Un intervento sull'insegnamento dell'italiano nel biennio non può non fare i conti, in via preliminare, con il documento tecnico allegato al regolamento dell'obbligo scolastico emanato dal Ministro Fioroni il 3 agosto di quest'anno. E di tale documento, a scanso di equivoci, vanno subito evidenziati due elementi di pregio:
1. si torna a parlare di "obbligo" scolastico fino ai sedici anni;
2. si ipotizza un biennio unitario per la scuola media superiore.
Inoltre va tenuto conto che il documento
1. non ha pretese di esaustività: non contiene i nuovi programmi, ma ha solo la funzione di tracciare sommariamente un 'profilo in uscita', al termine dei primi dieci anni di scuola, individuando dei saperi minimi, irrinunciabili sia in vista della prosecuzione degli studi sia nel caso di abbandono del percorso formativo;
2. di conseguenza non consente di desumere finalità, obiettivi e contenuti propri della scuola secondaria di primo grado, da un lato, e del biennio della secondaria di secondo grado, dall'altro.
Se, dunque, è evidente che il documento ministeriale va assunto esclusivamente come punto di partenza per una ridefinizione dei programmi di là da venire, può essere ragionevole giudicarlo con qualche indulgenza.
Certo non sorprende – ed è sostanzialmente condivisibile – la priorità conferita all'educazione linguistica e, di conseguenza, il ruolo sussidiario che verrebbe ad assumere, nel biennio della scuola secondaria di secondo grado, l'educazione letteraria.
Tuttavia diverse e di non poco conto sono le perplessità.
È difficile sottrarsi all'impressione di una funzione decisamente riduttiva, marginale assegnata all'educazione letteraria, e tale marginalità – a mio avviso – si configura soprattutto in termini qualitativi: siamo davvero convinti che l'educazione letteraria debba esaurirsi nella conoscenza dei "principali generi letterari" e del "contesto storico di riferimento di alcuni autori e opere", e soprattutto che tali conoscenze siano necessarie e sufficienti per "cogliere i caratteri specifici di un testo letterario"?
La letteratura viene considerata semplicemente come una delle diverse tipologie testuali, facilmente omologabile alle altre. Tuttavia se, per quanto riguarda le altre tipologie testuali e i loro principi organizzativi, dalla relazione che intercorre tra contenuti e abilità/capacità si evince chiaramente la funzione formativa dei contenuti appresi – la loro immediata 'spendibilità' nella vita concreta del futuro cittadino –, nel caso della letteratura il nesso tra contenuti e abilità/capacità sembra autoreferenziale.
Sorprende non poco che in un'epoca come la nostra – quando cioè, come qualcuno ha detto, l'immaginario ha bisogno di tutte le lingue del mondo, perché è più che mai urgente la conoscenza delle altre culture e il dialogo con le stesse, – si avverta il bisogno di evidenziare l'opportunità di un "particolare riferimento alla tradizione italiana" nello studio dei generi letterari.
Quello che non è chiaro, insomma, è quale sia la funzione specifica della letteratura nell'ambito dell'insegnamento dell'italiano nel biennio della scuola media superiore. In altri termini, non è chiaro a cosa serva la letteratura.
È solo per un dovere 'enciclopedico' che bisogna includere anche la letteratura tra le diverse tipologie testuali?
È solo la convinzione che l'identità nazionale sia consegnata ai testi della nostra tradizione letteraria, a far considerare irrinunciabile la lettura di quei testi?
Se l'obiettivo primario dell'insegnamento dell'italiano deve essere quello di fornire "apprendimenti di base", "competenze chiave" anche – e, direi, soprattutto – allo studente che dopo il biennio potrebbe abbandonare gli studi, quale giovamento potrebbe ricavare quest'ultimo dalla casuale somministrazione di 'pillole' di letteratura?
E quanto può servire alla stessa comprensione di un testo letterario la prospettiva unica dei generi, che notoriamente nelle antologie del biennio, per eccesso di semplificazioni, si risolve in uno sterile campionario di modelli teorico-formali, di griglie normative entro cui classificare i testi letterari?
Solitamente l'educazione letteraria nel biennio si giustifica per la sua propedeuticità allo studio della storia della letteratura previsto nel successivo triennio. E, in vista di tale obiettivo, ha il compito di fornire agli studenti gli strumenti necessari non solo per capire e spiegare, ma anche per comprendere i testi[1]. Tuttavia, ferma restando l'imprescindibilità di tale funzione, sono convinto che la letteratura possa avereun ruolo insostituibile proprio nella formazione di base: possa fornire, cioè, un contributo prezioso allo sviluppo delle capacità linguistiche e ragionative.
Non v'è dubbio che educare alla lettura di un testo letterario significhi fondare le basi per una lettura consapevole, in cui, cioè, al piacere emotivo si sostituisca progressivamente il piacere dell'intelligenza. «Pensare che i testi parlino da soli, al di là e al di fuori di ogni possibile mediazione, è un'idea tanto vecchia quanto ingenua e intimamente balorda», ha scritto giustamente Mario Lavagetto, sottolineando che «a leggere si impara e … a leggere si insegna»[2]. Tuttavia va altresì evidenziato che insegnare a leggere significa non solo fornire conoscenze e abilità 'tecniche': significa semmai fare in modo che quelle conoscenze e abilità risultino funzionali alla comprensione del testo. Un uso ossessivo di griglie e schemi di analisi non serve a garantire la centralità del testo, ma solo ad allontanare irrimediabilmente da esso il lettore.
E invece il compito dell'insegnante di lettere deve essere quello di favorire un incontro, di coinvolgere i ragazzi in un'appassionante ricerca del senso. Si tratta, cioè, di valorizzare al massimo innanzitutto l'atteggiamento etico che l'approccio ad un testo letterario richiede. E al tempo stesso operare delle scelte, sul piano metodologico e contenutistico, che rafforzino l'idea della letteratura come un bene da salvare «non solo per la sua identità disciplinare, ma proprio per la sua funzione di cemento del tessuto sociale, di ricostituzione di un rapporto civile»[3].
Possiamo considerare definitivamente acquisito il nesso inscindibile fra educazione linguistica e testualità. La stessa riflessione sulla lingua non può che essere 'con-testuale': va rimotivata, cioè, all'interno della prospettiva della coerenza e della capacità comunicativa di un testo, poiché non ha più senso continuare a proporre un'idea di lingua astratta dai suoi usi funzionali, avulsa da situazioni comunicative concrete. Si tratta semmai di sostituire ad una grammatica prescrittiva che si avvale di procedimenti deduttivi, l'idea di una grammatica esplicativa tutta da costruire progressivamente ovvero un modello di spiegazione dei fenomeni osservati e prodotti, che richiede – e proprio per questo promuove – lo sviluppo delle capacità di astrazione e di generalizzazione.
La nozione di testo va assunta a fondamento della struttura formativa della disciplina in quanto veicola un'idea di unità complessa: rinvia ad un insieme di relazioni di dipendenza tra elementi, ad un tessuto interdipendente e interattivo fra le parti e il tutto, ad un rapporto organico tra forma e contenuto. Pertanto operare nell'ambito di una dimensione testuale significa sollecitare l'attivazione di una molteplicità di processi logici, cognitivi, linguistici, finalizzati a cogliere (o ad esprimere) la complessità del messaggio: significa sviluppare la capacità di organizzare le conoscenze, di mettere in relazione e in contesto le informazioni, di compiere inferenze.
È evidente, però, che tutto questo non richiede necessariamente il ricorso alla letteratura: quanto si è detto a proposito dell'educazione linguistica e della nozione di testo conserva la sua piena validità anche in ambiti estranei a quello letterario. Pertanto si tratta di chiarire le peculiarità che distinguono la letteratura dalle altre tipologie testuali e che possono risultare particolarmente efficaci ai fini dell'educazione linguistica e, più in generale, sul piano formativo. Non si vuole con questo suggerire un uso meramente strumentale della letteratura, ma al contrario si intende rifondarne il ruolo – a mio avviso, insostituibile –, salvaguardandone il valore specifico – che può diventare un 'valore aggiunto' – nell'ambito degli 'apprendimenti di base': «Se le parole avessero un senso solo, quello del dizionario, se una seconda lingua non venisse a sconvolgere e a liberare "le certezze del linguaggio", non ci sarebbe, infatti, letteratura»[4], ha scritto Roland Barthes.
Leggere un testo letterario significa in primo luogo fare esperienza di una "lingua plurale", esplorare le possibilità di significazione della parola. Per questo la letteratura esige una particolare attenzione: quella di chi non si ferma alla superficie, ma scruta le parole nel profondo, ne coglie la ricchezza di sfumature e le implicazioni che schiudono trame più complesse di significati.
Se dunque, come sostiene Raimondi, la letteratura «costituisce il momento inventivo e insieme riflessivo del linguaggio comune»[5], essa può rappresentare il luogo privilegiato di un'educazione linguistica intesa come superamento del senso comune, esplorazione di un 'oltre' rispetto alla rigida funzione descrittiva e/o definitoria comunemente assegnata alle parole. La letteratura schiude i territori della creatività del linguaggio, consente di disegnare, attraverso le parole, le mappe dell'immaginario. Solo la letteratura, dunque, può trasmettere agli studenti un'idea del linguaggio come spazio di invenzione e di libertà e al tempo stesso farli riflettere sul rapporto fra le parole e la realtà che si intende rappresentare. La letteratura può essere il luogo in cui interrogare criticamente il linguaggio «circa il modo di presenza di ciò che esso dice nelle parole con le quali esso lo rappresenta»[6].
Con questo non intendo affatto sostenere un'idea di educazione linguistica particolarmente sofisticata, ma solo richiamare l'attenzione su una questione di metodo: un testo letterario richiede esattezza d'osservazione, attenzione al dettaglio, e al tempo stesso individuazione di connessioni formali volte a creare rapporti, a definire analogie e differenze. E pertanto può fungere da campo operativo in cui lo studente ha l'opportunità di imparare simultaneamente a percepire il particolare e a vedere l'insieme, a creare una costellazione di astrazioni, ad istituire nuovi sistemi di relazioni, a riconoscere i nodi problematici.
Fare educazione linguistica attraverso la letteratura, dunque, significa anche insegnare a ragionare. Perché la letteratura abitua a pensare le parole e a fare dell'esperienza delle parole un'avventura del pensiero.
Nessuno più degli scrittori ha interrogato la legittimità della parola nella sua duplice funzione di verità e finzione, espressività e artificio, sicurezza e inquietudine, con il rovello che essa può essere trasparenza intima quanto tenebra e menzogna. La parola della letteratura si porta dentro la sua critica, la sua capacità di riflessione. È una parola suggestiva che diventa pensiero, a fronte dell'avvolgente rumore contemporaneo in cui troppo spesso la parola suggestiva che ascoltiamo tende a diventare un non-pensiero[7] .
Leggere un testo letterario è dunque un'operazione particolarmente complessa anche perché complesso è l'uso che in quel tipo di testo viene fatto del linguaggio. Pertanto rivendicare, nell'ambito dell'educazione di base, la funzione indispensabile e insostituibile dei testi letterari – proprio per le loro implicazioni di carattere linguistico e metodologico – può costituire di per sé una possibile risposta a quella "sfida di complessità"[8] che ci viene da questa nostra era della globalizzazione, e può fornire al tempo stesso un contributo non secondario a quella riforma paradigmatica del pensiero – e, analogamente, dell'insegnamento – auspicata da Morin.
Ma è soprattutto in un altro senso che la letteratura può assolvere un'importante funzione nell'ambito di una riforma dell'insegnamento che tenga conto dei nuovi problemi posti delle irreversibili interdipendenze createsi a livello planetario tra le società e le culture. Dal documento Fioroni si evince la convinzione – tutt'altro che latente – che saper comunicare significhi anche saper comprendere (donde la priorità assegnata all'asse dei linguaggi ovvero alle competenze linguistiche). Al contrario, tale convinzione è frutto di un equivoco: una comunicazione corretta produce intelligibilità ma non necessariamente comprensione. Morin giustamente ha distinto due tipi di comprensione: una "intellettuale o oggettiva" ed una "umana intersoggettiva".
Comprendere significa intellettualmente apprendere insieme, com-prehendere, cogliere insieme (il testo e il suo contesto, le parti e il tutto, il molteplice e l'uno). La comprensione intellettuale passa attraverso l'intelligibilità e la spiegazione.
[…] La spiegazione …è insufficiente per la comprensione umana.
Questa comporta una conoscenza da soggetto a soggetto. […] L'altro non è soltanto percepito oggettivamente, è percepito come un altro soggetto con il quale ci si identifica e che viene identificato con sé, un ego alter che diventa alter ego[9].
La comprensione richiede empatia, apertura, generosità, rispetto, e secondo Morin l'educazione del futuro deve essere innanzitutto educazione alla comprensione: le culture devono imparare le une dalle altre, proprio perché «comprendere è anche, continuamente, apprendere e ri-apprendere»[10]. Implica, cioè, la disponibilità a rimettersi in discussione attraverso il confronto con l'altro.
Lo studio della letteratura presenta proprio nel suo statuto epistemologico tanto l'idea della "comprensione intellettuale" ("cogliere insieme il testo e il suo contesto, le parti e il tutto, il molteplice e l'uno") quanto l'idea della comprensione "intersoggettiva" ovvero l'attenzione per l'alterità. Lo ha affermato chiaramente Orlando quando ha scritto che «il rispetto con cui ci avviciniamo ad un testo può modellarsi, eticamente, sul rispetto dovuto all'altro»[11], e lo ha ribadito Luperini, il quale ha aggiunto che tale attenzione è senza dubbio connaturata al nostro lavoro – 'naturalmente' aperto all'extraletterario e all'interdisciplinarità – e che tra le componenti interdisciplinari del nostro impegno didattico «non potrà mancare la dimensione interculturale»[12].
Di recente Raimondi, nel sottolineare il fondamento etico della lettura, proprio per la particolare relazione con l'altro che essa comporta, ha scritto:
l'oggetto testuale torna a acquisire il volto non comparabile e unico di un altro soggetto, irriducibile a ogni tentativo di equivalenza che non sia quella bachtiniana del dialogo e del suo pluralismo asimmetrico [13].
È importante non perdere mai di vista questo aspetto: quando proponiamo agli studenti la lettura di un testo letterario, non possiamo non prestare particolare attenzione al valore etico che quell'incontro può e deve avere. La lettura richiede disponibilità ad entrare in relazione con l'altro, esige una capacità di ascolto e di comprensione (esattamente nel duplice senso indicato da Morin).
Leggere significa fruire potenzialmente di una vita moltiplicata, vivere indirettamente molte vite diverse: significa fare esperienza del racconto di un altro che diventa poi sempre un altro racconto, nel momento stesso in cui il lettore gli presta la sua voce, incarnandone l'irriducibile alterità. L'esperienza della lettura è l'esperienza dell'incontro con il diverso da sé, con un altro che non può essere assimilato ma con cui si può solo entrare in rapporto. Ed è questo, a mio avviso, uno dei significati più profondi che l'educazione letteraria è chiamata a veicolare: la possibilità di sperimentare la propria identità «come movimento e tensione verso l'alterità e la differenza»[14]. Un movimento e una tensione che significano dialogo ovvero apertura alla comprensione dell'altro per capire di sé qualcosa di nuovo. La letteratura deve diventare il luogo privilegiato del dialogo, del riconoscimento, dell'alterità: il luogo in cui identità e pluralità possono darsi senza annullarsi reciprocamente.
Forse, però, tutto questo non basta ad esaurire i nostri compiti. Perché l'educazione letteraria diventi soprattutto una "educazione all'altro", non sono sufficienti soltanto le sue caratteristiche per così dire "statutarie": sono assolutamente irrinunciabili delle scelte precise di carattere tematico. Scelte che richiedono una particolare attenzione, perché i testi non siano destorificati e ridotti ad una mera funzione documentaria. Il tema deve poter funzionare come un prisma, attraverso cui cogliere i fondamentali principi organizzativi del testo e al tempo stesso i necessari collegamenti con l'ideologia dell'autore e con la storia culturale. Un prisma attraverso il quale il lettore può osservare lo spettro dei significati di un testo e che può essere opportunamente orientato verso l'attualizzazione: può garantire «un aggancio efficace con il vissuto dei giovani»[15], sollecitare risposte alle loro domande di senso.
E proprio lavorando sui temi, l'istanza dialogica che informa di sé il rapporto lettore/testo può essere ulteriormente moltiplicata e resa più significativa attraverso la costruzione di percorsi tematici entro cui correlare testi appartenenti ad autori e/o ad epoche e/o a contesti culturali diversi.
L'approccio intertestuale contribuisce a rendere l'idea della letteratura come luogo del molteplice, come espressione di una pluralità complessa: consente di far dialogare i testi tra loro, istituendo un confronto tra differenti visioni del mondo, tra diversi modi di mettere in forma una determinata esperienza del mondo, tra diverse concezioni della letteratura stessa, tra diverse culture. E se i percorsi sono strutturati lungo un asse diacronico, il principio dialogico interviene a coinvolgere anche le diverse generazioni e/o epoche storiche. Un tema, un topos, possono assumere un rilievo e un senso diverso anche in relazione alla storicità di chi li riusa e li risignifica. E in questo modo il percorso serve a far capire che il senso risiede nel rapporto dinamico, intrinsecamente dialettico, tra passato e presente: serve a trasmettere una visione strutturalmente aperta della storia «come un agone sempre in corso, mai finito e mai deciso una volta per tutte[16]», in cui il vecchio è mutevolmente definito dal nuovo.
Nel dialogo fra i testi il lettore può vedere rispecchiato il suo stesso rapporto con il testo: può capire che leggere è sempre un ri-leggere, una attribuzione di senso in base al proprio punto di vista.
La letteratura si configura così come un universo non solo plurale ma anche mobile, in cui l'interrogazione regna sovrana e le risposte non sono mai definitive: in cui la ricerca del senso è affidata al dialogo, che significa apertura, disponibilità alla comprensione dell'altro, capacità di mettere e di mettersi in discussione, rifiuto di certezze precostituite. E questo la rende assai preziosa, per non dire insostituibile, per chi è chiamato ad insegnare italiano nel biennio della scuola superiore.
La vera grande funzione educativa della letteratura è racchiusa in quel nucleo vitale dell'umanesimo che, come ha scritto Said, coincide con la nozione di "critica democratica". E solo in questo senso, a mio avviso, si può intendere il "nuovo umanesimo" recentemente invocato – non senza qualche ambiguità – a proposito della riforma dei programmi scolastici. Un "nuovo umanesimo" non può fondarsi su un'idea di tradizione intesa come qualcosa di immobile nel tempo, che si trasmette pacificamente e si eredita in modo acritico, ma al contrario deve assumersi il difficile compito di ribadire ad un tempo la necessità e la problematicità della persistenza della tradizione: deve farsi carico della fatica di riconquistarla e rivitalizzarla a partire dalle domande e dai bisogni del presente. Come ha scritto Said,
l'umanesimo è l'esercizio delle facoltà di ognuno, attraverso il linguaggio, per capire, reinterpretare e cimentarsi con i prodotti della lingua nella storia, in altre lingue e in altre storie. La sua grande rilevanza per me oggi consiste nel fatto che non è un modo per consolidare e affermare quello che "noi" abbiamo sempre saputo e sentito, ma piuttosto un mezzo per interrogare, mettere in discussione e riformulare ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codificate. Incluse quelle contenute nei capolavori archiviati sotto la rubrica "classici"[17].
Note:
[1]Cfr. R. Luperini, Il dialogo e il conflitto, Laterza, Bari-Roma 1999, pp. 20-25.
[2]M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Einaudi, Torino 2005, pp. 81-82.
[3]G. Ferroni, I confini della critica, Guida, Napoli 2005, p. 76.
[4]R. Barthes, Critica e verità, Einaudi, Torino 1985, p.
[5]E. Raimondi, Un'etica del lettore, Il Mulino, Bologna 2007, p. 29.
[6]M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1978, p. 95.
[7]E. Raimondi, op. cit., p. 56.
[8]E. Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 6.
[9]E. Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001, pp. 98-99.
[10]Ivi, p. 108.
[11]F. Orlando, Teoria della letteratura, letteratura occidentale, alterità e particolarismi, in U. M. Olivieri (a cura di), Un canone per il terzo millennio, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 78.
[12]R. Luperini, La fine del postmoderno, Guida, Napoli 2005, p. 60.
[13]E. Raimondi, cit., pp. 36-37.
[14]Ivi, p. 18.
[15]R. Luperini, Dalla critica tematica all'insegnamento tematico della letteratura: appunti per un bilancio, in Allegoria, n. 44, anno XV, nuova serie 2003, p. 120.
[16]E. Said, Umanesimo e critica democratica, Il Saggiatore, Milano 2007, p. 55.
[17]Ivi, p.57.