione e all'undecimo dedicato alla consacrazione, preclusa appunto nei suoi dettagli e misteri ai profani. Lucio prometterà virtù e castità, e si voterà prima al sacerdozio per la dea e, in un secondo momento, a quello di Osiride, suo fratello e sposo, la cui saga narra che, ucciso e fatto a brani dal malvagio fratello Seth, fu raccolto e rigenerato dalla sposa, divenendo così simbolo della resurrezione dalla morte e garanzia di una speranza, per gli esseri umani, di vita oltremondana. Non sarà un caso che la tradizione popolare egiziana assimilasse l'immagine di Seth – Tifone a quella di un asino, l'animale fra tutti più inviso a Iside, come racconta Plutarco [4] : nel romanzo apuleiano il retroterra egizio emerge come un palinsesto rispetto alla componente greca (meglio, greco-ellenistica) che l'autore stesso dichiara all'inizio: "fabula Graecanica", scrive, alla greca.
Ma per tornare all'asino, già Platone, punto di riferimento primario di Apuleio, aveva insegnato che chi è dominato dalle passioni è come un asino o simile bestia e la funzione del corpo è solo quella d'essere schiava dell'anima. Così nel Fedone scrive:
"[…] quando anima e corpo sono insieme, all'uno la natura prescrive di servire e di obbedire, all'altra di comandare e di dominare. Di conseguenza, quale dei due ti pare sia simile al divino e quale al mortale? Non pare a te che il divino per sua natura propria sia atto a dirigere e a comandare e il mortale a obbedire e stare al suo servizio?"
Platone, Fedone, cap. XXVIII) [5]
E questo è il destino delle anime di coloro che nella morte si sono distaccate dal corpo ancora contaminate e immonde, incantate dalle sue passioni e dai suoi piaceri e si reincarnano non pure, ma ancora bramose di corporeità:
"Quelli che si abbandonarono senza ritegno ai piaceri della gola, alle sfrenatezze sessuali e al vizio del bere, si può immaginare che entrino in corpi della specie degli asini o di altri animali di questo genere." (ibidem, cap. XXXI)
La stessa convinzione che gli animali pedestri hanno avuto origine da uomini degradati dai vizi (come da chi è stato vile o ingiusto si generano per metempsicosi le donne e gli uccelli provengono dalle anime degli ingenui e leggeri) dichiara nel Timeo:
"La stirpe degli animali pedestri e selvaggi si generò a partire da uomini per nulla dediti alla filosofia e ciechi del tutto di fronte alla natura delle cose celesti, per il fatto che non si servivano più delle rotazioni che si compiono nella testa, ma seguivano come guida le parti dell'anima che si trovano nel petto. È quindi in seguito a tali abitudini che essi hanno le membra anteriori e la testa ricurve verso terra, perché alla terra sono affini, e hanno le teste allungate e dalle forme più varie, secondo il modo in cui le rotazioni in ciascuno di essi sono state compresse per l'inattività; perciò tale stirpe animale fu generata con quattro o più zampe, perché il dio pose un maggior numero di basi nei viventi maggiormente privi d'intelligenza, in modo che fossero più saldi a terra." (91 e – 92 a) [6]
Peggiore di questa è solo la quarta stirpe, quella acquatica, generata a partire dagli esseri più stolti e ignoranti di tutti. Anche nella Repubblica insiste sul parallelismo fra uomini schiavi delle passioni e animali:
"coloro che non conoscono saggezza e virtù, ma son sempre in mezzo a banchetti e a cose del genere, sono tratti in basso, […] e così vanno errando per tutta la vita, senza mai superare questo limite né mai levare lo sguardo ed esser tratti a ciò che è veramente in alto; né mai si innalzano ad esso che veramente è, né gustano un saldo e puro piacere, ma guardando sempre in giù a guisa di greggi e con il capo chino a terra e sulle mense si nutrono rimpinzandosi e accoppiandosi; e per l'avidità smodata di queste cose […] si ammazzano per la loro insaziabilità [...]" (586 a b)
Quest'ultimo tema soprattutto diviene a tal punto un topos, da ricorrere in tanta letteratura filosofica, storica e satirica, attraversando nel mondo latino le pagine di Cicerone [7] , Sallustio [8] , Giovenale [9] e tanti altri intellettuali.
IV) La curiosità, il mondo perverso, la magia
Ritorniamo allora ai dieci "giorni" d'iniziazione di Lucio, sia quando era uomo così privo di saggezza da finire costantemente nei guai e meritare forse il fatale incantesimo, sia sub specie asini. Nell'attraversare il mondo Lucio è sempre mosso (o vinto) dalla curiosità, da quella curiositas che il mondo cristiano stigmatizzerà poi come peccato di superbia contro Dio, appropriazione del frutto proibito, ma che aveva mosso anche Prometeo a sfidare gli dei per gli uomini e Ulisse a "divenir del mondo esperto" e che in Apuleio è sempre l'altra faccia della meraviglia, dell'admiratio.
Nuovo Ulisse e nuovo Prometeo, Lucio affronta la natura (fino al manto stellato del cielo simbolo della dea) e il mondo degli uomini in tutta la sua molteplicità; ascolta bramoso ogni storia avvalendosi delle lunghe capaci orecchie e dell'ignoranza di quanti lo circondano della sua facoltà di comprenderli: il piacere di ascoltare per poi riportare è sempre sottolineato nel romanzo e costituisce il prodromo della consegna a chi lo leggerà a fondo del "fuoco" di Prometeo, la luce del mistero isiaco. La curiosità lo sollecita, la curiosità (sembra) lo perde.
Essa si manifesta per tutto quanto riguarda il mondo della natura, e specialmente per la natura umana sempre diversa; ma soprattutto, per quasi tutto il romanzo è indirizzata al mondo perverso [10] . Ladri, briganti, stupratori, seviziatori d'uomini e d'animali, assassini blasfemi e senzadio: questo in larga parte il genere di uomini e di donne ch'egli incontra, con poche eccezioni, alcune vittime.
Più la narrazione procede, più gravi appaiono i delitti, più tragici i destini. Solo la storia dall'esito lieto di Psiche e di Amore pare fare da contrappunto felice alla salvazione del nostro protagonista: Psiche sempre mossa anch'essa dalla curiosità che l'induce ad errore, Psiche sottoposta a prove ignominiose e crudeli da Venere, a stadi progressivi di castigo e purificazione, ma sconfitta infine ancora una volta dalla curiosità e salvata solo dalla grazia d'Amore, che vinto a sua volta dal sentimento avrà ragione dell'indomita madre, costretta a perdonare la fanciulla, infine accolta nel concilio divino. La storia sembra insegnare che non solo molto deve fare e patire l'anima prima di poter raggiungere l'unione mistica con dio o con un suo intermediario (Amore appartiene in tutto alla categoria dei dèmoni [11] ), ma che a fronte di un ultimo errore dell'anima è la divinità che si china a donare gratuitamente la salvezza. Ma la storia di Lucio, come vedremo, non ricalca che in parte quella di Amore e Psiche.
Dunque, il mondo di Apuleio sembra segnato dal dominio del male. Ma non solo perché il mondo incontrato da Lucio è pervaso dall'empietà. Bensì perché Lucio stesso è (simpaticamente) imbroglione, goloso, lascivo, violento fino ad uccidere se ebbro e provocato (anche se le presunte vittime risulteranno essere otri). Ama vedere tutto, provare tutto. E certo non è la forma di conoscenza più alta, quella delle facoltà umane superiori, ma quella del corpo, certo erronea - come insegna Platone – ma indispensabile nella sua gradualità, come lo stesso Platone dimostra nel Simposio [12] , quella delle più terrene pulsioni dell'animo fatte corpo asinino, quella che avviene attraverso l'esperienza e che è necessaria perché si possa accedere alle forme più elevate. Ecco perché la catabasi nell'inferno della vita di quaggiù. Ecco perché la metamorfosi.
A Lucio viene strappato tutto se stesso: l'aspetto, l'esistenza, il nome, la possibilità di comunicare, l'appartenenza medesima al genere umano. L'aspetto esteriore soprattutto "costituisce il segno naturale dell'identità, la riprova indiscutibile dell'essere se stessi e nessun altro" [13] , ma Lucio è ormai una bestia, senza più la parola, il logos, il contrassegno che distingue l'uomo dagli altri animali.
La sua perdita d'identità, però, lo affligge, ma non lo stupisce: e non perché è nel patto narrativo che in terra di maghi si narrino magie, ma perché la perdita d'identità nel mondo antico è spiegabile in un orizzonte culturale antropologicamente diverso da quello attuale, e comune semmai ad culture altre dall'occidentale moderna, poiché postula l'esistenza della magia e le attribuisce ciò che non si può spiegare razionalmente [14] .
Si chiariscono così il significato e la funzione della magia nel romanzo: rendere visibile l'invisibile. Lucio diviene asino perché una parte di lui è asino, gli è straniera, gli è nemica (come s'esprime Platone), e nello stesso tempo gli è indissolubilmente legata e anzi gli occorre. Non può espungerla da sé, come avrebbero voluto e creduto gli stoici, perché essa non è altro da sé. Deve sperimentarla: il voler conoscere tutto si estende alle proprie pulsioni, alla propria interiorità, che Apuleio oggettivizza nell'immagine dell'asino, della bestia che è in noi, rendendola chiara anche agli altri che vengono in contatto con l'animale: molti disprezzano l'asino, lo picchiano e torturano senza motivo, perché non sanno rapportarsi con l'alterità, anche quella che coltiviamo nel cuore, che in termini ostili: "Bisogna pensare alla corporeità come a qualcosa di opprimente, pesante, terroso e visibile": è ancora Platone, nel cap. XXX del Fedone (sottolineatura nostra).
La curiosità di Lucio, metafora del voler conoscere tutto per amore d'esperienza e di verità, da improspera e soggetta alla fortuna caeca può farsi alla fine ricerca della Verità in sé perché sa accogliere anche, come stadio transitorio ma necessario, l'asino che si porta dentro.
Le fasi dell'iniziazione di Lucio sono scandite con chiarezza nel romanzo. Di esse vorrei sottolineare solo due passaggi. Il primo è nel IX libro, dove ormai volgono al termine le disavventure del nostro protagonista: legato a una macina, Lucio tenta con un'astuzia di sottrarsi all'arduo sforzo; ma non riesce, ed di nuovo è vittima di veementi nerbate
Pur nel dolore, Lucio non rinuncia tuttavia a conoscere il mondo che gli sta intorno, e quello che vede sono gli uomini che faticano al mulino, straziati dalle ferite, seminudi e con gli occhi chiusi, "da non sembrare più uomini", ma somiglianti a bestie, come lui. Lucio-asino vede per la prima volta un'altra forma di animalità, quella dell'uomo ridotto in schiavitù, e prova una pietà profonda che subito si estende agli altri giumenti, vecchi e storpiati, che con lui trascinano la pesante macina in un eterno sabba. Nella verità c'è posto anche per la compassione, né si compatisce veramente senza sperimentare in prima persona l'orrore della tortura.
Non sarà un caso se proprio alla fine di questa riflessione Lucio esclama la propria riconoscenza "al suo asino", che l'ha reso, "se non saggio" (per questo dovremo aspettare l'ultimo libro), "almeno", come si diceva poc'anzi, multiscius, "sperimentato".
V) Dalla compassione alla vergogna: la scelta
Abbiamo veduto che il mondo in cui si muove Lucio-asino nella sua odissea terribile è dominato dal tormento, che tutto l'universo di Apuleio in genere è segnato dalla presenza del male. Per potere seguire Lucio negli ultimi gradini del suo itinerario di perdizione, pena, castigo e salvazione, dobbiamo rammentare allora su quale concezione della realtà poggi questo pensiero, che nel romanzo si fa sequela potente di immagini di caos, malvagità e dolore.
Respingendo tanto il materialismo epicureo quanto soprattutto il mondo uno, tutto divino e pervaso dal pneuma (supporto materiale del divino logos) degli stoici, in cui si nega pertanto anche la dualità interna all'uomo, le cui passioni s'interpretano come giudizi perversi del logos medesimo, Apuleio sostiene [15] , anticipando Plotino, e in armonia con il medio platonismo dei suoi tempi, che il mondo non è uno, che "il principio divino trascende realmente la materia", così che "la realtà si scinde in diversi livelli" [16] , riproponendo pertanto l'antica gerarchizzazione ontologica platonica e aristotelica.
Questo porta a due conseguenze. La prima è che per risolvere il problema del rapporto fra il principio trascendente supremo, padre dell'intellegibilità suprema, il dio-pensiero aristotelico, ed il mondo fisico, e quello della sua conoscibilità da parte dell'uomo, s'ipotizza la presenza di intermediari in serie gerarchica (d'ascendenza platonica): "un primo dio, pensiero, […] un secondo dio, generalmente riconosciuto come l'artefice del mondo" [17] , talora una divina anima mundi a questo soggetta, demoni [18] che, sulla scorta del daimònion (la voce della coscienza) di Socrate nel Simposio e soprattutto nell'Apologia platonici, sono "immortali come gli dei ma passionali come gli uomini e […] hanno il compito di comunicare agli uomini la volontà delle potenze superiori" [19] . La stessa Iside nel romanzo, come poi Osiride, potrebbero rivestire proprio questa funzione intermediaria, espressione della Fortuna videns e sospitatrix, salvifica, della provvidenza del dio infinitamente buono platonico [20] .
La seconda conseguenza è che in un mondo così concepito solo la divinità suprema è immune dall'irrazionale, il male esiste, l'irragionevole esiste, e si manifestano nell'irregolarità, nell'imprevedibilità, dell'incostanza, nel dolore subito e inflitto: è il mondo perverso che le Metamorfosi mettono in campo dentro e fuori di Lucio. Esso non può essere eliminato, ma deve essere conosciuto, prima di tutto, come abbiamo visto, con l'esperienza, e governato: lenta è la conquista del reggimento della ragione e della virtù sulle passioni, e faticosa, ma necessaria.
Ma c'è di più. L'abisso d'abiezione in cui Lucio è caduto deve conoscere la propria fine. Ma questa non avviene solo quando la Dea decide che la punizione di Lucio è sufficiente, ma quando la vergogna s'impadronisce di lui, e Lucio ancora asino rigetta l'estrema degradazione di un accoppiamento pubblico con un'assassina. Ecco dunque il secondo passo su cui vorrei soffermarmi.
La degradazione sembra giunta alla sua acme: Lucio però, benché ancora asino, è turbato, si vergogna al punto da pensare alla morte pur di non soggiacere alla pubblica infamia. Sembra non esservi via d'uscita quando, impensierito non solo dal pudore ("praeter pudorem", X, 34) ma, con un colpo di coda della natura asinina, dal timore di una morte in pasto alle belve previste nell'inumano spettacolo, Lucio approfitta di una distrazione del guardiano e fugge.
Altre volte Lucio aveva tentato la fuga, anche aiutato: si veda a esempio la storia della bella e sfortunata Càrite, dal nome emblematico, che gli promette una gualdrappa di borchie dorate che lo faranno sembrare "rivestito di stelle", anticipando con questa immagine il mantello di Iside, intessuto di stelle, che lo ricoprirà nella sua prima notte di libertà. Ma mai era riuscito.
"Può darsi che non siano uomini da poco coloro che istituirono i Misteri, anzi, a dire il vero, essi da tempo dicono in forma di enigma che chiunque vada nell'Ade senza aver intrapreso e compiuto la sua iniziazione giacerà nel fango, mentre chi vi giunge dopo la purificazione e l'iniziazione, abiterà con gli dei" (così il Fedone, cap. XIII). Lucio non poteva salvarsi perché giaceva nel fango, perché non aveva ancora compiuto il suo itinerario, illuminato dalla filosofia platonica non meno che dal pensiero misterico. Il tentativo di fuga Lucio riesce perché si è vergognato. Non importa che la paura di morire ancora sembri trascinarlo in basso. Ha provato, per la prima volta, il pudore: ha rifiutato l'estrema abiezione. Ha scelto.
Solo ora è pronto per ricevere, secondo il rito, la vera conoscenza, per accedere alla quale bisogna che l'anima si liberi dell'ingombro ingannevole del corpo (ancora Fedone, X, XI, XII, XXVI), cioè, nel nostro caso, dell'involucro del corpo di bestia. Ma anche questo è un itinerario graduale, scandito da norme rigide, riti che non si possono rivelare che parzialmente. Il primo passo è, in un paesaggio di potente suggestione, il lavacro rituale[leggi il testo].
Seguirà dunque la preghiera alla Regina del Cielo, Iside (XI, 2) e 5) , assimilata a Cerere e ad Ecate, alla Pessinunzia madre degli dei, a Giunone, Bellona, Proserpina Stigia, a Diana Dictinna e Minerva Cecropia, in un sincretismo di sapore enoteistico: ella in sogno gli appare nel suo aspetto meraviglioso (XI, 3-4) e gli parla, veneranda e piena di commozione (XI, 5—6), prescrivendogli tutto ciò che Lucio dovrà fare per riprendere le sembianze umane prima, per servirla poi. L'ultimo libro, così peculiare rispetto agli altri dieci, ritmerà passo dopo passo, ma avvolta nell'enigma che si conviene ai Misteri, l'iniziazione di Lucio a divenire sacerdote di Iside e di Osiride poi, come detto, di Osiride che rappresenta la vita ritrovata dopo la disgregazione e la morte, la promessa di un aldilà felice con gli dei: non è, credo, azzardato affermare che il romanzo possa leggersi anche, sulla scorta di quel passo del Fedone (XIII) che ho citato poc'anzi, in chiave anagogica, simboleggiando il percorso che l'anima deve compiere per liberarsi dell'ingombro della carne, cioè dell'animalità che è in noi, dei vizi, per ascendere pura alla Conoscenza, alla Verità, alla Divinità non solo e non tanto in questa vita, ma in quella oltremondana.
Il romanzo isiaco si è arricchito così di molti spunti: in un II secolo assetato di trascendenza [21] ma ancora pervaso dall'idea antica, nutrita in tutta la cultura greco-latina, che il fato incomba sugli esseri umani, si fa strada, forse per la prima volta nel mondo latino, l'idea che solo la volontà libera può incontrare ed accogliere la grazia divina, il pensiero che, pur dovendo fare i conti con la sorte e il fato sovente maligno, l'uomo sceglie, e determina così il proprio destino interiore.
Note:
[1]Non è chiaro se la scelta sia di sant'Agostino o se una sorta di sottotitolo fosse stato già apposto prima all'opera, come nella tradizione del testo pseudolucianeo da Apuleio stesso e da altri. Tra le numerose interpretazione dell'aggettivo "aureus" utilizzato da sant'Agostino, che non lo spiega, le più convincenti e complementari mi sembrano il riferimento del colore "all'intelligenza umana posta sotto la scorza dell'asino protagonista" e l'idea, corrente, che l'oro rappresenta "ciò che è prezioso alla luce della sapienza e conseguentemente talvolta aureus indica un prezioso specifico risultato speculativo", come fa Lucrezio nel De rerum natura, III, 12 ss. dove "definisce aurea dicta le salutari dottrine di Epicuro. (cfr. A. Fo, in Apuleio, Le Metamorfosi o L'asino d'oro, con la traduzione e un saggio di A. Fo, Milano, Frassinelli, 1988, pp. 660-661). E aurea è infatti la saggezza che alla fine delle sue peripezie Lucio acquisirà, aureo il contenuto religioso del romanzo d'iniziazione, aureo il messaggio spirituale dunque consegnato al lettore.
[2]"Così diceva lei, tutta addolorata, e intanto, per quanto asino in tutto, e giumento anziché Lucio, conservavo tuttavia il sentimento umano" (traduzione citata, p 101).
[3]La fonte più nota è l'operetta Lucio o l'asino, la fabula Milesia prima attribuita a Luciano di Samosata, contemporaneo di Apuleio, e poi riconosciuta fin dal IX sec. (Fozio, Bibliotheca, cod. 129) come riduzione dai Racconti vari di Lucio di Patre, il cui originale è perduto (cfr. C. Moreschini, voce Apuleio, in Dizionario degli scrittori greci e latini, Milano, Marzorati, 1987, vol. I, pp. 97-113, alle pp. 104-106. Cfr. anche M. Bettini, La letteratura latina. Storia letteraria e antropologa romana, Firenze, La Nuova Italia, 1999, vol. III, p. 480 e la bibliografia alle pp. 489-490).
[4]Iside e Osiride, 30-31.
[5]La conclusione poggia sulla discussione esposta nei capp. IX-XIII (il corpo è di ostacolo a cogliere l'essere – cap. X – ed è definito "malefico" – cap. XI -; gli autentici filosofi sono "nemici del corpo" – cap. XII – e così via). Qui e nelle citazioni successive, il testo greco manca perché i font sono incompatibili con il formato .html.
[6]Traduzione di F. Fronterotta, in Platone, Timeo, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 427 e 429.
[7]Ipsum autem hominem eadem natura non solum celeritate mentis ornauit sed et sensus tamquam satellites attribuit ac nuntios, et rerum plurimarum obscuras nec satis intellegentias enodauit, quasi fundamenta quaedam scientiae, figuramque corporis habilem et aptam ingenio humano dedit. Nam cum ceteras animantes abiecisset ad pastum, solum hominem erexit et ad caeli quasi cognationis domiciliique pristini conspectum excitauit, tum speciem ita formauit oris, ut in ea penitus reconditos mores effingeret. (De legibus, I, 9, 25): "La stessa natura non solo ornò l'uomo di ingegno pronto e sagace, ma gli diede anche come ministri e messaggeri i sensi. Rivelò alla sua mente quasi i fondamenti della sapienza, avviandola alla intuizione, ancora oscura e indefinita, delle varie nozioni e gli diede un aspetto fisico opportuno e adatto alla sua prontezza d'ingegno. Mentre infatti rivolse verso il basso tutti gli altri animali, come dediti soltanto al cibo, all'uomo soltanto diede una posizione eretta, e lo sollevò alla vista del cielo, quasi a contemplare l'aspetto della sua affinità e dell'antica sua stirpe".
[8]"1. Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura, prona atque ventri oboedientia finxit. 2. Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est. 3. Quo mihi rectius videtur ingeni quam virium opibus gloriam quaerere et, quoniam vita ipsa qua fruimur brevis est, memoriam nostri quam maxume longam efficere. 4. Nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeternaque habetur. […]7. Ita utrumque per se indigens alterum alterius auxilio eget (Sall., De Cat. con., I, 1-4, 7): "Tutti gli uomini che vogliono elevarsi sopra gli altri esseri viventi devono in ogni modo adoperarsi per non condurre una vita oscura come le bestie, che la natura creò col muso a terra e schiave del ventre. Ora, ogni nostra forza consiste e nell'animo e nel corpo, poiché noi utilizziamo di più la facoltà di comandare del primo e quella di servire del secondo: l'una ci accomuna agli dei, l'altra alle bestie. Pertanto mi sembra più retto cercare la gloria con le forze che ci provengono dalle qualità naturali intellettuali piuttosto che da quelle fisiche e, giacché la nostra vita, in sé, è breve, far sì che il nostro ricordo duri più a lungo possibile. Infatti la fama che deriva da ricchezze e bellezza è transitoria e fragile, mentre la fama della virtù è posseduta in eterno". […] Così, entrambe le qualità, di per sé insufficienti, hanno bisogno l'una dell'aiuto dell'altra."
[9][...] separat hoc nos / a grege mutorum, atque ideo uenerabile soli / sortiti ingenium diuinorumque capaces / atque exercendis pariendisque artibus apti / sensum a caelesti demissum traximus arce, / cuius egent prona et terram spectantia. [...] (Satire XV, 142-7): "Questo ci separa / dal muto gregge: noi soli fummo dotati / di questo sacro ingegno, capaci di afferrare il divino, / e di inventare e mettere in opera le arti / dal cielo, da cui è disceso, traemmo questa facoltà, questa luce / di cui sono orfani i bruti, che vanno curvati, gli occhi vòlti a terra".
[10]A. Fo, op. cit., pp. 668 ss.
[11]V. infra al § V.
[12]210 –212, in particolare 211c-e e 212a: attraverso la dottrina dell'amore Diotima insegna a Socrate come percorrere i gradi verso la visione suprema, che prevede un passaggio dalla singola esperienza concreta vissuta più volte per sperimentare la molteplicità e giungere da lì fino al concetto in sé: "Questo procedere verso le cose d'amore o l'esservi condotto da altri consiste nel risalire progressivamente da queste singole cose belle mirando a quel bello in sé, come percorrendo dei gradini, da un singolo corpo a due e da due a tutti i corpi belli, e dai corpi belli alle istituzioni belle, e dalla istituzioni belle alle cognizioni belle, e dalle cognizioni belle pervenire a quella cognizione che non d'altro è cognizione se non di quel bello in sé, e riconosca alla fine cos'è il bello in sé. In questa sfera d'esistenza, se mai in altra, […] la vita è per l'uomo degna di essere vissuta, contemplando il bello in sé. […]E dunque – disse – che cosa non immagineremmo se a qualcuno fosse dato di veder il bello in sé nitido, puro, intatto, incontaminato da umane carni e colori e ogni altra effimera vanitò, ma potesse scorgere il divino in sé, bello e uniforme? […] Non comprendi –aggiunse – che soltanto a questo stadio, […] a un uomo sarà dato di partorire non già immagini di virtù […] ma la virtù vera, in quanto appunto attinge il vero, e che partorendo virtù vera, e allevandola, gli riuscirà di diventare amico del dio e, se altri mai, immortale anch'egli?".
[13]M. Bettini a proposito di Sosia, in Sosia e il suo sosia: pensare il "doppio" a Roma, introduzione a Tito Maccio Plauto, Anfitrione, Venezia, Marsilio, 1991, p. 11.
[14]Cfr. M. Bettini 1991, cit., pp. 25-36 sulla magia di trasformazione.
[15]Apuleio, De Platone, Apologia.
[16]P.L.Donini, in A. Pennacini, P.L. Donini, T. Alimonti, A. Monteduro Roccavini, Apuleio letterato, filosofo, mago, Bologna, Pitagora, 1979, pp. 103-112, p. 108.
[17]P.L. Donini, ibidem.
[18]Cfr. Apuleio, De deo Socratis.
[19]M. Bettini, 1999, vol. III, p. 475.
[20]Apluleio, De Platone, cap. 12.
[21]P.L. Donini, cit., p. 104