Dedicato ad Annamaria Bufo
Ogni cultura- scrive Romano Luperini in un famoso saggio- si definisce nel rapporto con il passato e con il mondo dei morti: opera una selezione, elabora memorie, relega nell'oblio. In qualche modo si racconta la propria storia. Ma se negli autori classici, da Omero a Dante passando per Virgilio, l'incontro con i morti assume la funzione ideologica di una grande narrazione mitica che definisce il senso di una civiltà e di un destino, nella grande poesia del Novecento, a partire da Pascoli, il patto fra le generazioni, la dimensione pubblica, la trasmissione di un progetto o anche solo di una prospettiva collettiva si allontanano sin quasi a sparire[1].
La lirica di Vittorio Sereni nasce - come tutta la lirica, in realtà - da un faticoso bisogno di comunicare che, in molteplici poesie, si esprime sotto forma di ricerca di contatto o di colloquio con un interlocutore più o meno fittizio, con un tu indefinito o una sorta di voce interiore; spesso è l’ombra di un defunto, trasformata in specchi di sé, con il compito di far emergere tasselli rimossi dalla psiche, in un vero e proprio tentativo di auto-analisi e di superamento dei conflitti interiori.
Frontiera (1941), questo il titolo della prima raccolta di Sereni, nato a Luino, al confine con la Svizzera sul lago Maggiore, “può essere letta come una delle metafore principali e ricorrenti del suo itinerario poetico”: frontiera sentita “come limite, come barriera imprigionante eppure aperta, da cui però ci si protende verso un al di là”[2], come condizione di precarietà dell’io, di perplessità esistenziale; “la frontiera, però, è anche foriera di cambiamento e pertanto vivere la liminalità richiede […] la disponibilità a compiere un’esperienza di apprendimento”[3].
La “frontiera”, infine, identificabile per Sereni geograficamente nel confine italo-svizzero, diventa in versi un confine interiore, oltrepassando il quale si assiste alla comparsa di elementi che rimandano alla morte e alla caducità di ogni cosa.
È quello che avviene nella lirica Strada di Zenna[4].
Il poeta si ritrova a Zenna (fra l’Italia e la Svizzera) e proprio qui si apre uno squarcio sulla sua frontiera interiore, un passaggio che sembra svelare un vero e proprio regno di “umbrae”: l’incipit infatti ci trasporta in un’atmosfera purgatoriale (la più congeniale alla poetica sereniana) alludendo “a un’infinita navigazione”, cioè all’oltre vita, intesa come viaggio senza termine di spazio e di tempo, “su cinerei prati/ per strade che rasentano l’Eliso”.
Sebbene “nell’estate impaziente/s’allontani la morte”, in realtà “nel rombo dell’acquazzone/che flagella le case” l’io poetico identifica il vento che stormisce tra le foglie con i gemiti dei trapassati che rivelano in questo modo la loro partecipazione all’interno della vita, una partecipazione spesso dolorosa, che accompagnerà l’autore anche nelle successive raccolte. D’altra parte il lessico dell’intera poesia è costellato, in una climax ascendente, da chiari rimandi funesti che turbano l’armonica quiete: dal “broncio teso tra l’acqua”, il “turbinare la rena”, “l’esteso strazio”, i “pallidi volti feroci” ed il “rombo dell’acquazzone”, sino alla definitiva rassegnazione: “Voi morti non ci date mai quiete”.
Se le liriche di Frontiera privilegiano le apparizioni silenziose a cui il poeta si rivolge in seconda persona, nel Diario d’Algeria comincia a delinearsi la presenza di un discorso con un tu indefinito, spesso con il mondo dei morti, un colloquio che sempre avviene in una sorta di terra di mezzo, principalmente nella dimensione del dormiveglia[5].
Nel definire «diario» la sua silloge poetica di testi legati al periodo della guerra e della prigionia in Africa tra il 1942 e il 1945, l’autore evidenzia ancor più il carattere autobiografico della propria scrittura, che non manca di assurgere a emblema generazionale. Questo periodo gli ha provocato una ferita mai rimarginata: come prigioniero è “fisicamente vivo ma spiritualmente e socialmente morto”[6], in “uno stato di precarietà ripetuta e mai conclusa.”[7] .
A tale riguardo fondamentale è la lettura della lirica Non si sa più nulla, è alto sulle ali.
In questa lirica Sereni delinea la prima vera e propria “ombra” della sua poesia: il poeta, ricevuta la notizia dello sbarco degli alleati in Normandia (giugno 1944), immagina, in un clima sospeso tra realtà e sogno, di essere visitato nel campo nel quale è detenuto da un personaggio non meglio definito – apparizione o fantasma, o forse “il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna” - che l’invita a pregare in un momento cruciale per le sorti dell’Europa. Il poeta, che dapprima nega la realtà di quest’apparizione onirica (“è il vento/,il vento che fa musiche bizzarre”), si ritrae sgomento perché si percepisce “morto / alla guerra e alla pace”, estraneo ai fatti dell’esistenza collettiva, prigioniero tra i prigionieri. Sereni denuncia in tal modo la sua impossibilità totale ad agire - dovuta al suo isolamento forzato e alla sua estraneità dal mondo - il suo senso di impotenza, laddove invece il primo caduto, rappresentato come una figura angelica, “alto sulle ali”, responsabile di una laica annunciazione[8], diviene il segno di un eroismo che spinge il continente alla liberazione dalla barbarie del nazifascismo.
Al prigioniero non resta che una consolazione: la rivendicazione del valore della propria «musica», “Non è musica d’angeli, è la mia/sola musica e mi basta”.
A partire dalla terza raccolta, intitolata Gli strumenti umani, il dialogo con l’altro - principalmente raffigurato dalle umbrae -, diventa con sempre maggiore evidenza un’occasione di dialogo con se stesso e porta alla luce ciò che si nasconde nelle profondità della psiche: è una sorta di auto-terapia, come Sereni stesso spiega nella propria meta-poesia I versi (“Si fanno versi per scrollare un peso e/ passare al seguente”)[9].
Composte tra il 1945 e il 1965, “dagli anni delle ancora intatte speranze resistenziali a quelli della immemore vacanza capitalistica, […].”[10] le liriche raccolte ne Gli strumenti umani esprimono l’ansia e la crisi esistenziale del soggetto davanti a una società in costante mutamento, soggetto in cui si scontrano i valori piccolo-borghesi (riserbo e decoro, innanzitutto) e la nuova civiltà di massa. Il poeta - come sostiene Luperini - non assiste senza scosse alla radicale trasformazione storica, ma neppure si scontra con essa[11]. Le liriche, pertanto, riflettono il topos sereniano del “viaggio alla ricerca di certezze, condotto attraverso la selva oscura e intricata del dubbio e della nevrosi.”[12], dubbio sistematico sia sul proprio ruolo, sia sulla propria stessa identità.
A distanza di oltre vent’anni dalla lirica Strada di Zenna, Sereni scrive, in questa raccolta, Ancora sulla strada di Zenna.
L’avverbio “ancora” rinvia a un ritorno in posti cari per un bisogno sia di rivisitare il proprio passato nella “estate dei suoi anni”, registrandone sentimenti ed emozioni, sia di vedere ciò che è – eventualmente – mutato; a questo tema del ritorno si affianca quello di una condizione umana rimasta legata a gesti arcaici, immutati e immutabili.
Il lamento dell’’io lirico “per ciò che muta”, infatti, nasce solo in parte dall’ angoscia del prossimo invecchiamento (“non è […] un mio lamento”, v. 4), ma è soprattutto un “lamento” storico, suscitato dal ritorno dell’io, ormai immerso nella frenetica vita cittadina e ad essa assuefatto, nei luoghi dell’infanzia, dove “nulla nulla è veramente mutato” (v. 22).
Citando il “ciò che muta” ( mutare è parola chiave nella lirica: vv 9, 12, 22 e 32) probabilmente Sereni intende dialogare con Il pianto della scavatrice di Pasolini, che personifica la “vecchia scavatrice, straziata” dalla fatica, con il suo “urlo improvviso, umano, pazzo di dolore”; questo urlo è anche urlo dello “sterro sconvolto”, di “tutto il quartiere”, della “città”, infine del “mondo” intero che depreca la ferita inferta dalla modernizzazione; la scavatrice, infatti, e il paesaggio urbano con lei, “piange ciò che muta”; e lo piange quand’anche mutasse “per farsi migliore”.
All’inizio sembra che Sereni dia anche lui, come Pasolini, libero corso al lamento nostalgico (“E io potrò per ciò che muta disperarmi/portare attorno il capo bruciante di dolore”), e invece un’ avversativa introduce un opposto punto di vista : “ma l’opaca trafila delle cose”, un catalogo di un ordine sempre uguale degli “strumenti umani” (denso sintagma che, al plurale, dà il titolo alla raccolta cui questa lirica appartiene), vale a dire gli attrezzi del lavoro agricolo e artigianale che si trasmettono di padre in figlio come un’eredità passiva[13], denunciano non già la febbrile modernità, come in Pasolini, ma l’altrettanto alienante immobilità atavica, la frustrante ripetizione (“si ripetono identiche”, v. 23) cui sono condannati sia i rami agitati dal vento lungo la strada, sia gli abitanti dei villaggi vicini, che sembrano identificarsi con le piante stesse: queste, (vv. 26-27), “rinfacciano” al poeta “il privilegio del moto”, il privilegio, cioè, di una vita a loro negata.
Un avverbio conclusivo introduce il cambiamento di prospettiva “Dunque pietà per le turbate piante”, una pietà (sottolineata dalla doppia duplicazione “via via, salutando salutando”), rivolta non al cambiamento ma alla immobilità, non al progresso ma all’arretratezza, non al mondo moderno della città ma a quello arcaico della campagna[14].
Ora sono di nuovo le piante a salutare, come prima salutavano quelle agitate braccia e quelle fresche mani protese come per afferrare e trattenere il viaggiatore alla guida della sua auto: il motore si impunta un attimo nel cambio di marcia, poi sale di giri e “un altro paesaggio gira e passa”. Il mondo moderno è accettato senza nostalgia.
L’explicit di tale raccolta, di cui è “forse il testo più teso e metafisico”, la lirica La spiaggia, “la punta dell’arco” del corpus sereniano[15], apre la possibilità di un’attesa utopica: ed è “già un preludio a quella continua consuetudine dei morti al di fuori ormai del sogno o della visione, quale sarà il motivo ricorrente di Stella variabile”[16].
Mengaldo sostiene che “i morti qui non provengono, come nei consueti «incontri» di Sereni, da una zona d’aria, o intermedia fra aria e terra, ma scaturiscono direttamente dalla terra, avendola compenetrata”.[17]
La spiaggia - come sostiene Siciliano - è una zona di confine “molto affine alla spiaggia dell’antipurgatorio dantesco”[18] e, a livello psichico, diviene una sorta di confine interiore, il luogo scenico per la profezia.
La poesia si apre in forma dialogica con una battuta: una voce anonima dentro il ricevitore del telefono dice in modo sgradevole (“blaterava”): “Sono andati via tutti”, una frase che, non avendo un soggetto, non permette di comprendere a chi sia riferita, creando nel lettore un effetto di straniamento. Probabilmente - sostiene Luperini[19] - sono gli amici che, andati via da un luogo di vacanza, non torneranno più. Quest’ultima affermazione acquista, però, per il poeta un valore generale: “non torneranno più” perché sono morti.
Il discorso viene ripreso- dopo lo spazio strofico- con un’avversativa e fa riferimento a un episodio avvenuto qualche tempo dopo “Ma oggi”: il poeta sta visitando un “tratto di spiaggia mai prima visitato” dove le macchie solari che, attraverso le nuvole, illuminano a tratti il paesaggio, gli appaiono come segnali della presenza di coloro che se ne sono andati; sono segnali muti che non rispondono allo sguardo del poeta e non sono turbati, né impressionati dal fatto che, per la prima volta, un vivo arrivi all'interno del loro mondo e anzi ostentano un silenzio che per il poeta risulta insopportabile (“e zitti quelli al tuo voltarti come niente fosse” v.8): egli, infatti, voltandosi compie lo sforzo di penetrare nel mondo sconosciuto della morte .
La terza strofa, in cui incomincia la parte riflessiva con l’introduzione del tema dei morti, chiarisce il sovrasenso metaforico di questa prima parte del testo: se i morti tacciono, pur tuttavia l’io lirico non si perde d'animo e anzi, investito dalla forza del mare (“m'investe della sua forza il mare”) che, in antitesi con la spiaggia, regno dei morti, diventa regno dei vivi, assicura che riuscirà a far parlare i defunti, a sapere da loro, presumibilmente, verità metafisiche che solo i morti possono conoscere, domande che da sempre investono gli uomini.
Possiamo rinvenire in queste due strofe finali un ulteriore significato: il senso della morte non è semplicemente nel trascorrere dell’esistenza con il suo spreco di energie, ma è quella parte della vita che rimane inespressa, irrealizzata, incompresa, nascosta (“toppe d’inesistenza”, per l’appunto)[20].
Però questa stessa parte è pronta “a farsi movimento e luce” e manifestare così la propria vitalità come è accaduto nei “segnali” degli amici scomparsi, quelle “toppe solari” che, passando dall’ombra alla luce, si accendono di colore.
In ogni caso, in un finale così assertivo, emergono una speranza e una rassicurazione sulla definitiva possibilità di accettare la morte come un accadimento naturale.
L’io poetico di Stella variabile, la raccolta del 1980, risulta essere sempre più in disarmonia con la realtà e “sempre più incerto sulle proprie ragioni e sulla poesia come strumento per esprimerle”[21].
I temi sono quelli della memoria e del rispecchiamento del proprio presente nel passato degli scomparsi, già elaborati ne Gli strumenti umani ma, rispetto al libro precedente, in Stella variabile si nota semmai un’accentuazione della componente privata: i grandi ‘universali’ della morte e della vita ultraterrena sono stemperati da elementi più quotidiani[22]: ne è un esempio la lirica Autostrada della Cisa, la Parma-La Spezia, quella che il poeta percorreva per muoversi tra Milano e Bocca di Magra, dove trascorreva le vacanze al mare; un contesto, dunque, legato al suo orizzonte personale e affettivo.
In questa lirica le immagini concrete, come la conformazione del tratto autostradale con le sue gallerie di valico scavate sotto l’Appennino Tosco-Emiliano, guadagnano un significato ulteriore dentro il paradigma mitico della descensio ad inferos, per cui i due livelli, letterale e traslato coesistono: le volte, per esempio, sono anche quelle che chiudono l’antro della Sibilla, evocata nei versi finali della poesia, e il tunnel è anche un passaggio ultraterreno verso il regno dei morti. L’effetto è quella generale tendenza alla variabilità, alla rappresentazione «delle cose come ti appaiono e del loro rovescio» che è propria per l’appunto di Stella variabile[23].
Qui assistiamo a una specie di monologo interiore: l’io narrante, percorrendo l’autostrada della Cisa, pensa che tra meno di dieci anni avrà l’età di suo padre quando è morto, di cui ricorda con dolore il funerale («con malagrazia fu calato giù»). A un tratto vede una donna che agita un cencio dal ciglio di un dirupo: si tratta probabilmente di una contadina che cerca di attirare su di sé l’attenzione dei passanti per vendere qualche prodotto della terra; ma il poeta non può fare a meno di trasfigurarla nell’immagine mitica dell’erinni, scarmigliata, come vuole l’iconografia classica, che abita negli inferi e perseguita, per vendetta, i mortali macchiatisi di una grave colpa. In Sereni il tema della colpa è particolarmente sentito: si tratta della colpa di chi rimane in vita, rispetto a coloro che invece ci hanno preceduti nell’oltremondo, e questo rimorso può avere un riscatto, almeno temporaneo, nel dialogo, durante il quale si stabilisce un contatto, se pur labile[24].
Un interlocutore imprecisato (forse proiezione dell’io) gli prospetta l’esistenza di una seconda, autentica vita dopo la morte e lo invita ad attenderla come si attende “un ritorno d’estate”, la stagione della pienezza vitale, che si spera di trovare oltrepassando il valico. È una speranza che torna ostinatamente, “recidiva”, raffigurata antropomorficamente mentre addenta, quasi con sensualità, la polpa di un’anguria (forse acquistata dall’erinni-contadina), un tipico frutto estivo, anch’esso dunque simbolo dell’esuberante vigore. Tutt’intorno la natura si anima a formare un paesaggio affollato di creature mitiche (come le ninfe degli alberi), mentre la pianura Padana (la “piana assetata”) si trasforma idealmente in un immenso lago, tanto che Mantova (che per metonimia indica l’intera regione) si trasfigura in un’immaginaria Tenochtitlàn (nome precolombiano di Città del Messico) incantata.
Attraversando i vari tunnel dell’autostrada, passando continuamente dalla luce abbagliante del giorno all’oscurità della galleria, il poeta sente il bisogno di un contatto con chi non c’è più, ma ogni suo tentativo di restare aggrappato agli affetti perduti risulta vano (tende una mano e questa gli “ritorna vuota”; allunga un braccio, ma stringe “una spalla d’aria”), con un evidente richiamo classico.
In un crescendo di intensità si arriva a una conclusione ambigua: “non lo sospetti ancora” – dice una voce interiore che il poeta identifica con quella della Sibilla – “che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?”.
L’utopica speranza si spegnerà così nelle parole della mitica indovina e il “colore del vuoto”, il colore dell’assenza, ossia il più indelebile di tutti, concluderà il viaggio psichico dell’io, che da pellegrino alla ricerca di sicurezze, involverà in un prigioniero delle proprie continue incertezze.
La poesia di Sereni ha così raggiunto la sua piena maturità e l’artificio del colloquio con le visioni è giunto al termine della sua parabola. Il silenzio fa spesso da contrappunto alle parole, trasmettendo il senso di un vuoto incolmabile, mentre gli interlocutori sono ormai sempre più trasfigurati in proiezioni psichiche del soggetto poetico: oramai a dialogare con Sereni vi sono entità astratte (quali la “recidiva speranza”), che paradossalmente conciliano il desiderio di vita e quello di totale annullamento.
Non c’è dubbio- come ha giustamente affermato G. Mazzoni[25]- che questo modo di abitare il vuoto di Sereni, poeta della ripetizione dell’esistere, intercetti qualcosa di assolutamente contemporaneo.
28 febbraio 2023
[1] R. LUPERINI, Fra antico e moderno: l’incontro con i morti, ora in ID. Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Macerata, 2013, pp. 181-192.
[2] R. PAGNANELLI, La ripetizione dell’esistere, Lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1980, p.55.
[3] P. ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997, p.149.
[4] Tutti i testi di Sereni citati nel saggio sono tratti da V. SERENI, I versi in Poesie, a cura di D. Isella, Mondadori (“Meridiani”), Milano 1995.
[5]D. BARRESI, Autobiografismo e invenzione in Frontiera e Diario d'Algeria di Vittorio Sereni, in https://www.academia.edu/8703185.
[6] R. PAGNANELLI, La ripetizione dell’esistere, cit. p.102.
[7] A. LUZI, Introduzione a Sereni, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 69.
[8] M.TORTORA, C. CARMINA, G. CINGOLANI, R. CONTU, Vittorio Sereni in Una storia chiamata Letteratura, vol. 3B, Palumbo, Napoli, 2022, p 531.
[9] V. SERENI, I versi in Poesie, cit., p.149.
[10] A. LUZI, Introduzione a Sereni, cit. p. 82
[11] R. LUPERINI, Perché letteratura, Palumbo, Napoli, 2015, vol, 6, p.326
[12] M. L. BAFFONI LICATA, La poesia di Vittorio Sereni, Alienazione ed impegno, Longo editore, Ravenna, 1986, p.146
[13] Anche “la lenza / buttata a vuoto nei secoli” è una concreta immagine di un arnese comune per chi vive sulle rive di un lago, ma inutilizzato, e quyindi un efficace correlativo oggettivo delle misere vite, sprecate senza frutto nei secoli.
[14] P. PELLINI, Le varianti di Zenna sulla posizione storica della poesia di Sereni, http://italogramma.elte.hu/wp-content/files/Pellini_Le_varianti_di_Zenna.pdf pag.266.
[15] G. BARBERI SQUAROTTI, Gli incontri con le ombre, in Di fronte al romanzo, Contaminazioni nella poesia di Vittorio Sereni, a cura di G. Cordibella, Pendragon, Bologna 2004, p. 86
[16] Ibid.
[17] P.V. MENGALDO, La spiaggia di Vittorio Sereni, in La tradizione del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 246.
[18] E. SICILIANO, Sereni verso il purgatorio laico, in Novecento. I contemporanei, Marzorati, Milano 1979, vol. 9, pp. 8224-8225.
[19] R. LUPERINI, Perché letteratura, cit., p. 327.
[20] Ivi, p. 328.
[21] N. SCAFFAI, Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni, Carocci, Roma, 2015, p.197.
[22] L’analisi è tratta dal saggio di N. SCAFFAI, Note per stella variabile di Vittorio Sereni (con un saggio di commento a Autostrada della Cisa), in La pratica del commento, a cura di D. Brogi, T. de Rogatis e G. Marrani, Pacini, Pisa, 2016, pp. 254-259.
[23] N. SCAFFAI, Il lavoro del poeta. Montale, Sereni, Caproni, cit. p.194.
[24] V. SERENI, Intervista a un suicida in Poesie, a cura di D. Isella,cit. p.163, v.2.
[25] G. MAZZONI, Anni dopo. Per Vittorio Sereni, in Le parole e le cose, 10 febbraio 2013, https://www.leparoleelecose.it/?p=8716
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