Paola Rocchi - Ginzburg, Bellonci, Morante

Scrivere nella guerra, scrivere di guerra, scrivere contro la guerra

Paola Rocchi insegna al liceo classico e scientifico Socrate, Roma; ADI-SD Lazio

 

 

«La guerra per le donne è un’altra cosa rispetto ai maschi. Mi hanno colpito le parole di una ex soldatessa sovietica che dopo una battaglia è andata a vedere il campo dove giacevano i morti e i feriti. Diceva: “C’erano ragazzi, bei giovani, russi e tedeschi, mi dispiaceva ugualmente per tutti quanti. La morte e il dolore non conoscono differenze tra gli esseri umani. Ma lo sanno solo le donne» (La guerra non ha il volto di donna, di Svetlana Aleksiev, Premio Nobel per la Letteratura nel 2015)

 

 

Premessa metodologico-didattica

Il percorso didattico che qui si propone può essere presentato, con obiettivi opportunamente calibrati e a diversi livelli di approfondimento, tanto nel Primo Biennio che nell’ultimo anno della scuola superiore. In entrambi i casi si presta a collegamenti di natura pluri- e interdisciplinare.  Se ne forniscono qui di seguito le linee progettuali essenziali, che sono comunque passibili di ulteriori sviluppi e approfondimenti nei temi, nei testi e nelle attività laboratoriali (costruzione di dossier su materiali e documenti, foto-racconti, graphic novel, racconti collaborativi, ecc.)

 

Nel Primo Biennio 

I testi che si propongono sono tre racconti; nell’ordine di presentazione si tratta di Passaggio di tedeschi a Erra di Natalia Ginzburg; Segni sul muro di Maria Bellonci; Il soldato siciliano di Elsa Morante.

Se ne potrà fare in aula una lettura attenta agli aspetti tipici della narrativa breve: dal punto di vista da cui le vicende sono presentate alla costruzione dell’intreccio, fino al trattamento della dimensione temporale, in relazione sia al tempo del racconto sia al tempo della storia (con riferimenti anche al contesto storico). Il processo di analisi dovrà quindi convergere verso un’ipotesi interpretativa motivata, che faccia leva su alcuni punti:

  • quale immagine della guerra restituiscono i testi letti?
  • lo sguardo da cui sono narrati i fatti è neutro o presenta dei tratti - espliciti e/o impliciti - riconducibili a un punto di vista femminile?
  • si colgono elementi comuni fra i tre racconti nel modo di narrare le vicende belliche?

Possono essere sfruttati nessi sinergici con l’insegnamento di educazione civica, sia nell’ambito dello studio della Costituzione italiana (l’articolo 11, i suoi significati e la sua storia) sia dell’Agenda 2030, in relazione ai temi della guerra e della cultura della pace. L’insegnamento della geografia in chiave geopolitica può consentire utili espansioni sull’attualità del tema e sul ruolo delle donne nei conflitti oggi attivi nel mondo e nella costruzione di politiche di superamento  della violenza come mezzo di risoluzione delle controversie.

 

Nel Quinto Anno

La stessa proposta di base può essere ricalibrata per l’anno terminale della scuola superiore, ridefinendone l’impianto, l’articolazione e gli obiettivi.

In questo caso, i tre testi-base potranno dialogare con altri, sia in versione integrale sia in forma di estratti da testi più ampi di cui si forniranno i riferimenti nel corpo dell’articolo, al fine di dare maggiore spessore alla ricostruzione dei profili delle autrici. Due dimensioni in particolare potranno essere esplorate in chiave critico-interpretativa:

  • Il rapporto tra guerra e linguaggio.
  • Il modo con cui alcune narratrici rappresentative del ‘900 hanno raccontato la seconda guerra mondiale, e in particolare la delicatissima fase che si apre dopo l’8 settembre del ’43.

Proiettare la lettura dei testi di Ginzburg, Bellonci e Morante nel quadro di riferimento delle due dimensioni indicate consente anche di uscire da una serie di stereotipi critici a cui la scrittura femminile è andata incontro. Tra i più consolidati, quello secondo cui i temi affrontati dalle scrittrici sarebbero prevalentemente confinati nell’orizzonte del privato, del vissuto autobiografico e affettivo. In realtà, i testi presi in esame ci dimostreranno che non solo il paradigma non è così monolitico, ma che lo sguardo con cui le donne ci restituiscono le scene di guerra, anche le più cruente, non è meno universale di quello maschile. E questo perché è mediato, almeno nelle autrici più significative, da una consapevolezza profonda di come gli eventi tragici della guerra possano incidere o addirittura stravolgere la lingua letteraria, in un dialogo serrato con quanti, tra gli scrittori del canone, si siano posti il medesimo problema.

In chiave pluri- e interdisciplinare emergono con chiarezza i rapporti con la storia e l’educazione civica (per cui si rinvia a quanto già indicato sopra, seppur in forme più approfondite e/o estese al ruolo delle donne nella Resistenza[1] e in seno all’Assemblea Costituente; alle battaglie civili di Natalia Ginzburg contro le guerre moderne[2] o alle prese di posizione sul ruolo degli scrittori nella società contemporanea di Elsa Morante).[3] Anche la filosofia può fornire apporti significativi grazie alla presentazione di due figure come quelle, assai poco frequentate nelle aule scolastiche, di Simone Weil e Rachel Bespaloff[4]. Per una tematizzazione più generale, è infine rilevante il richiamo, attraverso la letteratura inglese, al saggio-pamphlet Le tre ghinee, scritto da Virginia Woolf nel 1937-38, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, che intreccia in un nodo stretto il tema della prevenzione della guerra e quello della condizione ed educazione femminile.[5]

 

Il rapporto tra donne e guerra tra XIX e XX secolo in Italia

Il rapporto tra donne e guerra in Italia aveva trovato le sue prime significative manifestazioni durante il Risorgimento, ma è soprattutto con la Prima guerra mondiale che il ruolo delle donne, sia come protagoniste attive sia come testimoni, assume particolari evidenze. Già nel corso della Grande Guerra alcune protagoniste di spicco della cultura italiana (tra le altre: Anna Franchi, Annie Vivanti, Matilde Serao, Amelia Pincherle Rosselli, nonna della poetessa omonima) tradussero in scrittura, spesso di natura autobiografica e memorialistica, la loro partecipazione al dibattito ideologico o alla guerra stessa. Lo fecero «attraverso romanzi, poesie, saggi, pamphlet, drammi, racconti, articoli pubblicati in riviste e su quotidiani […]. Alcune hanno anche scritto reportages dal fronte di combattimento».[6]

L’indagine è comprensibilmente destinata ad assumere proporzioni ancora più ampie se si allarga l’orizzonte alla Seconda guerra mondiale e, più in particolare, alla Resistenza.  In parallelo alla più recente ricerca storiografica, si è andata sviluppando anche l’attenzione all’azione civile e culturale di alcune figure femminili, un’azione che si è espressa attraverso l’uso della parola orale (pensiamo all’importanza delle radio clandestine: il caso di Clorinda-Alba de Cespedes è solo quello più noto) e scritta (romanzi, racconti, diari, memorialistica, lettere: da Renata Viganò con l’Agnese va a morire del 1949 ad Ada Prospero Gobetti con Diario partigiano del 1956, passando per Joyce Salvadori Lussu e i suoi libri autobiografici).[7] Una ricognizione in tal senso richiederebbe molto più tempo e soprattutto un lavoro di ricerca ben più ampio di quello che qui si propone, lavoro che peraltro è in parte già stato svolto o è in atto;[8] ed esigerebbe altresì l’assunzione di criteri metodologici precisi (per esempio, di ordine cronologico in relazione alla distanza temporale che separa gli eventi dalla loro rielaborazione letteraria).[9] Di qui la scelta di dare alla riflessione un taglio ben preciso, limitando l’analisi a tre racconti di altrettante scrittrici che hanno assunto un posto consolidato nel ‘canone’ del secondo Novecento. Si tratta nell’ordine di Passaggio di tedeschi a Erra di Natalia Ginzburg, Segni sul muro di Maria Bellonci e infine de Il soldato siciliano di Elsa Morante.

Andrà precisato che la scelta della narrativa breve non è casuale: essa consente un approccio didattico più efficace e produttivo non solo sul piano dell’analisi ma anche in termini di confronto ravvicinato fra i testi. E si tratta di una scelta non scontata, dal momento che Ginzburg e Morante hanno dedicato al tema della guerra anche due romanzi, usciti a distanza di più di vent’anni l’uno dall’altro: Tutti i nostri ieri (1952) e La Storia (1974).

In secondo luogo, permette di focalizzare meglio l’attenzione su una precisa prospettiva metodologica che, nel nostro caso, possiamo così sintetizzare: ragionare non solo su ‘come si narra una guerra’, ma anche ‘se e quanto la guerra possa modificare fino quasi a stravolgerla la narrazione della realtà’.

 

Effetto-guerra: cosa succede al linguaggio?

Un punto di partenza quasi obbligato quando si parla di narrazione, scrittura e Seconda guerra mondiale è la prefazione che Italo Calvino antepose alla riedizione del 1964 del suo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (1^ ed.1947). Il testo era destinato a rileggere ‘a posteriori’ il senso di quella nebulosa che fu il Neorealismo, che lo stesso Calvino si rifiutava di considerare un «fatto d’arte» per assegnargli piuttosto la patente di «fatto fisiologico, esistenziale, collettivo».

Rileggiamo le parole con cui lo scrittore affronta il rapporto genetico fra l’esperienza della lotta partigiana e la scrittura letteraria nel periodo che va dal 1943 circa ai primi anni ’50:

 

Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca d’effetti angosciosi o truculenti. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio.[10]

 

Da queste righe emerge l’urgenza di un racconto che tragga dalla guerra la sua materia ma anche uno stile nuovo e un nuovo linguaggio, basati sulla rinuncia a una ricerca puramente formale in favore di una scrittura oggettiva, scarna, che accolga apporti dal parlato e dai dialetti.

Guerra e scrittura, dunque, appaiono in questo caso un binomio stringente, tanto da suggerirci una domanda paradossale, e cioè se si debba passare attraverso un’esperienza estrema e tragica come un conflitto mondiale per pervenire a un nuovo linguaggio. In realtà, la guerra in quanto esperienza estrema e radicale è una condizione che amplifica o ridimensiona le nostre relazioni con la realtà, con noi stessi e i nostri simili. Sempre Calvino, in merito al nodo Resistenza e letteratura ebbe a scrivere nel 1949: «sia che lo scrittore partecipasse direttamente alla lotta, sia che semplicemente subisse l’invasione e i suoi pericoli insieme alla sua gente, egli riuscì a trovare l’innesto tra i problematismi suoi e il sentimento collettivo e lo scriver non poteva presentarglisi ora che in funzione “anche” di quest’ultimo».[11]

 

Mettiamo ora accanto alle parole di Calvino un altro testo che, ugualmente, s’interroga sulla guerra come fatto epocale, destinato a cambiare non solo la storia e le esistenze individuali ma anche lo sguardo sul reale e sul modo di scriverlo e raccontarlo. Il titolo di questa breve prosa ibrida, tra saggio, autobiografia e racconto, è Il figlio dell’uomo ed è datato 1946. Insieme a Il mio mestiere (1949) fa parte della raccolta Le piccole virtù, pubblicata per la prima volta nel 1962 e ne è autrice proprio Natalia Ginzburg. Il punto di vista di Ginzburg è molto diverso da quello dell’amico Calvino,[12] e probabilmente non solo per la sua maggiore prossimità cronologica agli eventi bellici, ancora molto vivi e pulsanti. Il tema che si staglia più nettamente è quello delle macerie, della distruzione materiale che si abbatte sugli edifici e sulle case, oggettivizzando la devastazione psicologica, affettiva, relazionale:

 

C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. C’è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni ma non guariremo mai. Magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri cari, ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovute abbandonare all’improvviso o le abbiamo cercate inutilmente fra le macerie. […] Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più. Chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti di fiori, i quadri, le parete bianche. Sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni e di calce, e può crollare. non è molto solida. Può crollare da un momento all’altro. Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro le teiere, i tappeti, i pavimenti lucidati a cera, c’è l’altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata.[13]

 

In questo passo, la guerra appare come un «male inguaribile» che s’incide nel paesaggio in modo indelebile e ipoteca qualsiasi processo di riedificazione, ricostruzione. La precarietà del nostro essere è in primo luogo la precarietà delle città, delle case, che possono essere spazzate via da un momento all’altro minando al fondo qualsiasi sicurezza. Non dimentichiamo che il secondo conflitto mondiale ha sostituito alla guerra di trincea del ’15-’18 la pratica dei bombardamenti aerei sugli agglomerati urbani e sui civili, inaugurando una pagina che avrà la sua terribile climax con lo scoppio dell’atomica nell’agosto dl 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki.

Nello stesso scritto Ginzburg, dopo aver tematizzato in modo così diretto e incisivo l’immagine delle macerie, la collega con uno scarto repentino al tema della scrittura, adottando ancora una volta una prospettiva confrontabile con quella di Italo Calvino. Leggiamo le sue parole:

 

C’è ancora qualcuno che si lagna del fatto che gli scrittori si servano d’un linguaggio amaro e violento, che raccontino cose dure e tristi, che presentino nei suoi termini più desolati la realtà. […] Noi non possiamo mentire nei libri e non possiamo mentire in nessuna delle cose che facciamo. E forse questo è l’unico bene che ci è venuto dalla guerra. Non mentire e non tollerare che ci mentano gli altri.[14] (corsivi nostri)

 

Passando al noi, alla prima persona plurale, Ginzburg annoda in un legame stretto, questa volta esplicito, guerra e scrittura, trasformando quella che fino a questo punto era apparsa come una pagina di riflessione storico-esistenziale in una dichiarazione di poetica. In comune con Calvino si coglie la percezione netta che la guerra ha imposto una cesura generazionale, che crea un solco tra i vecchi e i giovani. Ma si tratta anche di una sorta di tsunami linguistico, che oppone due generazioni di scrittori, allontanati irreparabilmente dalle vicende storiche. La radicalità dell’esperienza bellica genera dunque un rinnovamento che investe la scrittura. Ed è un rinnovamento positivo.

 

Così siamo adesso noi giovani, così è la nostra generazione. Gli altri più vecchi di noi sono ancora molto innamorati della menzogna, dei veli e delle maschere di cui si circonda la realtà. Il nostro linguaggio li rattrista e li offende. Non capiscono il nostro atteggiamento di fronte alla realtà. Noi siamo vicini alle cose nella loro sostanza. È il solo bene che ci ha dato la guerra, ma l’ha dato soltanto a noi giovani. […] C’è un abisso incolmabile fra noi e le generazioni di prima.[15] (corsivi nostri)

 

Nel mettere a confronto l’urgenza di verità di cui parla Ginzburg con le parole assai più note della prefazione di Calvino al Sentiero, non possiamo non cogliervi una consapevolezza altrettanto profonda del cambiamento prodotto dalla guerra sul modo di raccontare ma, contemporaneamente, anche una percezione che questo «solo bene» nasce da una ferita che non si può rimarginare.

 

Il paese guastato della guerra: Passaggio di tedeschi a Erra e La paura di Natalia Ginzburg

Nonostante Natalia Ginzburg abbia più volte dichiarato l’irreversibilità degli effetti della guerra per la sua generazione, chi voglia trovare traccia di tale spartiacque nelle pagine della sua narrativa potrebbe di primo acchito rimanere deluso. Ciò si riscontra non solo nelle opere composte a distanza di vari anni dalla fine del conflitto, come Tutti i nostri ieri (1952) o Le voci della sera (1961),[16] ma anche negli scritti, in particolare alcuni racconti, nati in concomitanza o a ridosso degli anni ’44-’45.[17]

Per dimostrare questo particolare approccio alla dimensione bellica prenderemo in esame un racconto scritto pochi giorni dopo il 25 aprile del 1945. Si intitola Passaggio di tedeschi a Erra[18] e fu pubblicato per la prima volta sulla rivista «Mercurio». Erra, dopo l’8 settembre del ’43, diventa passaggio obbligato di alcune divisioni tedesche che da Rieti risalgono la Salaria verso Ascoli Piceno, dove entrano il 12 settembre. Nella macrostoria viene ritagliato il lembo di una vicenda minore, persino minima, in cui la gente del paese vede, quasi senza capire, l’avvicendarsi di automobili e camion tedeschi e finisce, suo malgrado, per subirne le tragiche conseguenze.

La lettura del racconto può essere proposta in classe, dopo aver rievocato gli elementi di contesto sia sul piano storico sia su quello biografico dell’autrice. In particolare, il racconto può fornire uno spunto per far luce sul destino degli antifascisti confinati per motivi politici nei primi anni della guerra. Natalia, infatti, seguì il primo marito, Leone Ginzburg, membro del gruppo “Giustizia e libertà”, costretto dal ’40 al ‘43 nel paese abruzzese di Pizzoli e poi arrestato e torturato a morte nel carcere romano di Regina Coeli. Nulla di tutto questo, però, figura direttamente nel racconto, tra i meno noti dell’opera ginzburghiana.

 

Link_1_ Ginzburg

 

La scelta del testo consente di cogliere almeno due aspetti didatticamente interessanti:

a)    come viene rielaborata e filtrata la drammatica dimensione bellica in chiave letteraria;

b)    cosa avviene sul piano della scrittura quando a una materia incandescente sul piano umano, e   in questo caso anche su quello autobiografico, come quella della guerra si unisce una particolare disposizione dello stile, in cui la narrazione sembra far suoi i modi della cronaca.

Di Passaggio di tedeschi a Erra si propongono qui due brevi passi, dalla funzione nevralgica: rispettivamente incipit ed explicit del racconto. Questo l’attacco della narrazione:

 

A Erra il giorno 10 di settembre sulla piazza davanti al comune si fermò un’automobile. Era una macchina piccolina, scoperta, di colore giallo, con un lungo ramo d’olivo polveroso che pendeva giù da una parte. Dalla macchina scesero tre uomini con uniforme gialla, tiraron fuori un librettino rosso e tutti e tre si misero a sfogliarlo.

Era il 10 di settembre, le quattro del dopopranzo. Due giorni prima era arrivata ad un tratto la notizia dell’armistizio. Sul principio non ci credeva nessuno.[…] Fra le grida dei maiali e il suono degli zufolati, tutt’a un tratto corse la notizia ch’era finita la guerra. Ed era vero, l’aveva detto la radio. […]

Il giorno 9 non si seppe più nulla. A Erra mancò la corrente e la radio rimase silenziosa. Il 10 arrivò l’automobile gialla e i tre uomini dall’uniforme.[19]

 

La voce narrante si mimetizza sin dall’esordio assumendo il tono di chi registra i fatti in forma di cronaca, se non fosse per alcuni scarti apparentemente impercettibili. Da questi scarti si attivano dei clic che avvitano il piano orizzontale dei fatti fino a farli tornare su sé stessi sia pur con minime variazioni: «A Erra il giorno 10 di settembre sulla piazza […]. Era il 10 di settembre, le quattro del dopopranzo. Due giorni prima era arrivata a un tratto la notizia dell’armistizio […]. Il giorno 9 non si seppe più nulla […] Il 10 arrivò l’automobile gialla […]». [20] (corsivi nostri)

 

Un ritmo simile si riflette anche nelle dinamiche spaziali: la comunità di Erra, in preda ora all’entusiasmo per la fine della guerra ora alla paura per il passaggio dei tedeschi, è colta nel duplice movimento dell’assieparsi e del disperdersi, come una mandria incolpevole spinta dall’onda emotiva. C’è chi tenta un’ingenua resistenza a tale passaggio per poi ritirarsi in buon ordine, ma la gran parte di loro «non scappava più, per i campi, ma stavano a guardare a bocca aperta sull’uscio di casa».[21]

l ritmo della narrazione sembra piatto, non conosce climax, neanche quando viene ucciso un giovane e grasso tedesco ubriaco, fermatosi nell’osteria del paese, da parte di tal Antonino Trabanda, che si ritrovava a passare di lì. Tutto sembra avvenire secondo una sequenza quasi preordinata: la rappresaglia tedesca viene accolta come un evento inevitabile e in fondo coerente con quanto l’ha preceduta. Persino l’uccisione di Bisseccolo, casuale e quindi ancor più ingiusta perché insensata, rientra in una logica, anche se quella del paradosso, come traspare dall’explicit del racconto:

 

Tre ore dopo arrivava l’automobile della polizia, grigia e lucida come una trota, e due motociclisti con tanto di fucile mitragliatore. Dal paese erano scappati via tutti e s’erano sparsi nei campi, ma Giuliano della Torretta non s’era mosso, che a lui non gli piaceva di scappare, e della morte non aveva paura. Così restò ad aspettare la morte sulla soglia di casa sua, col berretto calato sugli occhi e la pipa tra i denti, ma quando venne l’ufficiale tedesco e lo pigliò per la giacca, tirò fuori ad un tratto la pistola e si mise a sparare. Per disgrazia non ne colse nessuno, e lo ammazzarono lì sulla soglia. […]

Sulla piazza li ammazzarono tutti uno dopo l’altro, Antonino Trabanda e Stondò, il brigadiere e la sorella del brigadiere. Loretuccio e il fratello del prete, e per sbaglio ammazzarono anche Bisseccolo, lui che parlava tanto bene in tedesco. Gli altri nei campi sentivano il rumore degli spari, e sussultavano col viso nell’erba, con la voglia di non tornare più a casa.[22] (corsivi nostri)

 

Di fronte a questo sistematico abbassamento di tono, non è difficile riconoscere quel particolare ritmo della prosa, quell’inconfondibile “stile Ginzburg” che l’amico Cesare Pavese, ironizzando, chiamava la “lagna Ginzburg” e che il critico Cesare Garboli paragonava alla monotonia della pioggia. In realtà, in queste pagine si crea un corto circuito notevole tra il fraseggio disadorno e solo apparentemente distratto (in realtà, sorvegliatissimo) e la drammaticità degli eventi narrati.

Persino i singoli atti di resistenza vengono abbassati alla contingenza del quotidiano, privati di valenza eroica e civile. E anche la morte violenta sembra rientrare nel ciclo naturale perdendo ogni tratto di eccezionalità.

Legittimo chiedersi e chiedere a studentesse e studenti quale sia l’effetto di questa scelta espressiva e di stile. A nostro avviso, l’esito più significativo non è - come si potrebbe concludere sommariamente - quello di normalizzare la guerra, ma piuttosto quello di metterne in risalto l’insensatezza. Per una scrittrice come Ginzburg, infatti, l’assurdo di senso in cui l’umanità precipita con la guerra trova espressione proprio nella dimensione di un quotidiano snaturato, visto con occhi altri, che lo svuotano delle sue rassicuranti abitudini per aprirvi un buco in mezzo, in cui si può sprofondare da un momento all’altro, come si evince dal finale del racconto in cui la gente di Erra non riconosce più come familiari i suoi luoghi, e ha paura di tornare nelle proprie case.

In una quinta classe si potrà approfondire questo aspetto attraverso un’attività di confronto intertestuale ricorrendo a un altro brevissimo racconto di Ginzburg, intitolato Nel pomeriggio del 9 settembre. Il testo, ricomparso tra le carte della scrittrice, può esser considerato l’embrione da cui poi, nel 1965, nascerà il racconto più compiuto, La paura.[23] In entrambi i casi le vicende sono ambientate a Pizzoli, luogo del confino dei Ginzburg fino all’armistizio. L’attacco di Nel pomeriggio è molto simile a quello del racconto Passaggio di tedeschi a Erra:

 

Nel pomeriggio del 9 settembre, a Pizzoli, paese in Abruzzo dove vivevo da circa tre anni, sulla piazza davanti alla mia casa si fermò un’automobile e ne scese un uomo in divisa color cachi, alto, bello, ricciuto, con gli occhi verdi […].

Sullo scenario di quella piazza che io avevo imparato, in tre anni, a conoscere fino all’esecrazione, comparve l’uomo in divisa color cachi, quel pomeriggio del 9 settembre.[24] (corsivi nostri)

 

Il breve racconto, dopo avere ripercorso il diffondersi dell’orrore della notizia dell’arrivo dei tedeschi in paese, torna nel finale a incentrarsi sulla situazione dell’io narrante:


C’era, nel paese, il morbillo, e anche il tifo: ma io avevo smesso d’aver paura di queste malattie, che di solito mi atterrivano, anche perché non c’era nel paese un dottore di cui fidarsi quando i bambini s’ammalavano: ma non si poteva aver paura di troppe cose insieme. Adesso, l’unica cosa di cui avevo paura, era quel tedesco bello, giovane, ricciuto e con gli occhi verdi, che s’era fermato per pochi attimi sulla piazza a parlare al ragazzo dei cavalli; e la guerra, che fino a quel giorno non avevo ben conosciuto, aveva assunto per me le fattezze di quel tedesco e il suo scenario era quella piccola piazza, sempre così tranquilla, e che avevo finito con l’esecrare perché non vi succedeva mai nulla, nulla, non vi passava mai un viso ignoto; ora il tedesco dagli occhi verdi aveva fatto di quella piazza, di tutto quello stradale che si perdeva in mezzo alle colline, qualcosa di inabitabile e mortale.[25] (corsivi nostri)

 

Anche in questo caso, ancor di più che nel finale di Passaggio, si assiste a un processo di snaturamento dei luoghi familiari, reso più potente dal contrasto tra l’orrore della guerra e la fisionomia di quel «tedesco bello, giovane, ricciuto e gli occhi verdi». Se accostiamo questo finale al racconto La paura, che diversi anni dopo torna sulla stessa situazione, si potrà verificare che il secondo testo non reca più traccia di quello che lo ha preceduto, se non in un rapido passaggio in cui si dice: «Apparvero i primi fascisti repubblicani, e s’aggiravano per il paese sparando a caso nelle vigne; e il paese sera a un tratto come guastato, pieno di rumore, di uniformi, di paglia sudicia, di gente ignota».[26]

L’espressione «qualcosa di inabitabile e mortale» del raccontino Nel pomeriggio del 9 settembre  lascia il posto a una potente metafora, che trasforma Pizzoli in un paese guastato. Questa espressione, nonostante la sua apparente ordinarietà, può dar luogo a un interessante esercizio di confronto con le sue possibili fonti. Infatti, il sintagma si rivela denso di riferimenti letterari, a partire dal v. 94 del canto XIV dell’Inferno dantesco («in mezzo mar siede un paese guasto»), in cui Virgilio lo utilizza per spiegare l’origine dei fiumi dell’oltretomba. Non meno interessante è il collegamento con il titolo The Waste Land, usato dal poeta T.S. Eliot per una delle opere più significative del ‘900, pubblicata nel 1923, a quattro anni dalle devastazioni della Prima guerra mondiale.[27]

Tanto nel caso di Dante ma soprattutto in quello di Eliot, l’immagine rinvia a un processo di degenerazione che ha investito l’umanità e dà voce alla crisi della civiltà e della cultura moderne. Dall’età dell’oro si arriva, per cadute progressive e inarrestabili, a uno stato di caos e disordine. Anche nel testo di Ginzburg, possiamo immaginare qualcosa di simile: dove passa la guerra il cambiamento che si produce intacca inesorabilmente lo sguardo, che non potrà più essere innocente, e segna la lingua, lo stile, il tono. Proprio come la scrittrice sembra confermare nel saggio Il mio mestiere, scritto nel 1949 e poi inserito nella raccolta Le piccole virtù:  

                      

M’è accaduto di conoscere bene il dolore dopo quel tempo che stavo nel sud, un dolore vero, irrimediabile e immedicabile, che ha spezzato tutta la mia vita e quando ho provato a rimetterla insieme in qualche modo, ho visto che io e la mia vita eravamo diventati qualcosa d’irriconoscibile rispetto a prima. D’immutato restava il mio mestiere, ma anche lui è profondamente falso dire ch’era immutato, gli strumenti erano sempre gli stessi ma il modo come io li usavo era un altro.[28] (corsivi nostri)

 

I segni sul muro di Maria Bellonci

Alla scrittura sulla guerra di Natalia Ginzburg affiancheremo ora un racconto di Maria Bellonci, figura di primo piano nell’organizzazione culturale del secondo ‘900, nota per l’istituzione, insieme al marito Goffredo, del Premio Strega (1947) e per il romanzo storico Rinascimento privato (Premio Strega nel 1986). Il testo che analizzeremo è Segni sul muro, che peraltro dà il titolo alla raccolta uscita postuma nel 1988,[29] in cui sono riuniti scritti di carattere vario, memorie autobiografiche e racconti a sfondo storico, pubblicati nell'arco di quarant’anni.

Anche in questo caso la narrazione si presta in aula a una lettura agevole e fertile, in virtù delle sue implicazioni storiche e culturali: il periodo dell’occupazione tedesca di Roma da un lato e la possibilità di ricostruire la poliedricità degli interessi dell’autrice. La vicenda lega infatti, con sapiente dissolvenza cinematografica, un momento autobiografico più recente a una memoria risalente al 1944, in piena occupazione tedesca a Roma.

Durante una visita agli affreschi di Raffaello in corso di restauro nelle Stanze della Segnatura in Vaticano, la protagonista coglie un dettaglio in un punto nascosto della parete: «un graffito profondamente inciso, storto e maldestro. “Martinus Lutherus” stava scritto».[30] La narratrice congettura che ne sia stato artefice un soldato lanzichenecco, accampato in Vaticano in occasione del Sacco di Roma (1527):

 

Subito lo vidi, anzi lo riconobbi. Era lui, venuto di maggio, 1527, al Sacco della città papale con i lanzi di Frundsberg, ubriaco dal sole di prima estate; lui con la sua compattezza animale, il suo riso astratto, i vuoti occhi celesti che guardavano senza vedere. Mentre Gregorio [l’aiuto del professore incaricato del restauro] parlava cadevano le mura del Vaticano, ed ero alla fontana il 4 giugno 1944.[31] (corsivi nostri)

 

Sull’immagine mentale del mercenario cinquecentesco che aveva lasciato impresso il nome di Lutero in spregio alla bellezza dell’arte e alla gloria della Roma papale, si sovrimprime, come per un cortocircuito, il ricordo di una scena vissuta sullo sfondo della città eterna, occupata questa volta dalle truppe naziste, ormai allo sbando.

 

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Intorno a una fontana un gruppo di donne cercano un’impossibile normalità: bere, lavarsi, nonostante i tedeschi, nonostante la guerra. All’improvviso, in una sera di inizio giugno, appoggiato a un muro, si staglia il profilo di «un soldato tedesco, solo. Vacillava di stanchezza, ma aveva tutte le sue armi».[32] Si avvicina per chiedere da bere, una delle donne gli tende una bottiglia piena, il soldato beve avidamente e accenna che gli americani oramai sono a Porta Maggiore e chiede, con un’ultima provocazione, se questa notizia le renda contente. La risposta delle donne alla provocazione è netta: «Sì, siamo contente, molto contente».[33] Il soldato le osserva, le donne osservano lui. Dopo quell’attimo sospeso, riprendono a fare la fila e a riempire d’acqua i secchi, mentre il soldato se ne sta lì, appoggiato al muro «solo e straniero […] così straniero che ci dimenticammo di lui».[34] Alla fine, di quell’anonimo soldato non resta che un segno sul muro, la scritta Heil Hitler, estremo tentativo di siglare il proprio passaggio nel momento della sconfitta. Il gesto del tedesco è lo stesso con cui il lanzichenecco, anonimo anche lui, quasi quattro secoli prima, aveva impresso il nome di Martin Lutero sul muro della Stanza affrescata da Raffaello.

 

Non ci soffermeremo qui sulle differenze di stile e di valore tra i racconti di Natalia Ginzburg e  quello di Maria Bellonci. Più rilevante appare cogliere l’eventuale presenza di tratti comuni tra le due scritture, nate entrambe dallo sguardo e dalla riflessione femminile sulla guerra.

Si tratta ovviamente di un’operazione delicata non solo sul piano scientifico, ma anche su quello metodologico-didattico perché necessiterebbe di una campionatura più ampia di quella proposta. Ciononostante, varrà lo stesso la pena di evidenziare alcune prospettive di ricerca che potrebbero rivelarsi utili se estese a un terreno di analisi più vasto.

La prima osservazione riguarda il cronotopo che caratterizza i due racconti. Il punto di vista femminile privilegia in entrambi i casi la quotidianità e non l’eccezionalità della guerra: uno scorcio urbano colto in un giorno come un altro; una fontana presso cui le donne sono in fila ordinata per raccogliere l’acqua necessaria per bere e per lavarsi.  Trattandosi di narrazioni femminili, si potrà dire, il dato non stupisce: nonostante tutto, la vita anche in tempi di guerra per le donne continua nella routine domestica, resa più instabile e incerta ma non annullata. La riflessione si fa più interessante quando la dimensione spaziale s’incrocia con quella temporale: tanto nei testi di Ginzburg che nel racconto di Bellonci si assiste a un’interruzione del quotidiano, che crea una sospensione del tempo. Il racconto rivela il tragico nel quotidiano di guerra, che viene per un breve segmento interrotto dalla comparsa di qualcosa di estraneo, destinato a produrre paura e turbamento ma in un’apparente immobilità come traspare da La paura:

 

Sembrerà strano, ma tutti continuarono a fare la solita vita; si vedeva passare, come prima, il signor Amodaj col suo vestito di tela avana, il cappello, il monocolo, il sorriso […] Eravamo tutti in preda al terrore, ma passeggiavamo ugualmente, avanti e indietro, lungo la strada.[35]

 

Ma mentre questa sospensione in Ginzburg segna un prima e un dopo, una cesura che non è rimarginabile,[36] nel caso del racconto di Bellonci l’irruzione della Storia (la ritirata dei tedeschi da Roma) nella cronaca (le donne alla fontana) produce un movimento circolare del tempo e della memoria, che sembra sovrapporre momenti diversi del passato in una continuità storica di cui le mura di Roma sono inconsapevoli testimoni.

 

Un altro aspetto che merita attenzione è l’immagine del nemico. Nei racconti che stiamo analizzando, sembra che lo sguardo cada fatalmente sul corpo dell’altro, di cui si studiano le fattezze, la corporatura, lo sguardo: il soldato tedesco di Passaggio di tedeschi a Erra: «era giovane e grasso, con la faccia tonda e bianca come la luna»;[37] nell’abbozzo Nel pomeriggio del 9 settembre, sempre di Ginzburg, la guerra assume le già ricordate fattezze stranianti del tedesco dagli occhi verdi. La descrizione del soldato nazista del racconto di Bellonci non è molto diversa: «Sotto la polvere era nutrito grasso, sanguigno, uno strumento di guerra ben tenuto […] era l’ultimo soldato di un esercito in ritirata, avrebbe dovuto farci pena a noi donne; ma non ci faceva pena né altro, era lontano da noi con la sua floridezza animale, le sue armi, la sua goffa astrazione».[38]

In questi racconti il rapporto con il nemico è piuttosto il rapporto straniante con l’altro, accentuato dall’alienazione linguistica. I tedeschi sono tedeschi, possono essere definiti stranieri. In nessuno dei casi analizzati compare la parola nemico. Lo sguardo che si poggia su di loro va a cercarne i tratti fisici, si sofferma sulla loro «floridezza», implicitamente contrapposta alla fame di chi subisce  la guerra, arriva persino a coglierne elementi di debolezza, che non necessariamente suscitano pietà, ma pure restituiscono una dimensione umana all’altro.

Un particolare interessante è poi dato dal ricorrere dell’immagine del vuoto. Nel racconto La paura, Natalia Ginzburg sottolinea come, dopo l’8 settembre, alla paura subentri non il coraggio ma una sensazione di vuoto:

 

Lo smettere d’aver paura non vuol dire, necessariamente, trovare coraggio. Lo smettere d’aver paura può significare, semplicemente, che la paura ci ha abbandonati; e che abbiamo in noi, al posto della paura, il vuoto. […] Ma smettendo d’aver paura, distogliamo gli occhi dalla nostra vita e li portiamo su un altro punto. E a volte, quel punto non è null’altro che il vuoto.[39]  (corsivi nostri)

 

In Segni sul muro di Bellonci, le donne che offrono da bere al soldato tedesco ne scorgono gli occhi «tra le ciglia bianche di polvere […]; erano vuoti, assolutamente vuoti, nemmeno crudeli».[40]  (corsivi nostri)

Come un refrain, questa sensazione è tanto in chi è vittima della guerra che in chi quella guerra è chiamata a combatterla; è il vuoto che ci trasforma, che rende i nostri luoghi e i nostri occhi qualcosa di guastato, di inabitabile, di mortale e insensato.

 

Il soldato siciliano e La Storia di Elsa Morante

Nel 1945 Elsa Morante scrive un racconto ambientato durante la Seconda guerra mondiale dal titolo Il soldato siciliano, poi inserito nella raccolta Lo scialle andaluso del 1953.[41] Anche Morante non partecipa direttamente alla Resistenza, ma vive però l’esperienza della fuga e della latitanza insieme al marito Alberto Moravia, inviso al regime. Il racconto morantiano si affida a una narrazione in prima persona, come nel caso di quello di Bellonci. Una prima persona in cui non è difficile intravedere una proiezione della vicenda personale dell’autrice, come nel caso dei racconti di Ginzburg.

 

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La protagonista è costretta a trovare un riparo di fortuna per una notte presso la famiglia di un carrettiere, mentre cerca di raggiungere Roma per motivi solo accennati. A differenza dei testi fin qui analizzati, Morante rinuncia a dare indicazioni cronologiche e spaziali precise, tanto che l’incipit del racconto assume l’andamento di un’epica favolosa.

 

Nel tempo che gli eserciti alleati, a causa dell’inverno, sostavano al di là del fiume Garigliano, io vivevo rifugiata in cima a una montagna, al di qua del fiume. Un giorno, per la salvezza di persone che amavo, fui costretta a un breve viaggio a Roma. Era un amaro viaggio, poiché Roma, la città dove nacqui e dove ho sempre vissuto, era per me in quel tempo una città nemica.[42]

 

Anche in questo caso è molto interessante la rielaborazione sentimentale e ideale che subiscono i luoghi: Roma, città della nascita e dell’esistenza, si è trasformata in «città nemica» perché occupata dai tedeschi e perché fatta bersaglio di bombardamenti; la Sicilia, terra del padre della protagonista, ma anche del padre naturale dell’autrice, viene invece idealizzata come un Eden originario, secondo una dinamica che assegna all’isola una connotazione simbolica molto forte, come avverrà per Procida nel romanzo L’isola di Arturo (1957).

Nel cuore di una notte piovosa, il silenzio della casa del carrettiere è interrotto dal rumore di una presenza estranea, che cerca riparo nella povera dimora: si tratta di un soldato dell’esercito italiano, che, dopo aver disertato, ora combatte contro i tedeschi, ma soprattutto cerca la morte. Non per eroismo o per ragioni ideali, ma perché non ha il coraggio di uccidersi. Il soldato racconta alla sconosciuta una storia che, sullo sfondo della guerra, annoda un passato doloroso a un presente inchiodato al rimorso per il suicidio dell’unica figlia, di cui si sente responsabile. Il soldato è siciliano come il padre della protagonista: la seconda sogna la Sicilia che non ha mai visto come si può sognare un luogo incantato; il primo è fuggito dall’isola andando incontro alla guerra per espiare i suoi sensi di colpa. Giunta l’alba e spenta la lanterna, il soldato si congeda per riprendere il suo viaggio verso la morte. Il tempo sospeso della notte si dilata nelle parole dell’uomo, lasciando alla donna il dubbio di averlo sognato. La guerra, che sembra fare solo da sfondo alla vicenda, è in realtà necessaria perché si compia il destino individuale, diventando un inesorabile mezzo di espiazione, che annulla ogni forma di incanto e di innocenza e che ci fa precipitare nella storia come per effetto di una caduta inesorabile. 

 

Il tema della guerra ritorna prepotente in una delle opere più famose di Elsa Morante: La Storia del 1974, romanzo pubblicato a quasi trent’anni dalla fine del conflitto. Crediamo sia utile, soprattutto in un quinto anno, concludere il nostro percorso con la lettura di uno degli episodi più famosi del romanzo: il bombardamento del quartiere romano di San Lorenzo avvenuto nel luglio del 1943, di cui si riportano qui alcuni estratti. (per l’intero brano esaminato:

 

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[Ida e Useppe] Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse: “Lioplani”. E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato in una mitraglia di frammenti.[43]

 

Anche in questo caso, nel tempo della vita quotidiana «non preavvisato da nessun allarme», irrompe l’evento destinato a cambiare i connotati al paesaggio:

 

Al cessato allarme, nell’affacciarsi fuori di là, si ritrovarono dentro una immensa nube pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra corone di fiori sfrante […].[44]

 

Lo sguardo scorre sulle montagne di macerie, sul mondo prima vegetale (gli alberi) e poi animale (il cavallo). La disumanizzazione coinvolge le cose, gli animali e non risparmia neanche i morti (il passo successivo fa cenno alla distruzione del cimitero del Verano, che è prossimo a San Lorenzo). Solo a questo punto si cominciano a vedere gli esseri umani superstiti, che formano una folla crescente «che si aggirava come su un altro pianeta. Certuni erano sporchi di sangue. Si sentivano delle urla e dei nomi, oppure: “anche là brucia!” “dov’è l’ambulanza?” Però anche questi suoni echeggiavano rauchi e stravaganti, come in una corte di sordomuti». [45] (corsivi nostri)

 

Il bastardello Useppe, figlio di Ida, nato dalla violenza subita da un soldato tedesco, cerca la sua casa , ma:

 

era difficile riconoscere le strade familiari. Finalmente, di là da un casamento semidistrutto, da cui pendevano i travi e le persiane divelte, fra il solito polverone di rovina, Ida ravvisò, intatto, il casamento con l’osteria, dove andavano a rifugiarsi le notti degli allarmi [...].

Il loro casamento era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta, spalancata sul vuoto. Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva, fra la nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua rimasti in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare.[46]  (corsivi nostri)

 

La città, immersa nella sua vita di sempre (perché in fondo «era risaputo che, per un patto segreto di Ciurcìl col papa, Roma era decretata città santa e intangibile, e le bombe, qua, non ci potevano cascare»),[47] diventa, in pochi interminabili secondi, «un terreno rimosso che pareva arato, e che fumava».[48] E nel vivo dell’apocalisse, «nella enorme lacerazione della terra»,[49] viene d’improvviso a mancare la consapevolezza temporale: «[Ida] non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile».[50] (corsivi nostri)

 

Anche in questo caso andranno isolati due dettagli importanti della narrazione.

Il primo è dato dall’immagine del casamento distrutto che si staglia come una quinta teatrale, spalancata sul vuoto. Tornano le macerie, i detriti delle case, correlativo oggettivo delle umane esistenze appese alla guerra, e torna una delle parole-chiave del racconto femminile di guerra: vuoto l’animo di chi non riesce più nemmeno a provare paura, vuoti gli occhi di chi la combatte e ne riflette gli orrori senza più saperne provare, vuoto il teatro dell’esistenza, a reclamare inutilmente qualcosa che possa dare senso a tanta distruzione.

Il secondo dettaglio ha di nuovo a che fare con la dimensione temporale: l’orologetto di Ida si è fermato in un momento imprecisato del bombardamento. Si tratta ancora una volta di un particolare non casuale: quando l’orologio di Ida si rompe a causa del bombardamento, anche il tempo si ferma, interrompe per sempre e irreversibilmente l’esistenza degli individui, come nei racconti di Ginzburg. E di questa frattura le macerie generate dalla guerra diventano un emblema destinato a resistere e a perpetuarsi in quello che Morante chiama uno «scandalo che dura da diecimila anni».

 

Al termine di queste letture, crediamo si possa tirare un primo, per quanto provvisorio bilancio. La narrazione del tempo di guerra fatta dal punto di vista femminile ha alcuni tratti peculiari (l’interruzione del quotidiano, la sospensione del tempo, lo snaturamento dei luoghi abituali, lo sguardo sul nemico - sostantivo mai utilizzato però nei testi esaminati - quasi a ricercarne i tratti umani) e, nello stesso tempo, è in grado di restituirci un’immagine della guerra diversa, ma non per questo meno tragica e universale nell’esplorare il dolore e l’effetto di straniamento che produce irrompendo nell’ordinarietà delle vite. L’assurdo della guerra trova modo di esprimersi, sia pur con tonalità di stile diverse da autrice ad autrice, a partire dal linguaggio e dalla consapevolezza che, anche quando tutto sarà finito, le parole non potranno più essere usate alla stessa maniera perché, al pari delle rovine che la furia bellica lascia dietro di sé, anche quando saranno riedificate dovranno fare i conti con la distruzione del significato e ripartire da quel vuoto per tornare a dire.

Vorrei concludere questo percorso con una considerazione: mai come negli ultimi mesi siamo stati assediati da scene di bombardamenti, di vite distrutte di uomini e animali, di paesaggi straziati dalla morte. Cosa resta di tutto questo? Restano le macerie a parlare di un tempo interrotto, di una ferita che non potrà mai rimarginarsi, ma soprattutto resta il linguaggio della letteratura, che su di esse è chiamato a modellarsi senza perdere mai però di umanità.

 

 

10 luglio 2023

 


[1] Si cita qui solo un titolo di recentissima pubblicazione: Benedetta Tobagi, La Resistenza delle donne, Torino, Einaudi, 2022.

[2] Natalia Ginzburg, Lettera in occasione dell’8 marzo 1984, in «Minerva: l’altra metà dell’informazione», leggibile al seguente link: https://poetarumsilva.com/2019/03/08/lettera-di-natalia-ginzburg-in-occasione-dell8-marzo-1984/

[3] Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, in Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Milano, Mondadori, «I Meridiani»,1990, 2 voll., vol. II, pp. 1539-54.

[4] Per un approfondimento su queste due filosofe, esuli per sfuggire alle persecuzioni razziali, si veda Laura Sanò, Donne e violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, Milano, Mimesis, 2012.

[5] Virginia Woolf, Le tre ghinee, introduzione di Luisa Muraro, traduzione di Adriana Bottini, Milano, Feltrinelli, 1980 (ed. originale: Three Guineas, London, Hogarth Press, 1938; tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1975 per le edizioni La Tartaruga) .

[6] Cristina Gragnani, L’altra sponda del conflitto: le scrittrici italiane e la prima guerra mondiale in «Allegoria74» (rivista online) al link https://www.allegoriaonline.it/PDF/936.pdf

[7] Tra le opere di Joyce Salvadori Lussu merita evidenza Fronti e frontiere, che narra con stile asciutto e lucido la sua esperienza di esule allo scoppio della guerra e il suo apporto in clandestinità alla Resistenza dopo l’8 settembre 1943. Il libro, pubblicato per la prima volta nel 1945, è stato recentemente riedito: Joyce Salvadori Lussu, Fronti e frontiere, Roma, Abbot, 2021.

[8] Interessante per una visione di insieme può risultare lo studio di Valeria P. Babini, Parole armate. Le grandi scrittrici del Novecento italiano tra Resistenza ed emancipazione, Milano, La Tartaruga, 2018, in cui si prendono in rassegna figure come Anna Banti, Maria Bellonci, Alba de Céspedes e Natalia Ginzburg.

[9] Il taglio scelto ha portato a non prendere in esame in questa sede le scritture esplicitamente autobiografiche, in cui le autrici abbiano trasposto la propria esperienza in guerra come partigiane (ci sarebbero dovuti essere almeno i nomi delle già menzionate Ada Gobetti e Joyce Lussu, e di Giovanna Zangrandi) o i loro ricordi di testimoni (ad esempio, la Miriam Mafai di Pane nero).

[10] Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 8.

[11]  Id., La letteratura italiana sulla Resistenza, in Saggi (1945-1983), a cura di M. Barenghi, vol.I, Milano, Mondadori, 1995, p. 1493.

[12]  L’amicizia tra Natalia e Calvino risale al periodo in cui, nell’immediato secondo dopoguerra, entrambi facevano parte della redazione della casa editrice Einaudi insieme, tra gli altri, a Pavese e Vittorini.

[13] Natalia Ginzburg, Il figlio dell’uomo in Opere, Milano, Mondadori, I Meridiani, 2013, vol. I, p. 835.

[14] Natalia Ginzburg, Il figlio dell’uomo, in Opere, cit., p. 836.

[15] Natalia Ginzburg, Il figlio dell’uomo, in Opere, ibidem.

[16] In Tutti i nostri ieri gli eventi della guerra sono inseriti all’interno di un arco temporale più ampio; in Le voci della sera sono rievocati non in modo diretto ma attraverso il filtro della memoria.

[17] Fra questi, oltre a Passaggio di tedeschi a Erra del 1945, che qui viene preso in esame, ricordiamo Inverno in Abruzzo (1944) e Cronaca di un paese (1945). Fa eccezione il racconto La paura, che reca invece la data del 16 maggio 1965, e in cui viene rievocata la fuga da Pizzoli di Natalia e dei figli su un camion tedesco. Tutti i testi qui menzionati con appendici e notizie storico-filologiche sono compresi nella raccolta Natalia Ginzburg, Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, a cura di D. Scarpa, Torino, Einaudi, 2016.

[18] Il racconto fu ripubblicato varie volte su «l’Unità» con titoli lievemente diversi (Nazisti a Erra, il 16 giugno 1951; Quando i tedeschi passarono a Erra, il 6 luglio 1951).

[19] Natalia Ginzburg, Passaggio di tedeschi a Erra in Un’assenza, cit., p. 73.

[20] Natalia Ginzburg, Passaggio di tedeschi a Erra in Un’assenza, ibidem.

[21] Natalia Ginzburg, Passaggio di tedeschi a Erra in Un’assenza, cit., p. 77.

[22] Natalia Ginzburg, Passaggio di tedeschi a Erra in Un’assenza, cit., p. 79.

[23] Nel pomeriggio del 9 settembre figura in appendice a Natalia Ginzburg, Un’assenza, cit., pp. 258-59; il racconto La paura è compreso nella medesima raccolta alle pp. 181-187.

[24] Natalia Ginzburg, Nel pomeriggio del 9 settembre, in Un’assenza, cit., p. 258.

[25] Natalia Ginzburg, Nel pomeriggio del 9 settembre, in Un’assenza, cit., p. 259.

[26] Natalia Ginzburg, La paura, in Un’assenza, cit., p. 186.

[27] Per il titolo di Eliot sono state proposte diverse traduzioni: oltre alla più nota, La terra desolata, troviamo La terra devastata o proprio La terra guasta. La «terre gaste» (terra guasta) indicava nei romanzi medievali un territorio sterile e privo di vita, che i cavalieri dovevano attraversare per conquistare il Santo Graal.

[28] Natalia Ginzburg, Il mio mestiere, in Opere, cit., p. 853.

[29] Maria Bellonci, Segni sul muro, Milano, A. Mondadori, 1988, pp. 140-44.

[30] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, cit., p. 142.

[31] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, ibidem.

[32] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, cit., p. 143.

[33] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, cit., p. 144.

[34] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, ibidem.

[35] Natalia Ginzburg, La paura, in Un’assenza, cit., p. 186.

[36] Il racconto La paura si chiude infatti sulla metamorfosi che la guerra produce nel nostro modo di guardare la realtà: «e dissi addio al paese perché pensavo che non l’avrei mai riveduto, o che certo non l’avrei riveduto con gli occhi d’allora.» (op. cit., p. 144).

[37] Natalia Ginzburg, Passaggio di tedeschi a Erra in Un’assenza, cit., p. 78.

[38] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, cit., pp. 143-44.

[39] Natalia Ginzburg, La paura, in Un’assenza, cit., p. 186.

[40] Maria Bellonci, Segni sul muro, in Segni sul muro, cit., pp. 143-44.

[41] Elsa Morante, Il soldato siciliano, in Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Milano, Mondadori, «I Meridiani», vol. I, pp. 1509-15.

[42] Elsa Morante, Il soldato siciliano, in Opere, cit. p. 1509.

[43] Elsa Morante, La Storia, in Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Milano, Mondadori, I Meridiani,1990, vol. II, pp. 450-51.

[44] Elsa Morante, La Storia, in Opere, cit.,  p. 452.

[45] Elsa Morante, La Storia, in Opere, cit., p. 453.

[46] Elsa Morante, La Storia, in Opere, ibidem.

[47] Elsa Morante, La Storia, in Opere, cit., p. 445.

[48] Elsa Morante, La Storia, in Opere, cit., p. 451.

[49] Elsa Morante, La Storia, in Opere, cit., p. 458.

[50] Elsa Morante, La Storia, in Opere, cit., p. 452.