Rita Ferrari - Il dêmos e il suo leader

(spunti per un percorso didattico tra storiografia, biografia e commedia)

La democrazia è l’arte di far credere al popolo che esso governi.
(Anonimo)

In ragione degli autori presi in esame (Tucidide, Plutarco, la commedia), il percorso proposto rientra nella programmazione del penultimo o dell'ultimo anno del liceo classico. Sono del resto possibili, per non frammentare l'unitarietà del percorso, anticipazioni o riprese avallate anche dalle nuove prospettive didattiche che, fermo restando l'inquadramento storico-letterario, favoriscono l'approccio per temi. L'argomento, nella sua complessa attualità, permette di collaborare con altri colleghi, in particolare con il docente di storia e filosofia, in modo da sviluppare un discorso più articolato e pluridisciplinare sulla figura del leader e della sua relazione con il popolo, declinato in varie forme (il dittatore, il capo carismatico, il demagogo, il capopopolo, ecc.) e contestualizzato in varie epoche. Gli spunti che verranno indicati, non certo esaustivi data la vastità del tema, possono essere arricchiti e modificati; gli obiettivi qui perseguiti sono la coerenza e la fattibilità nella concreta prassi didattica. Molti dei testi citati sono presenti, infatti, nelle letterature in adozione attualmente nelle scuole, di altri brani si forniranno in classe fotocopie ad integrazione del manuale.

 

Introduzione

 

Il percorso didattico si articola in tre parti e una conclusione; nelle prime sono presentate in successione alcune figure-chiave secondo un preciso filo rosso: la relazione tra il leader e il popolo, i cui protagonisti sono in primis Pericle, ma anche Cleone, Nicia, Alcibiade, e in particolare come essa si costruisce e quali forme assume nel discorso politico dell'Atene del V sec. a.C. La conclusione vuole, a sua volta, inserirsi sinteticamente nell'attuale dibattito sulla validità degli studi classici e ribadire l'efficacia formativa che essi ancora conservano.
Come efficacemente ha sottolineato Davide Susanetti,[1] un'analisi della vita politica ateniese e della relazione tra singolo e massa, tra leader e popolo:

comporta una fenomenologia della parola politica che si declina, di volta in volta, rispetto alle situazioni e agli obbiettivi che le sono propri: la lode e il biasimo, la proposta e il consenso, la verità e l'inganno, l'educazione e la persuasione, il sapere fondato e la demagogia. La parola 'fa' la città e insieme la 'disfa': la crea e la distrugge. Prima e al di là dei "fatti", la parola è visione e progetto, tra possibilità effettive e tensione utopica, cosi come è elemento disgregante che provoca implosione della comunità stessa. Dai discorsi di Pericle ai suoi concittadini al dibattito tra Cleone e Diodoto sulla punizione da infliggere a una città ribelle fino all'intervento di Alcibiade per la spedizione in Sicilia, le dinamiche delle parole si dispiegano esibendo le topiche, gli snodi cruciale e i punti ciechi della democrazia.

Se è dunque nella comunicazione politica e nel dibattito assembleare,[2] propri di una civiltà quale quella greca in cui il lógos è elemento qualificante, che si realizza la relazione tra la comunità popolare e il capo, sarà conseguente nel nostro studio prendere in esame alcuni momenti emblematici legati a personaggi altrettanto esemplari. Partenza obbligata è allora la storiografia tucididea e, in particolare, la figura di Pericle (495-429 a.C.), che, eletto per una trentina d'anni in modo quasi consecutivo alla carica di stratego, dal 460 a.C. alla morte esercitò nei fatti la funzione di capo del governo dello stato ateniese.

1.  La scuola della Grecia

 

«Scuola della Grecia»: così Pericle definisce Atene nel momento probabilmente più alto dell'epitafio di commemorazione per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso,[3] orazione che Renzo Tosi[4] ha definito «non un quadro dell'Atene reale, bensì uno "Staatsmodel", un modello ideale cui mira l'ideologia periclea». Di questa pólis i cittadini che ne formano il popolo devono diventare erastaí, ovvero «amanti»,[5] contemplando la sua potenza e il suo splendore, in un gioco di specchi che trasforma la politica in esperienza erotica collettiva, oggetto di ammirazione anche da parte dei contemporanei e dei posteri.[6] In tal modo, da 'innamorati' di Atene, emulando il sacrificio degli opliti caduti, esibiti quasi strumento inconsapevole da riproporre ai vivi della scelta di morire sul campo, si sarà disposti a rinnovare quel nobile 'scialo'  per la patria e a offrire la vita, rappresentata dal corpo del cittadino-soldato, perché la città continui a vivere.[7]
Quale legame si stabilisce, quindi, tra il capo e il popolo in questa costruzione ideologica del mito di Atene? Secondo la lucida e raffinata analisi di Luciano Canfora, la forza del ceto alto e dominante sta nell'«aver accettato la sfida della democrazia, cioè la convivenza con il controllo ossessivo, occhiuto e non di rado oscurantista del potere popolare, …di avere accettato la democrazia per governarla».[8] Lo studioso prosegue sottolineando come questa sorta di 'miracolo' ha permesso, a differenza di Sparta, modello idoleggiato da chi ad Atene non accettava quella sfida,[9] di far funzionare e prosperare la più rilevante pólis greca, pur nelle divisioni e rivalità familiari e di clan interne all'élite.[10] Che il 'popolo di Atene', del resto, potesse innalzare, abbattere e poi risollevare nuovamente, Pericle lo aveva direttamente provato nella sua esperienza politica.[11] Quello che, tuttavia, emerge nel momento di maggiore potenza e ricchezza ateniese, di cui il discorso di Pericle è suprema sintesi, pur idealizzata, è che il dêmos, spronato ad aderire al paradigma tratteggiato, ne subisce la suggestione e vi si identifica.
Il popolo, in definitiva, si riconosce nei principi (epitédeusis), nella costituzione (politeía), nel modo di vivere (trópoi),[12] nelle gare (agónes) e nei sacrifici annuali (thusíai)  aperti a tutti e per tutto l'anno,[13] si immedesima nel 'noi' usato da Pericle che concilia gli áristoi e il popolo in un'armoniosa fusione di cultura, distensione, audacia in guerra e valore opposta alla rigida agoghé spartana.[14] La fascinazione della parola del leader incanta, convince e avvince nel kairós di quella cerimonia pei i caduti del primo anno; la peste, quasi metafora della degenerazione politica, romperà tale equilibrio portandosi via nel 429 a.C. anche chi lo aveva realizzato e aprendo la strada, come vedremo a breve, ad altri eventi e ad altri attori sulla scena.
Esaltare un'Atene ideale non è, tuttavia, possibile senza celebrare di fatto il modello ideale del suo leader, Pericle.[15] Di questo legame ci rende conto sempre Tucidide sia attraverso la sua definizione di democrazia sia attraverso il suo giudizio su Pericle. In I 37,1, nelle prime battute dell'epitafio, si trova la famosa e controversa definizione di democrazia, o meglio del suo nome: «E riguardo al nome, siccome coinvolge nell'amministrazione non pochi, ma più cittadini, è chiamato (il sistema di governo) democrazia…»; nella traduzione di Pietro Rosa si cerca di sciogliere, sulla base già di uno scolio antico, il nodo problematico dell'es pleíonas oikeîn intendendo che la maggioranza ad Atene è oggetto dell'attenzione e della cura da parte di chi governa, non, come interpretano altri, soggetto attivo di quella amministrazione. Che questa analisi abbia buone ragioni per imporsi lo testimonia anche il bilancio che Tucidide fa della figura e dell'operato di Pericle dopo la sua morte: «Vi era, quindi, di nome una democrazia, ma di fatto un potere nelle mani del primo cittadino» (II 65,9).
Questa capacità di controllo sul popolo che il figlio di Santippo sapeva esercitare così abilmente è affermatacon l'altra lapidaria affermazione che egli «controllava il popolo senza privarlo della libertà e non era guidato da quello più di quanto lui stesso lo guidasse» (II 65,8): Pericle riusciva a 'controllare' (il verbo greco katéchein indica l'azione del frenare e del trattenere) il popolo 'liberamente' (eleuthéros) con il suo straordinario carisma. Si realizza così il fragile compromesso tra la massa e il suo princeps, tra il popolo di Atene, che, se non poteva accettare un tiranno, un novello Pisistrato,[16] era invece sensibile al fascino del 'primo cittadino', immagine apprezzata qualche secolo dopo anche da Cicerone che vagheggerà un concetto di principatus delineato con le qualità periclee.[17]
Se passiamo ora alla Vita di Pericle di Plutarco, che nella stesura di questo bíos ha sicuramente tenuto in altissima considerazione e utilizzato largamente Tucidide, vi sono anche qui numerosi passaggi che elogiano le virtù del protagonista e la sua coerente capacità di interagire con il dêmos. La lungimiranza della visione politica, la magnanimità e, soprattutto, l'equilibrio con autocontrollo (praótes) nelle situazioni difficili, che valse a Pericle l'epiteto Olýmpios da parte dei sui contemporanei,[18] si sposano ad una sapiente relazione con la cittadinanza ateniese.
Tra gli svariati passi plutarchei che, sostanzialmente in linea con Tucidide, confermano l'influenza di Pericle sul popolo, se ne riportano in sintesi due funzionali al nostro percorso. In 11,4, dopo aver descritto la frattura nella società ateniese tra un partito popolare e uno aristocratico conservatore che non voleva mescolarsi con la massa, lo scrittore di Cheronea afferma che «in quel momento Pericle governava soprattutto con la ricerca del favore popolare, lasciava la briglia al popolo, organizzando continuamente in città una cerimonia o un banchetto pubblico, o una processione divertendo la gente con spettacoli raffinati». Siamo sulla stessa lunghezza d'onda dell'affermazione di Pericle in Tucidide (II 38,1): «E abbiamo procurato al nostro spirito moltissime occasioni di riposo, celebrando secondo l'uso gare e sacrifici annuali, e disponendo di splendidi oggetti privati, dal cui godimento deriva il piacere che allontana la tristezza». Nell'orizzonte condiviso dell'Atene ideale, costruito e sostenuto dalla fascinazione oratoria che aumenta il consenso, il popolo si sente attratto e compartecipe di uno stile di vita piacevole, raffinato, ma non molle, gioioso e culturalmente elevato, illudendosi di poter accedere prima o poi alla ricchezza anche privata.
In 15,1, d'altra parte, Plutarco afferma che Pericle costruì «un regime aristocratico e accentratore, e valendosene in modo lineare e inflessibile per un continuo miglioramento, si tirò dietro il popolo, per lo più consenziente, con la persuasione e l'informazione»; se il popolo gli si opponeva, lo stratego riusciva comunque a controllarne l'emotività e a piegarlo con ragionevolezza verso ciò che lui ritenesse utile. In definitiva «egli solo fu capace di manovrare armonicamente ogni cosa» (15,2) non solo per la sua eloquenza, ma anche per la sua incorruttibilità. Rispetto a Tucidide, da cui Plutarco prende le mosse e che cita espressamente, si rileva un accento posto con maggiore forza sulla trasformazione «da una democrazia trasandata e in certi casi molle come una musica smagliata e languida»[19] al dominio incontrastato di Pericle sulla città prospera come mai era stata.

 

2. La difficile eredità di un leader

 

Il dopo Pericle vede sulla scena politica ateniese altre personalità, in particolare Cleone, Nicia e Alcibiade, sulla cui capacità di governare la difficile situazione della guerra del Peloponneso, già Tucidide[20] esprime forti perplessità: «I suoi successori, invece, che tra loro si equivalevano maggiormente, e che miravano ciascuno a primeggiare, si volsero ad affidare al popolo, per fargli piacere, gli affari della città» (II 65,10). Gli eredi di Pericle non sono, quindi, alla sua altezza, in quanto sono molto simili tra loro e incapaci di realizzare quella sorta di magica alchimia con il dêmos di chi li aveva preceduti. Se la strategia periclea era stata quella di evitare lo scontro campale con gli Spartani, lasciandoli saccheggiare le terre dell'Attica e chiudendosi nella cerchia imprendibile delle mura di Atene, dopo di lui la conduzione della guerra muta con la conclusione della tragica sconfitta ateniese.
Cleone, «il quale è vulnerato per sempre dall'immagine che ne ha tracciato ferocemente Aristofane»,[21] esponente della classe dei cavalieri, esordì, come si è visto, attaccando Pericle,[22]  si mise in luce nell'episodio di Sfacteria[23] per morire infine ad Anfipoli nel 422 a.C. insieme al condottiero del campo avversario, lo spartano Brasida.  La sua inferiorità rispetto a Pericle nel guidare il popolo e la sua inclinazione ad assecondarne piuttosto gli umori si notano in particolare nell'affaire di Mitilene del 427 a.C.[24] In seguito alla fallita ribellione nel 428 a.C. di Mitilene, città dell'isola di Lesbo che faceva parte della lega delio-attica e che voleva liberarsi del giogo ateniese, l'assemblea popolare di Atene doveva decidere sui provvedimenti da adottare nei confronti dei ribelli. In un'accesa assemblea, come narra Tucidide, si fronteggiarono Cleone e Diodoto: il primo era convinto sostenitore di una punizione esemplare per evitare che altri alleati in futuro perseguissero una simile defezione, il secondo era fautore di un trattamento più mite. Nel discorso di Cleone, non certo sprovveduto circa i luoghi comuni dell'oratoria attica e insieme abile capopopolo, si invitano gli Ateniesi a non farsi adescare dall'abilità oratoria di Diodoto e ad essere consapevoli della necessità per il loro imperialismo di basarsi sulla legge della forza e non su un nocivo umanitarismo.[25] Il paradosso dell'intervento di Cleone è l'elogio, chiaramente demagogico, dell'amathía del popolo contrapposta alla corruzione degli oratori perché «i più semplici tra gli uomini amministrano la città meglio di quelli più intelligenti» (III 37,3) e «Quanti invece non si fidano della propria intelligenza e si ritengono più ignoranti delle leggi e più incapaci di biasimare il discorso di uno che ha parlato bene, giudicano in modo corretto come giudici imparziali piuttosto che contendenti»(III 37,4).
Agli antipodi dell'epitafio di Pericle, la demagogia di Cleone elogia scaltramente la mancanza di cultura della massa per piegarla alla propria opinione. Alla fine vincerà la proposta di Diodoto, a sua volta capace di convincere in modo altrettanto sofistico il popolo che essere indulgenti con Mitilene eviterà dispendio eccessivo di mezzi e una più rassicurante sottomissione ad Atene degli alleati. In ogni caso il dêmos non è più chiamato a condividere la nobile prospettiva delineata nell'epitafio, ma a vivere «la storia di una progressiva perdita del senso della misura, e come la tragedia di una grande costruzione ideale… che smarrisce le proprie coordinate e finisce distrutta nelle latomie siracusane» (Renzo Tosi).[26] Si apre dunque un nuovo scenario, quello della guerra contro Siracusa, il sogno dell'espansione verso ovest, e con esso i nuovi e ultimi personaggi che prenderemo in esame.
Della catastrofica spedizione in Sicilia (415-413 a.C.) contro Siracusa, i cui abitanti erano consanguinei degli Spartani, fu promotore Alcibiade, parente di Pericle,[27] giovane rampollo dell'élite ateniese, dalle caratteristiche, tuttavia, molto diverse da quelle dell'illustre predecessore.[28] Nonostante quest'ultimo avesse raccomandato agli Ateniesi di non espandere il proprio dominio, ma di conservare con cura quanto conquistato, l'assemblea popolare decise per l'intervento dopo che in essa si scontrarono, come narra ancora Tucidide,[29] Nicia, artefice della pace del 421 ed esponente della corrente moderata ostile all'impresa, e Alcibiade che riuscì a far prevalere la sua opinione.
Il nodo centrale di questo serrato dibattito,[30] come giustamente sottolineato da recenti interventi, è il desiderio irrazionale di salpare alla conquista dell'isola che infiamma malamente la massa assembleare, il «mal di Sicilia» (Luciano Canfora), la «deriva del desiderio» (Davide Susanetti), che porterà Atene alla disfatta. L'éros del popolo per Atene, così idealmente celebrato, come si è detto, nelle parole di Pericle, assume nel nuovo contesto elementi di eccesso e boria, che contaminano tutte le componenti, dagli anziani ai giovani alla massa dei soldati che, arruolati come marinai, sognano un salario eterno (VI 24,3). Se anche qualcuno nell'assemblea avesse voluto esporre un parere contrario, in tale clima di entusiasmo, come nota Tucidide, si guardava bene dal farlo (VI 24,4). Il lógos del leader celebra ancora il suo trionfo trascinando la folla verso un'improbabile avventura a capo della quale sarà, suo malgrado, il conservatore Nicia; Alcibiade, infatti, condannato per la mutilazione delle Erme e costretto ad abbandonare la spedizione, riuscirà a sfuggire ai carcerieri che dovevano riportarlo ad Atene per il processo.[31]
L'ambivalenza degli umori del popolo risalta all'atto della partenza della spedizione verso Siracusa nel maggio del 415 a.C. quando tutti gli Ateniesi e anche gli stranieri presenti scendono al Pireo per accompagnare figli, parenti, amici, conoscenti. La psicologia della massa, contraddittoria e complessa, è finemente analizzata da Tucidide che annota come «procedevano nello stesso tempo tra speranze e lamenti, le prime per quanto avrebbero guadagnato, i secondi per il timore di non rivederli, considerando a che grande distanza li mandavano per mare» (VI 30,2). In quel momento – prosegue lo storico – «si presentarono con più chiarezza alla loro mente i rischi rispetto a quando avevano deciso la spedizione, ma tuttavia erano incoraggiati alla vista della forza che veniva allora dispiegata, per la grande quantità di preparativi che vedevano uno per uno» (VI 31,1). Alla notizia dell'imprevista sconfitta, anzi della 'distruzione completa' (panolethría), conclusione lapidaria in VII 87,6, di nuovo nelle prime battute del libro ottavo, la massa ondeggia tra incredulità e rabbia contro chi, oratori, oracoli e indovini, l'avrebbe convinta a deliberare la spedizione, come se la responsabilità dell'accaduto non riguardasse il grande potere decisionale che le era stato attribuito; ancora una volta Tucidide ne registra, con fine attenzione, gli stati d'animo.

 

3. Appendice comica

 

Non si può concludere questa breve analisi senza fare qualche selezionato riferimento alla commedia e ai suoi attacchi[32] contro le figure di leader sopra menzionati. Come ricorda Simone Beta «Tra le molte facce che popolavano l'Atene dei comici quelle degli uomini politici erano di gran lunga le più presenti»[33]. La commedia del V sec. a.C. è, per eccellenza, commedia 'politica', della pólis vista dagli spettatori che erano, a loro volta, polîtai, l'insieme dei cittadini. Nei frammenti di Cratino, Teleclide, Frinico, Ferecrate si muovono come in uno specchio caricaturale i nostri protagonisti: Pericle, definito da Cratino «grandissimo tiranno» e «adunatore di teste», deformazione grottesca dell'epiteto omerico di Zeus «adunatore di nembi», o «dalla testa di cipolla»,[34] Pericle a cui secondo Teleclide[35] il popolo di Atene ha consegnato tutto, rendendolo di fatto signore assoluto. Non mancano Nicia, rappresentato da Frinico[36] mentre cammina curvo per satireggiare la sua eccessiva circospezione, e Alcibiade, dagli ambigui costumi sessuali che, nel ritratto di Ferecrate,[37] appare come l'amante di tutte le donne.
È di Cleone e del suo rapporto con il dêmos, tuttavia, che Aristofane ci consegna un esilarante ritratto nei Cavalieri del 424 a.C., «la più impegnata delle sue commedie»,[38] che ottenne il primo premio alle Lenee. Gli animi degli Ateniesi erano esaltati dall'inaspettato successo sopra ricordato di Sfacteria, ininfluente nel quadro della prosecuzione della guerra, ma utile a Cleone, all'apice della fama e del potere, sul piano propagandistico. Il poeta comico «prosegue, indirettamente, la sua guerra alla guerra e demolisce, pezzo per pezzo il mito di Cleone»[39], il campione della democrazia, di cui si fidano i cittadini, viene implacabilmente demolito con una geniale trovata: Atene è raffigurata come una casa in cui il padrone Demo (il popolo) è soggiogato dall'astuto servo Paflagone, mentre altri due schiavi fedeli, che rappresentano i moderati Nicia e Demostene, tentano una via d'uscita. Dopo aver rubato gli oracoli a Paflagone, apprendono che l'unica soluzione è quella di contrapporgli Agoracrito (propriamente 'scelto dal popolo') Salsicciaio, losco individuo, più avido e abietto di Cleone. Con l'appoggio del coro, rappresentato dai cavalieri, questo nuovo losco figuro sconfigge davanti all'ekklesía in uno scontro verbale, in cui entrambi i personaggi dimostrano la loro bassezza morale, Paflagone-Cleone. Questi, punito per le sue malefatte, è costretto a vendere salsicce alle porte della città, il vincitore ottiene in premio vitto e alloggio gratuito nel Pritaneo; Demo invece, dopo essere stato cotto in un caldaio, ringiovanisce e si ritira in campagna a vivere con Tregua, una bella ragazza, simbolo di un accordo trentennale con Sparta.
Nostalgico della generazione eroica dei Maratonomachi e dei vincitori di Salamina, critico in particolare nella sua prima produzione verso la democrazia radicale e i suoi rappresentanti, Aristofane presenta già dai primi versi della commedia il popolo come un vecchio che è completamente in balia del demagogo. Quest'ultimo, compresone il carattere, come un cane,[40] «si è accucciato ai piedi del padrone, si è messo a scodinzolargli, a lusingarlo, ad ingannarlo con delle quisquilie» (vv. 47-49). A nulla vale, come si è visto, il piano dei due servitori: il Salsicciaio sconfigge Paflagone perché è ancora più scellerato di lui e nelle ultime battute Demo, congratulandosi per la sua vittoria, lo accoglie al posto del predecessore: «Hai avuto proprio una bella pensata… In cambio ti chiamo nel Pritaneo, al posto dove sedeva quel maledetto» (vv. 1402-1405). Demo è nuovamente plagiato da chi fa promesse assurde solo per il proprio interesse.
A fronte di un'età gloriosa e austera che non può tornare, anche Aristofane, diffidente verso la democrazia e il realismo politico di molti suoi contemporanei, è a suo modo 'amante' di Atene, seppure disperato, perché legato «ad un impossibile amore per quello che oramai era un mito e un sogno, nella nostalgia di un passato che forse non era mai stato quale il poeta si illudeva di poter risuscitare contro l'inarrestabile rovina del presente».[41]

 

4. Conclusione

 

Il nostro tempo certamente non conosce forme di democrazia comparabili con quella ateniese, modello creato per la pólis e con tutte le problematiche di rapporto tra leader e popolo che, in parte, si sono affrontate in queste righe. Democrazia diretta greca e rappresentativa attuale sono molto lontane, ma ciò che, a mio avviso, rimane come spunto attuale di interessanti collegamenti è la questione del consenso, dell'influenzabilità dei cittadini, esposti a forme di persuasione diverse da quelle del passato, se non altro per i potenti strumenti mediatici contemporanei, ma non meno incisive, e della relazione con chi si pone alla loro rappresentanza e guida.
Termino, quindi, citando Umberto Eco: «Avere un'educazione classica significa anche saper fare i conti con la storia e con la memoria. La tecnologia sa vivere solo nel presente e dimentica sempre più la dimensione storica. Quello che ci racconta Tucidide…serve ancora a capire molte vicende della politica contemporanea».[42] Questa considerazione finale illumina il principio: se la scuola deve sviluppare le competenze sociali e civiche,[43] formando in modo critico e consapevole le nuove generazioni, le antiche voci di Atene hanno ancora molto da insegnare a noi docenti e ai nostri allievi.

Pubblicato il 13/10/2016

 

Note:


[1] Tucidide, I discorsi della democrazia, a c. di D. Susanetti, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 9-10.

[2] Si ricordi l'affermazione di Pericle, sempre nel discorso epitafio (II 40,2), che gli Ateniesi non ritengono che «i discorsi (toùs lógous) rappresentino un danno per le azioni, ma che lo sia invece non approfondire i problemi nella discussione (prodidachthénai), prima di compiere le azioni necessarie». Per tutte le traduzioni dei passi tucididei si è utilizzata la recentissima edizione Tucidide La guerra del Peloponneso, introduzione di R. Tosi, nuova traduzione e note di P. Rosa, Milano, Rusconi, 2016.

[3] Cfr. II 41,1. Non si prende qui in esame la parodia che dell'epitafio funebre costruisce Platone nel Menesseno per criticare gli artifici dei retori di professione.

[4] Cfr. Tucidide, La guerra…, cit., p. XLI. Come hanno rimarcato i più accorti commentatori, anche lo spazio che si apre tra il discorso effettivamente pronunciato e la sua riproduzione scritta rimanda all'interpretazione di chi scrive, in questo caso il nostro storico, e alla sua indicazione metodica (I 22) di riportare i discorsi come a lui sembrava in base a quello che era necessario (tà déonta) dire a seconda delle circostanze.

[5] Cfr. II 43,1.

[6] Tucidide, I discorsi…, cit., pp. 17-18.

[7] Per un approfondimento di questi aspetti, si rimanda a Tucidide, Epitafio di Pericle per i caduti del primo anno di guerra, a c. di O. Longo, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 9-27.

[8] Cfr. L. Canfora, Il mondo di Atene, Bari, Laterza, 2011, pp.10-15. Per uno studio dettagliato sulla nobiltà e ricchezza di Pericle (per parte di madre apparteneva alla famiglia degli Alcmeonidi, quindi alla migliore aristocrazia attica), sulla sua carriera politica e sulle sue scelte, vedasi ibidem, pp. 113-129.

[9] Su ben altre posizioni il pamphlet La costituzione degli Ateniesi del Vecchio oligarca, acceso detrattore del regime democratico, o Platone che nella Repubblica (557d) descrive l'instabilità della democrazia ateniese come un pantopólion politeiôn, un «mercato delle costituzioni». 

[10] Un esempio di ciò è l'allontanamento di Iperbolo, ostracizzato nel 417 come risultato dell'accordo di Nicia e di Alcibiade. Lo stesso Pericle aveva allontanato, sempre ricorrendo alla pratica dell'ostracismo, il capo dell'opposizione Tucidide di Melesia, che aveva mosso critiche circa le ingenti spese per l'abbellimento di Atene.

[11] Pericle fu aspramente criticato dal popolo e fatto decadere dalla carica di stratego e multato, complice l'astro nascente di Cleone, nel secondo anno della guerra del Peloponneso nel 430, ma fu poi reintegrato l'anno successivo.

[12] Cfr. II 36,4.

[13] Cfr. II 38,1.

[14] Cfr. II 39,1.

[15] «Nella lode di Atene, Pericle aveva alimentato "il piacere" di un'identità aristocratica, ma, nel fare questo, aveva condotto il popolo a condividere il suo desiderio e il suo piacere, ad assumere come proprio l'ideale del leader» (Tucidide, I discorsi, cit., p. 20).

[16] A causa del suo aspetto che lo rendeva simile a Pisistrato e del tono della sua voce che colpiva soprattutto gli anziani per la somiglianza con quella del tiranno, Pericle da giovane aveva molto timore del popolo (cfr. Plutarco, Vita…, cit., 7,1).

[17] «Pericles ille, et auctoritate et eloquentia et consilio, princeps civitatis suae» (De resp., I 25).

[18] Articolate considerazioni al riguardo con le annotazioni di alcuni riferimenti precisi del testo plutarcheo sono in Plutarco, Vite parallele Pericle e Fabio Massimo, vol. II, a c. di D. Magnino, Novara, UTET, 2013, pp. 14-15; da questa edizione sono tratte anche le traduzioni dei passi riportati.

[19] Cfr. 15,1.

[20] In questo giudizio lo storico sarà seguito da anche da Aristotele che in Athenaíon Politeía 28,3 individua proprio nel dopo Pericle la svolta negativa della democrazia di Atene.

[21] Definizione di L. Canfora, Il mondo…, cit., p. 124. Per questo aspetto si rimanda all'Appendice comica.

[22] Cfr. nota 11.

[23] Nel 425 a.C. gli Ateniesi, sotto il comando di Cleone, riuscirono ad occupare Sfacteria, isola antistante la costa del Peloponneso, e a catturare il contingente spartano che la presidiava.

[24] Una scelta antologica sull'argomento con introduzione, commento e attività didattica da proporre in classe si trova in V. Citti et al., Storia e autori della letteratura greca, Bologna, Zanichelli, 20152, pp. 482-488.

[25] Che il regime democratico avesse come volto esterno un impero che doveva essere mantenuto sottomettendo gli alleati lo aveva dichiarato lo stesso Pericle nel suo ultimo discorso: «Ormai questo potere lo possedete come una tirannide: conseguirla sembra ingiusto, abbandonarla pericoloso» (II 63,2).

[26] Cfr. Tucidide, La guerra…, cit., p. XLIX.

[27] Pericle era stato tutore di Alcibiade.

[28] Anche Plutarco, nella Vita di Alcibiade ricorda come «chi accendeva con ogni mezzo questo loro desiderio(degli Ateniesi) e li esortava a non agire per gradi, un passo dopo l'altro, ma a mettere in mare una potente flotta con cui attaccare e saccheggiare l'isola, era proprio Alcibiade. Egli incoraggiò il popolo a nutrire grandi speranze, ma in realtà era lui ad avere ancora più alte aspirazioni» (traduzione di F. Albini, Milano, Garzanti, 1996). Il rampollo alcmeonide, come afferma davanti agli Spartani presso i quali si era rifugiato, era, infatti, convinto che la democrazia fosse da un lato una follia (ánoia), dall'altro un sistema utile all'aristocrazia per l'impero navale, a patto di saperla dominare e sfruttare. (Thuc. VI 89,4-6).

[29] Cfr. VI 8-26.

[30] Un'accurata scelta antologica in V. Citti et al., Storia…, cit., pp. 494-501.

[31] Rifugiatosi a Sparta, Alcibiade rientrò trionfalmente ad Atene nel 408 acclamato dal popolo e rieletto stratego. La sua riabilitazione, tuttavia, durò poco perché dovette ritirarsi definitivamente dalla scena politica per un insignificante insuccesso militare di uno dei suoi subordinati.

[32] Molte di queste aspre critiche erano note anche a Plutarco.

[33] I comici greci, a c. di S. Beta, Milano, Rizzoli, 2009, p. 11, che riporta il testo dei frammenti seguendo l'edizione di R. Kassel e C. Austin, Poetae Comici Graeci, Berlin-New York, De Gruyter, 1983-2001. La mancata conoscenza delle opere integrali di questi autori rende ovviamente parziale il quadro nei particolari e nella cornice storica.

[34] Cfr. rispettivamente fr. 258 K.-A. e 73 K.-A.

[35] Cfr. fr. 45 K.-A.

[36] Cfr. fr. 62 K.-A.

[37] Cfr. fr. 164 K.-A.

[38] Così Marzullo in Aristofane, Le commedie, vol. I, a c. di B. Marzullo, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 65.

[39] Cfr. Aristofane, Le commedie, a c. di R. Cantarella, Torino, Einaudi, 1972, p. 54. Da questa edizione sono tratte anche le traduzioni dei due brevi passi proposti.

[40] Ad Atene erano chiamati «cani del popolo» gli oratori politici di parte democratica.

[41] Cfr. Aristofane, Commedie, cit., p. X.

[42] U. Eco, Le ragioni della difesa in Processo al liceo classico, a c. di U. Cardinale e A. Sinigaglia, Bologna, il Mulino, 2016, p. 77.

[43] Si riporta di seguito il testo della sesta competenza chiave per l'apprendimento permanente (Raccomandazione 2006/962/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, 18/12/2006): «Per competenze sociali si intendono competenze personali, interpersonali e interculturali e tutte le forme di comportamento che consentono alle persone di partecipare in modo efficace e costruttivo alla vita sociale e lavorativa. La competenza sociale è collegata al benessere personale e sociale. È essenziale comprendere i codici di comportamento e le maniere nei diversi ambienti in cui le persone agiscono. La competenza civica e in particolare la conoscenza di concetti e strutture sociopolitici (democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili) dota le persone degli strumenti per impegnarsi a una partecipazione attiva e democratica».