Monica Manzolillo - “Learning is something you do”

La performance dello studente nell’apprendimento della letteratura

Il concetto di “performativo” in ambito letterario e nella didattica della letteratura

 

Sviluppato negli anni cinquanta dal filosofo britannico J. L. Austin, il concetto di linguaggio “performativo”, inteso come potenzialità intrinseca della lingua non solo di descrivere ma anche di compiere azioni, è stato accolto con favore anche dalla critica letteraria. Come afferma J. Culler, la nozione di performativo aiuta ad evidenziare come il discorso letterario crei lo stato di cose a cui si riferisce in molteplici accezioni. In primo luogo, facendo esistere personaggi, azioni e situazioni ma anche, e soprattutto, dando vita ad idee e concetti. La nozione di amore romantico, ad esempio, è in larga parte una creazione letteraria, ed è infatti ben nota la massima di La Rochefoucauld secondo la quale nessuno avrebbe mai pensato di essere innamorato se non ne avesse letto in proposito nei libri.

La natura performativa dell’evento letterario è duplice perché, se da un lato rinvia all’atto specifico della creazione dell’opera, dall’altro implica la capacità di produrre alterazioni significative nel modo di pensare e di sentire. La nozione di letteratura come “performativo” la colloca tra gli atti del linguaggio “che fanno esistere le cose nominate e che, dunque, trasformano il mondo” (J. Culler: 31). Mettendo in relazione il performativo con le convenzioni del genere e con l’importanza dell’uso di una forma codificata o reiterabile per creare atti che diano significativamente origine a qualcosa, Jacques Derrida sottolinea che in letteratura, così come nella lingua, le categorie del performativo e del constativo si presentano sempre in una combinazione complessa. È solo riprendendo norme e convenzioni che l’opera letteraria può produrre alterazioni significative nelle forme e nel modo di pensare, anche se la sua performatività non rimane un atto singolo compiuto una volta per tutte.

Il concetto di performativo presenta una serie di questioni essenziali per la teoria letteraria e dunque anche per le problematiche connesse alle modalità di trasmissione del sapere letterario. Secondo R. Downing, il crescente interesse verso i “genres of teaching practices” deriva della necessità diffusamente avvertita nel mondo accademico di mettere in relazione la teoria letteraria con le pratiche didattiche in modo tale che le seconde siano essenzialmente l’applicazione pratica delle prime. Se il post-modernismo e il post-strutturalismo sono stati dei “linguistic turns”, si assiste oggi all’esigenza di un “pedagogic turn”, dal momento che l’analisi del modo in cui le relazioni personali e sociali vengono costruite non può prescindere dalla riflessione su come queste vengono trasmesse. I “Cultural Studies”, ad esempio,  hanno ormai da tempo messo in discussione le istituzioni che ritengono di produrre conoscenza “oggettiva” ed evidenziato ampiamente il nesso tra conoscenza, potere e politica, ma molto spesso questo tipo di critica ha finito per “istituzionalizzarsi” a sua volta all’interno di strutture tradizionali di trasmissione delle conoscenze. Per i “cultural pragmatists”, bisogna invece riflettere su cosa avviene quando la teoria viene applicata nel contesto pratico  “of classroom lore where theory, research, and pedagogy are brought together” (R. Downing: 13), dal momento che la teoria resta vuota se non può essere trasformata in tattiche che risolvono, anche solo temporaneamente, le difficoltà di relazione tra persone, istituzioni e questioni globali.

Come afferma E. Showalter, è necessaria una erosione delle barriere fra teoria letteraria e didattica della letteratura che porti a rimodulare le pratiche del passato alla luce delle nuove aree di riflessione e, al tempo stesso, a verificare direttamente sul campo l’efficacia delle idee proposte, calandole nel contesto pratico della classe universitaria. G. Levine infatti si chiede:

what is a reader-response theory without engagements with real readers? What is cultural theory if its creators cannot find a way to see their own students as parts of the culture being studied? What are the answers scholars and critics might provide when confronted with those terrifying and fundamental questions that smart and not-so-smart undergraduates are likely to ask? (…) These are not minor questions, even for the ‘distinguished’ literary scholars (G. Levine: 12).

Anche la riflessione sulla dimensione performativa del linguaggio letterario deve necessariamente portare ad interrogarsi sui risvolti pratici che tali problematiche assumono nella loro applicazione all’interno dei corsi universitari, in modo da stimolare una continua revisione e messa in discussione dei metodi utilizzati.

 

La performance solitaria del docente nei metodi tradizionali.

 

Se il termine “performace” è in larga parte preso in prestito dal lessico teatrale, le analogie tra il contesto tradizionale di insegnamento e quello della rappresentazione scenica sono piuttosto evidenti. Lo stesso E. Goffman sottolinea come tutte le interazioni sociali abbiano un fondamentale carattere di “messinscena” in cui i protagonisti preparano i retroscena, indossano le maschere e recitano le parti adoperando l’area del palcoscenico per le azioni di routine (E. Goffman, 59). Anche per V. Turner, le azioni quotidiane risultano essenzialmente “eseguite per un pubblico” perché i partecipanti “non solo agiscono, ma si sforzano di mostrare agli altri quello che stanno facendo e che hanno fatto” (V. Turner, 149).

All’interno di quello che Paulo Freire ha definito “banking model of education”, in cui la conoscenza è vista come un “capitale” che il docente possiede e deve depositare nel discente (il quale, si presume, ne sia totalmente sprovvisto), il modello spesso consapevolmente o inconsapevolmente messo in atto è quello della “performance” solitaria del docente. In un celebre articolo pubblicato su College English che suscitò molte polemiche, Jane Thompkins sottolinea come anche quando in aula si cerca di stimolare una risposta attiva negli studenti attraverso il confronto, l’impostazione generale non viene però intaccata e questo è distruttivo per la creatività e la motivazione dello studente. Secondo la Thompkins infatti, quello che i docenti universitari spesso fanno, non è aiutare gli studenti a capire meglio gli argomenti studiati, ma semplicemente una “esibizione” della loro bravura e della loro preparazione. Così facendo insegnano agli studenti che per avere successo bisogna dare prestazioni elevate che suscitino il consenso altrui. Dietro questo modello c’è la paura di essere guardati per quello che si è realmente con tutte le proprie fragilità, e probabilmente tale atteggiamento risale all’infanzia quando il bambino capisce che per essere approvato deve imitare il comportamento degli altri anche se non è ancora pronto, per cui si produce in lui una frattura tra “essere” ed “apparire” (A. Miller: 95). Paradossalmente, i docenti continuano dunque ad esibirsi per i propri genitori ed i propri insegnanti, non per le persone che hanno realmente di fronte e cioè gli studenti.

Così facendo, l’insegnamento diventa una forma di spettacolo in cui un attore, il docente, si esibisce davanti al pubblico degli studenti. Questa analogia con il teatro è rafforzata dalla disposizione dell’aula con una pedana rialzata per ospitare la “rappresentazione” di solito affiancata, a destra e sinistra, da porte d’ingresso che ricordano le quinte teatrali. Il pubblico degli studenti siede in posizione frontale per assistere a quello che solitamente si configura come un “one-man or one-woman show” (E. Showalter: 32). Il docente/attore che monopolizza la situazione risulta tanto più accattivante quanto più riesce, da bravo commediante, ad usare al meglio la gestualità e il tono della voce. Spesso infatti si ritiene che una preparazione specifica, volta ad aiutare il docente a parlare in pubblico e a scandire bene le parole, possa essere di aiuto per molti rappresentanti della professione. M. Fusillo sottolinea inoltre che oggi l’uso di strumentazioni multimediali di supporto alla didattica contribuisca notevolmente ad aggiungere elementi di spettacolarizzazione alla lezione  (M. Fusillo: 141).

Secondo E. Showalter, ogni docente si costruisce, nel corso degli anni della sua carriera, una “teaching persona” ovvero un personaggio costruito ad hoc, una maschera da indossare nella professione, che può essere tanto una evasione da se stessi, quanto una esagerazione della vera personalità. Non sempre c’è continuità tra le idee letterarie e le pratiche didattiche perché a volte le lezioni dei docenti sono molto meno incisive della loro produzione scritta. In casi estremi assistiamo a delle vere e proprie contraddizioni o fratture perché:

when the anti-establishment ‘marxist’ critic is authoritarian and rigid about the syllabus, or the feisty ‘feminist’ critic shrieks in panic when faced with the slide projector, or the laid-book hippie who never wears a watch turns out to be a stickler about student deadlines, students will perceive the contraddiction (E. Showalter: 41).

Sarebbe dunque preferibile mostrare la propria vera personalità senza timori, più che affidarsi alla “teaching persona” ma bisogna ricordare che, nonostante i tentativi di nascondersi, gli studenti, che sono sempre abili osservatori, percepiscono subito che tipo di persona hanno di fronte da innumerevoli dettagli del comportamento e dai segnali involontari che il cosiddetto “body language” contribuisce continuamente ad inviare:

the instructor’s behaviour, body language, and appearance as well as his words in the first class, transmit a set of expectations that has been clalled ‘the implicit contact’ of teaching. Everything, from what you wear, to wether you sit or stand, to your tone of voice conveys a message about the level of formality, difficulty, and flexibility of the course (E. Showalter: 47).

Essere continuamente esposti ad un gruppo di persone determina la cosiddetta “ansia da prestazione”, che deriva dal desiderio di essere apprezzati dagli studenti e dal timore di sbagliare. In termini psicoanalitici, questi aspetti della “performance” possono essere interpretati come “ansie orali” perché relazionarsi ad una platea di persone significa essere “nutriti” dalla loro attenzione, dai loro applausi oppure ancora essere divorati e consumati da loro. E. Showalter ricorda che:

ironically, one of the texts that engendered the most hostile activity from the back row was Freud’s ‘Medusa’s Head’, that brief allegory of castration fears and the apotropaic act of displaying the Medusa symbol to intimidate the Evil Spirit. And I realized that the classroom I thought in felt like a mouth (E. Showalter: 14).

 Questo avviene soprattutto quando ci si rapporta a perfetti sconosciuti in un contesto formale perché, se si ha la possibilità di venire in contatto con gli studenti e conoscerli personalmente, tutto appare più semplice.

Il modello largamente utilizzato nelle aule universitarie italiane, e non solo, è il “tell-them-and-test-them”: una serie di lezioni frontali seguite da una verifica finale solitamente orale, senza nessuna possibilità per lo studente di ricevere feedback in itinere. Secondo W. MacKeachie se le lezioni frontali si limitano ad essere una mera riproduzione di quello che gli studenti possono tranquillamente trovare nei libri, servono a ben poco. La loro utilità risiede piuttosto nel modo in cui gli argomenti vengono presentati e aggiornati. La lezione frontale deve mostrare agli studenti “a scholar in action” (MacKeachie: 71), consentendo loro di osservare direttamente il modo in cui un esperto della disciplina si rapporta allo studio. Ma purtroppo, spesso solo il docente pensa attivamente e gli studenti non hanno gli strumenti per percepire quelle che possono essere idee nuove o originali, per cui finiscono per essere più intimoriti che stimolati:

in lectures we all too often present the products of our thinking without revealing the process by which we arrive at our conclusions. If our goal is to help students develop as learners and thinkers, more of our lectures should model the process we use in arriving at conclusions, and we should identify the directions we have followed in order that students can understand the model we represent (W. McKeachie: 236).

La presenza fisica del docente è rassicurante e il contatto frequente aiuta a trasmettere entusiasmo e motivazione. Spesso le lezioni sono, però, organizzate come un sistematico sommario delle conoscenze da riportare agli studenti quando dovrebbero invece proporre un modello di attività cognitiva, più che i suoi risultati. In essa i docenti dovrebbero analizzare i materiali, formulare problemi, sviluppare ipotesi, muovere critiche e prospettare soluzioni alternative. In poche parole, dovrebbero mostrare i metodi per apprendere a pensare:

Students are adults. I feel strongly on this point. One of the severest criticism that can be leveled aginst American higher education is that it perpetuates adolescence for another four years. It seems clear that adult behaviour is learned. If no opportunity to practice adult behaviour is allowed, such behaviour will not be learned (W. McKeachie: 4).

Uno dei problemi fondamentali della lezione frontale è la sua lunghezza, che non tiene conto della naturale curva decrescente dell’attenzione. Sappiamo che l’attenzione non rimane costante nei circa 50-60 minuti di lezione: è più alta nei primi 15-20 minuti per poi decrescere costantemente  fino ad essere quasi nulla negli ultimi 5-10 minuti quando gli studenti iniziano già a prepararsi per lasciare l’aula o sono comunque proiettati a fare altro. Ma l’elemento che bisognerebbe arginare maggiormente nella lezione ex chatedra è la passività degli studenti, i quali sono impegnati soltanto a prendere appunti. Il “note taking” è un valido strumento per stimolare la memoria a lungo termine quando scaturisce da un processo di sintesi o di elaborazione. È inutile, se non dannoso, se si riduce ad una mera copia o trascrizione delle parole del docente perché gli studenti, occupati in un faticosissimo lavoro di registrazione continua, non si impegnano a capire i concetti. Il materiale diventa “capitale” da poter utilizzare in seguito, magari pochi giorni prima dell’esame. A. Einstein infatti affermava che “prende appunti chi vuol dimenticare”, perché affida alla carta quello che non intende affidare alla memoria. L’abilità di prendere appunti selettivi deve essere gradualmente acquisita, ma è collegata ad uno stadio avanzato delle conoscenze e dunque, studenti principianti che non hanno ancora solide basi della disciplina non riescono a gestire in modo efficace le informazioni. Si possono rassicurare gli studenti promettendo loro di fornire tutto il materiale del corso al termine delle lezioni, ma è ugualmente efficace impegnarli in attività che richiedano un coinvolgimento diretto e, soprattutto, li “obblighino” a pensare. Mc Gregor, Cooper e Smith ritengono infatti che la lezione frontale non sia assolutamente da bandire, perché è molto utile per presentare concetti nuovi, ma che debba necessariamente essere integrata da attività di problem-solving e critical thinking in modo da aiutare gli studenti a fissare ed applicare i concetti nuovi fornendo, al tempo stesso, al docente importante feedback su quello che è stato effettivamente ricevuto sino a quel momento.

 

Guidare lo studente verso un apprendimento performativo


Recentemente, si è cercato di sperimentare tecniche per promuovere un apprendimento attivo ed interattivo, particolarmente importante per gli studenti neo-iscritti all’Università, che potrebbero avere difficoltà ad abituarsi al nuovo ambiente se non si sentono coinvolti. È risaputo che molti studenti frequentano in maniera irregolare e che proprio questi sono maggiormente a rischio di non superare l’esame finale e di ritirarsi dall’Università, in quanto la percentuale di ritiri è maggiore nei primi due anni. È importante quindi utilizzare strategie che motivino alla frequenza e che rimuovano lo studente da una posizione essenzialmente passiva per aiutarlo a sviluppare le sue capacità di pensiero critico.

È stato osservato che la lezione frontale da un lato e i metodi cooperativi e dialogici dall’altro, hanno la stessa efficacia per quanto riguarda la ritenzione a breve termine delle informazioni ma la lezione frontale sembra essere meno efficace per la memoria a lungo termine, la capacità di applicare le conoscenze acquisite a nuovi contesti e creare una solida motivazione nello studente, che non si sente gratificato dall’impersonalità del contesto e dall’unica attività di prendere appunti. Le discussioni sono fondamentali perché permettono di mettere in pratica i concetti e sviluppare pensiero critico. Inoltre, la discussione in gruppo facilita il senso di appartenenza ad una “comunità” e aiuta a superare il senso di isolamento che ostacola un sereno apprendimento (Brookfield and Preskill: 87).

In una università a base sociale allargata, si è rivelato sempre meno efficace l’uso di una modalità didattica tradizionale prevalentemente unidirezionale quale la lezione frontale, al contrario di quanto avveniva in passato in una Università a base sociale ristretta, dove l’insegnante che parlava di fronte ad un pubblico che si limitava ad ascoltare era funzionale alla creazione della classe élitaria. L’attivazione di nuove opportunità non comporta necessariamente l’eliminazione della tradizionale lezione ex-cathedra, quanto il superamento di una prassi didattica che vede sovrana la lezione espositiva del docente:

l’importanza di mettere in atto contesti didattici più partecipativi e flessibili è stata posta in evidenza da tempo nelle ricerche dell’ambito delle scienze dell’educazione (M. L. Giovannini: 3).

La lezione frontale non è dunque da bandire completamente perché è invece molto utile per presentare i concetti nuovi, ma che deve essere integrata da attività di problem-solving e critical thinking che aiutino gli studenti a fissare ed applicare i concetti. McGregor, Cooper, Smith e Robinson ritengono che sia importante introdurre nella lezione frontale alcuni momenti in cui gli studenti siano obbligati a partecipare attivamente e mettere in moto le loro capacità critiche (McGregor, Cooper, Smith, Robinson: 105). Queste attività promuovono l’elaborazione cognitiva favorendo la ritenzione dell’informazione nella memoria a lungo termine, migliorano le capacità di pensiero critico e consentono di ricevere feedback immediato su quello che si è effettivamente capito. Tali tecniche promuovono anche la crescita affettiva dando agli studenti la sensazione di far parte di una comunità nell’interazione con i pari e con il docente. Il coinvolgimento nella vita universitaria è il fattore primario che blocca il tasso (ancora piuttosto alto 40%) di abbandono degli studi.

Diverse ricerche hanno mostrato che gli studenti ricordano il 70% della lezione subito dopo e solo il 20% dopo alcuni giorni. Per far si che i contenuti passino nella memoria a lungo termine, devono essere messi in pratica attraverso gruppi di discussione. Le discussioni non sono efficaci per presentare materiale nuovo, ma sono molto appropriate per stimolare il pensiero critico sull’argomento proposto e ricevere feedback su come si stanno raggiungendo gli obiettivi del corso. Lezione frontale e discussioni presentano ognuna dei vantaggi se usate in determinati momenti del corso per cui il metodo migliore è senz’altro combinare le due tecniche. Si possono prevedere due distinti momenti all’interno della lezione per ciascuna modalità, oppure elaborare uno schema settimanale in cui si prevedono, ad esempio, 2 lezioni frontali seguite da una discussione plenaria. MacKeachie sottolinea infatti che “skillful teachers will choose the method best adapted to their objectives rather than rigidly sticking to one method only” (MacKeachie: 43). Anche M. Birbaum ritiene che sia fondamentale dirigersi nella direzione della “liberatory pedagogy” indicata da P. Freire in cui gli studenti sono chiamati a ricoprire un ruolo più centrale, ma che la pratica didattica abbia spesso mostrato che nè il “teacherless environment” nè i “discussion-based models”, se usati in modo esclusivo, assicurano sempre e comunque una maggiore partecipazione degli studenti. L’approccio “blues” basato sull’improvvisazione e la commistione può portare a pratiche didattiche che rendono la lezione una esperienza positiva per gli studenti (M. Birbaum: 187).

Alla “performance” solitaria del docente, le metodologie più innovartive hanno sempre più sottolineato l’importanza di affiancare la “performatività” dello studente, al fine di aiutarlo a far transitare i concetti nella memoria a lungo termine. Nel saggio, “L’etnografia messa in scena”, Victor Turner sottolinea l’importanza della performance come mezzo per guidare gli studenti a comprendere in maniera significativa, dal momento che con la sola lettura si finisce per piegarsi al dominio cognitivo della materia scritta perché  “siamo legati all’arbitrarietà della connessione fra il segno scritto o stampato e il suo significato” (V. Turner: 252). Nel suo caso, si tratta di una “performance” al quadrato perché egli spronava gli studenti a “recitare” l’etnografia con l’obiettivo di appropriarsi in modo duraturo e significativo dei concetti attraverso il “gioco”, che entra in relazione con i centri celebrali più alti. Secondo Turner, infatti, per quanto sia possibile ad un ricercatore mostrare la coerenza fra le diverse parti di una cultura, i modelli che egli presenta rimangono sempre e comunque cognitivi e non sono in grado di spiegare realmente come i membri di un altro gruppo facciano esperienza gli uni degli altri.

All’Università della Virginia con studenti di antropologia e alla New York University con studenti di letteratura drammatica, l’insegnamento nelle sue classi partiva da un diretto e attivo coinvolgimento degli studenti, i quali dovevano selezionare alcune sequenze di comportamento dalle “altre culture” e farne dei “copioni”. Venivano dunque organizzati dei gruppi di lavoro che erano in realtà dei “gruppi di gioco” (ci si potrebbe interrogare sull’uso della parola “play” per riferirsi alle rappresentazioni drammatiche) in cui gli studenti cercavano di raggiungere una comprensione cinetica dei gruppi socio-culturali diversi dai loro. Tutto questo li spronava a studiare le monografie antropologiche rendendo evidenti le lacune di queste opere allorquando si discostavano dalla logica dell’azione drammatica che, invece, miravano a decrivere. La “visione dall’interno” degli attori prodotta grazie alla performance finiva con il costituire un valido strumento per acquistare consapevolezza critica riguardo al modo in cui tali strutture rituali venivano rappresentate cognitivamente. Questi tentativi di tradurre l’etnografia in una sorta di “teatro educativo”, il cui principale frame è dunque pedagogico dal momento che la formula generale è “impariamo”, era dunque semplicemente un modo per introdurre più pienamente gli studenti alle culture proposte dalle monografie antropologiche. L’alto potenziale riflessivo della performance etnografica è dimostrato dal suo essere principalmente un mezzo per ridiscutere la ricerca antropologica su cui si basano. Sebbene Turner sostenga di non aver raggiunto nessuna conclusione definitiva al riguardo di questo approccio teatrale all’etnografia, egli sottolinea come gli studenti non sarebbero mai giunti a porsi una serie di interrogativi sulla natura della performance se non fossero stati chiamati ad allestirne una.

In generale possiamo affermare che non solo il gioco di ruoli e la drammatizzazione in senso stretto siano delle efficaci tecniche didattiche, ma che anche tutte quelle impostazioni più innovative della rappresentazione scenica miranti a sovvertire i tradizionali ruoli dei partecipanti trasformando gli spettatori in artefici/protagonisti dello spettacolo (teatro nel teatro, modifica della tradizionale disposizione dei posti a sedere, tavola rotonda e coinvolgimento nel processo ideativo dello spettacolo/lezione) possano risultare molto utili per stimolare lo studente a partecipare attivamente alla lezione e dunque a “fare”, “agire”.

 

Obiettivi e tecniche dei metodi performativi nella didattica della letteratura

 

Nell’ambito più specifico della didattica della letteratura, diversi studiosi quali R. Scholes e S. Fish, che si ispirano al Austin e alla teoria della ricezione, evidenziano la necessità di passare da un curriculo fondato sul canone ad uno in cui si privilegia la capacità di applicare abilità specifiche quali quelle della lettura, dell’interpretazione e della critica. In questo modo la conoscenza viene considerata non come qualcosa che si trasmette dal testo allo studente ma come qualcosa che avviene nello studente interrogando il testo.

E. Showalter sostiene che non è tanto importante ragionare nei termini di “materiale da coprire” o di “contenuto”, quanto nei termini delle abilità specifiche da sviluppare:

overall, our objective in teaching literature is to train our students to think, read, analyze, and write like literary scholars, to approach literary problems as trained specialists in the field do, to learn a literary methodology, in short to ‘do’ literature as scienetists ‘do’ science (E. Showalter: 25).

L’obiettivo principale è dunque quello di formare, come afferma P. E. Balboni, dei “professionisti della letteratura” (P. E. Balboni: 33) i quali, al termine del ciclo di studi, dovrebbero possedere una adeguata conoscenza della metodologia della disciplina e una solida base del contesto storico, intellettuale e culturale delle aree prescelte (J. Simmons: 164).

Nel suo celebre saggio dal titolo “Teach the Conflicts”, G. Graff sostiene appassionatamente che l’errore dell’insegnamento tradizionale risiede nel ritenere che sia fondamentale stabilire un consenso generale sui contenuti da proporre ai discenti. L’accademia si concentra su questioni del tipo

to teach or not to teach the great books? High culture of popular culture? Classics or commercials? Western literature or westerns as literature? Open canons or closed American minds? King Lear or King Kong? Rimbaud or Rambo? Plato or Puzo? These are just a few of the conflicts that divide the educational world today. In recent writings, I have been proposing a solution to these conflicts that is both practical and democratic: teach them (G. Graff: 57).

Nell’Università moderna non è possibile pensare ad una singola tradizione culturale condivisa da tutti proprio a causa della presenza, a differenza del passato in cui la cultura era destinata ad una ristretta èlite dagli interessi omogenei,  di una grande quantità di culture e subculture che chiedono di essere rappresentate. Graff mette in discussione l’idea di H. Bloom secondo la quale un’educazione liberale debba semplicemente portare alla lettura dei testi “letting them dictate what the questions are and the methods for approaching them – not forcing them into categories we make up” (G. Graff: 64). Secondo Graff questa soluzione è semplicistica perché non solo non tiene conto di cosa “realmente” significhi leggere o di cosa si intenda per “great books”, ma anche perché non rende giustizia di quanto ogni libro sia potenzialmente aperto alle controversie. Esporre alle opere letterarie non garantisce di catturare l’interesse degli studenti, se quelle opere non sono messe in relazione con il mondo. Spesso si lamenta la disconnessione del mondo accademico con la realtà, ma l’immagine stessa che spesso si tenta di veicolare di molti campus come “isole felici” non fa che rafforzare il senso di “esoterismo” delle discipline. Non risolvere i conflitti dunque, ma piuttosto drammatizzarli in corsi organizzati in team o secondo la tecnica del teacher swapping per cui, per alcune lezioni, i docenti si scambiano la classi. In questo modo, si concorre a diffondere un’idea di conoscenza non come struttura ordinata, ma come un insieme di pratiche sociali. Anche R. Scholes propone di riorientare l’impostazione dell’insegnamento della disciplina da battaglie sul contenuto, ad una nuova concezione di abilità e processi di lettura (R. Scholes: 65).

Come afferma G. Armellini, il problema principale è riconoscere che lo studio della letteratura non serve ad incamerare informazioni ma ad acquisire specifiche competenze. Purtroppo, spesso si privilegia il know that rispetto al know how (come si fa a leggere, analizzare, interpretare, valutare un’opera d’arte). Per questo motivo, i curricoli dovrebbero essere organizzati in base alle specifiche abilità da sviluppare e contemplare modalità di gradazione del materiale da proporre ai discenti che tenga conto del loro livello di partenza. La “literary diet” deve essere varia e comprendere opere del presente e del passato, senza essere ristretta ad opere in linguaggio arcaico “that pratically requires the learning of a new language” (L.M. Rosemblatt: 205) o che presentano uno sforzo di comprensione troppo in avanti rispetto alle capacità degli studenti. Per far sì che lo studente possa apprezzare un’opera, essa deve essere messa in relazione con la sua esperienza di vita. Non è esatto affermare che lo studente deve conoscere le opere del passato prima di venire in contatto con quelle contemporanee. Spesso gli autori contemporanei offrono una scorcio di vita che gli studenti possono più facilmente comprendere. È importante dunque includere opere del presente e del passato per forgiare i necessari strumenti intellettuali ed emotivi (L.M. Rosemblatt: 150).

Gli studiosi dunque concordano che la letteratura è “a skill subject” e non “a content subject”:

so perhaps are all subjects, but literature suffers more than most from the fact that it is possible to teach with high effect, for one examination, by ignoring skills and concentrating on content (Brumfit e Carter: 237).

Per superare l’esame, gli studenti devono ripetere quanto ascoltato dal docente e questo favorisce una pedagogia fondata sull’assimilazione passiva delle informazioni. C. Acutis ritiene infatti che

la vera violenza che alligna nelle nostre aule è la ripetizione da parte degli studenti delle opinioni espresse dai docenti e dai manuali su testi che non hanno mai avuto il piacere di leggere (C. Acutis: 9).

Il loro studio rimane limitato all’operazione puramente verbale di parafrasare quello che “altri” ritengono rilevante nell’opera.

Tramite la letteratura è dunque possibile assuefare al consenso ed abituare le menti a ripetere pareri altrui senza provarne vergogna. Dal momento che gli studenti di letteratura sono coloro che molto probabilmente insegneranno nelle aule scolastiche, essi finiranno per ripetere all’infinito il modello ed è quindi importante agire per modificare questo stato di cose. La pedagogia fondata sull’assimilazione passiva delle informazioni, sulla ripetizione di giudizi consacrati, sull’imitazione di modelli esemplari è definitivamente entrata in crisi, in corrispondenza al tramonto del tipo di società per cui era stata pensata e legata ad una concezione conservatrice del sapere volta alla formazione delle classi dirigenti con la funzione di riprodurre il sistema. Oggi che la letteratura non rappresenta più la coscienza complessiva della società, perché assume carattere specialistico e settoriale di fronte alle varie forme di sapere contemporaneo, essa mantiene la sua fondamentale funzione di creare menti aperte e critiche (G. Armellini: 59).

Lo scopo principale dell’insegnamento è dunque quello di mettere lo studente in condizione di capire quello che legge e dargli gli strumenti per leggere autonomamente in futuro. “Dare gli strumenti” per alcuni significa dare informazioni storico-biografiche o fornire il migliore apparato critico: “anything, in short, except placing the student face to face with the work itself, and acting as his spectacles when his eyesight was blurred” (L. Buell: 79). Esistono dunque sostanzialmente due metodi: quello del professore che “professa” l’opera e quello del docente che mette gli studenti in contatto diretto con i testi per scoprirne leggi e significato. Come afferma B. Keller, nei corsi introduttivi, in particolare, l’obiettivo è quello di sviluppare competenze di lettura piuttosto che introdurre ad un particolare autore o opera (B. Keller: 76). Lo studente deve essere guidato a capire che cosa in quel testo ha portato altri a considerarlo arte e non semplicemente osservare il docente che interagisce con l’opera. Questo è dannoso per l’enorme dislivello di padronanza linguistica e culturale che scoraggia il discente il quale finisce per ripetere meccanicamente il contenuto delle lezioni senza sviluppare pensiero critico. F. Madden riconosce:

We come into a class and talk with students about a piece of literature that we’ve read fifty times and spent twenty years thinking about. We explicate the text in amazing ways and students say, ‘Wow, I could never do that’ But do we ever allow ourselves to be vulnerable? To come in and do first readings with them? (F. Madden: 105).

Anche per R. Scholes il docente non deve consegnare letture “preconfezionate” agli studenti, ma fornire gli stumenti per produrre le proprie:

for me the ultimate hell at the end of all our good New Critical intentions is textualized in the image of  a brilliant instructor explicating a poem before a class of stupified students. And when I see this very icon being restored to the same position within the same ivied halls by certain disciples of Derrida I could weep with frustration. Our job is not to intimidate students with our own superior textual production; it is to show them the codes upon which all textual power depends, and to encouradge their own textual practice (R. Scholes: 25).

Per Scholes il primo passo per fare questo è gettare via le antologie che non forniscono una visione d’insieme e optare per testi brevi selezionandone diverse tipologie che offrono un buon contrasto di temi e stili: “I hate to say it, but I must observe that one of the reasons we teachers favour the big anthology is that it keeps our students dependent upon us, justifying our existence” (R. Scholes: 27). Nelle aule universitarie, apparentemente lo studente apprende circa un determinato argomento, ma in realtà impara a riportare uno specifico tipo di discorso scientificamente controllato.

La cosa più urgente da attuare è dunque l’acquisizione della capacità critica ma questo può avvenire solo nell’applicazione personale dei codici utili alla decifrazione del testo. Lo studente messo in grado di esercitare un’attività di decodifica autonoma uscirà dal ruolo di ascoltatore passivo per soddisfare il suo bisogno naturale di partecipare. L’obiettivo dell’insegnamento è dunque quello di sviluppare negli studenti una competenza letteraria intesa come una interessante combinazione  di consapevolezza linguistica, socio-culturale, storica e semiotica per cui, quello che può essere insegnato, non sono i contenuti ma la capacità di riconoscere diverse forme, stili, convenzioni. L. Terracini ritiene infatti che i codici per l’interpretazione siano spesso negati e che la pratica di insegnamento deve essere principalmente volta a creare nello studente una “competenza di lettore” rendendolo consapevole della natura del testo letterario. Anche S. Fish riconosce che, se il critico rappresenta un “informed reader”, ovvero un lettore in possesso di competenza letteraria, lo studente è invece un “real reader” che fa tutto ciò è in suo potere per diventare informato (S. Fish: 49). Secondo J. Culler, la competenza letteraria si configura per lo studente come una “grammar of literature which would permit him to convert linguistic sequences into literary structures and meanings” (J. Culler, 1975: 114).

Inoltre, per assimilare davvero i concetti, gli studenti devono metterli in pratica attraverso attività laboratoriali che li aiutino ad utilizzare le conoscenze per produrre qualcosa di personale. C. Hopkins sottolinea che spesso i corsi di teoria letteraria si risolvono in una illustrazione storica delle varie teorie senza alcun tentativo di applicazione pratica da parte degli studenti. È necessaria dunque una preparazione alla teoria che induca a riflettere sul testo e sulle sue caratteristiche, ma una volta giunti ad un livello più avanzato, è molto importante dedicare tempo alla teoria sollecitandone l’applicazione pratica da parte degli studenti, piuttosto che far direttamente leggere i testi secondo una determinata prospettiva. La teoria è un modo di porsi domande e non di fornire conclusioni definitive, dal momento che non è una disciplina univoca o un settore uniforme della conoscenza. Lo studio della teoria può motivare lo studente a patto che egli abbia solide basi di analisi testuale e close reading perché altrimenti, invece di usare la teoria come base per le proprie riflessioni, finisce per adottare il punto di vista di un critico in particolare (C. Hopkins: 25). Ray Land suggerisce che, se l’obiettivo dell’insegnamento universitario è quello di portare gli studenti ad abbracciare le pratiche e il modo di pensare peculiare della disciplina, bisogna agire sui “treshold concepts” e cioè quei passaggi particolarmente difficili ma che restano essenziali perché lo studente che non afferra appieno il concetto resta in uno stadio di liminalità, dal quale i passaggi successivi gli resteranno per sempre oscuri. In campo letterario, un “treshold concept” è quello di “Decostruzione”, un concetto che può spesso risultare difficile da afferrare ma che produce, quando compreso, modificazioni profonde nel modo di pensare che fanno “entrare nella disciplina”. Padroneggiare i “treshold concepts” della disciplina permette di entrare nella sua “Community of Practice”, ovvero nel gruppo di persone che hanno un comune modo di pensare e di rapportarsi ad un determinato argomento. Al fine di entrare nella “Community of Practice” dei critici letterari o dei medici o degli ingegneri, è necessario aver negoziato i  “treshold concepts” cruciali per quella comunità (R. Land: 142-143).

 

L. M. Rosemblatt, S. Fish, R. Scholes ed il contributo del Reader Response Criticism

 

Se all’Università gli studenti devono acquisire i modi di pensare tipici delle discipline, in campo letterario questo significa sostanzialmente fare delle affermazioni supportandole alla luce di una determinata prospettiva di analisi. Nel leggere i testi, essi devono sviluppare una risposta personale ma, al tempo stesso, accademica e razionale dando attenzione agli aspetti formali e imparando a relazionarli ad un contesto più ampio. L’insegnamento della letteratura è particolarmente adatto a sviluppare il pensiero critico perché prevede l’adozione di processi mentali che gli studiosi definiscono come “explanation, analysis, synthesis, inference, logical reasonning, application”.

La letteratura è il luogo ideale per esercitare il pensiero critico perché, attraverso i testi, è possibile individuare relazioni fra gli eventi, analizzare, inferire, sintetizzare e valutare il contenuto e il linguaggio usato. La lettura di opere letterarie è un’operazione complessa attraverso la quale i lettori fanno riferimento alle loro esperienze e conoscenze pregresse per costruire il significato e, nel fare questo, devono imparare a distinguere i fatti dalle opinioni, individuare i dettagli testuali relativi ai temi principali, inferire una relazione tra i dettagli, percepire diversi punti di vista, proporre giudizi motivati e, soprattutto, applicare queste capacità a nuovi contesti. Come afferma Lazere, la letteratura “is the single accademic discipline that can come closest to encompassing the full range of mental traits currently considered to comprise Critical Thinking” (D. Lazere: 3). Il pensiero critico prevede livelli multipli di comprensione, l’abilità di vedere i lati deboli delle diverse argomentazioni, analizzare il testo e mettere in discussione le premesse dal quale muove, individuare l’ideologia sottesa. Le abilità da sviluppare sono quelle di raccogliere dati per supportare le proprie argomentazioni e riconoscere che le opinioni possono essere diverse ma ugualmente valide, per cui è utile costruirsi il proprio punto di vista e cioè identificare quello che, avendo valutato i vari aspetti, appare più vicino alla verità. Il pensiero critico prevede interazione con il testo ma gli studenti non sono sempre preparati ad interagire con esso in modo personale e creativo. È necessario dunque mettere in atto strategie di lettura critica in modo che gli studenti imparino a relazionarsi con il testo in modo significativo. Nelle fasi iniziali, essi devono essere guidati a cosa notare nel testo con domande ben mirate sul genere, il tono, lo stile, l’intenzione dell’autore. Dopo l’analisi, gli studenti imparano ad inferire il significato per interpretare i dati raccolti e, in seguito, dirigono l’attenzione su questioni realtive all’ideologia sottesa chiedendosi “What is it at issue? What am I being asked to believe?” (D. Lazere: 5). Ecco dunque che gradualmente viene spostato il centro dell’interesse da cosa il testo “dice” a cosa il testo “fa”, dal suo valore constativo al suo valore performativo.

Preoccupata sia per gli eccessi dell’arido storicismo e sia per i pericoli di un close reading che, sulla scia dei New Critics, ignora la diversità delle risposte, L. M. Rosemblatt elabora la sua “transactional theory” in modo da preservare il rispetto per il potere testuale e andare al di là dell’arida explication du texte. La sua “reader-response theory” resiste agli eccessi di chi ritiene ogni lettura ugualmente valida perché stabilisce il valore fondamentale dell’evidenza testuale e delinea un processo pedagogico attraverso il quale il discente viene chiamato prima a dare una risposta emotiva al testo, e successivamente a riflettere razionalmente sulle proprie emozioni in modo da accrescere le proprie capacità critiche. La Rosemblatt parte dal presupposto secondo il quale non sempre le idee accettate razionalmente producono effetti concreti nel comportamento delle persone. Per far si che ciò avvenga è necessario il filtro affettivo, che stimola una interiorizzazione profonda. La letteratura, a differenza delle altre discipline, opera proprio in questa direzione perché porta in contatto con concrete esperienze di vita e non con idee vaghe. Il modello “transactional” rende giustizia a questo continuum estetico-efferente perché, per far sì che lo studente si innamori della letteratura, bisogna sempre partire da una risposta personale, anche se grezza e inarticolata. L’abilità del docente consiste nell’utilizzare questa risposta personale per costruire un dialogo attraverso il quale guidare il discente verso una più alta consapevolezza. È necessario che lo studente veda nella letteratura una fondamentale esperienza di vita, e poi una disciplina di studio. Questo non vuol dire che l’analisi testuale e la contestualizzazione non siano importanti, ma che avvengono solo dopo che il lavoro per stimolare una risposta estetica è compiuto. In questo modo, si riduce la divaricazione fra l’approccio puramente “accademico” al testo letterario e la risposta dello studente che quando legge per piacere personale, si rivolge a generi di consumo apparentemente più “liberi” da costrizioni. Inoltre, così facendo, si evita che lo studio finisca per risolversi in una mera consultazione di biografie, storie letterarie, saggi critici senza nessun contatto con l’opera d’arte:

students read literary histories and biographies, criticism, introductions to editions, so-called study guides, and then, if there is time, they read the works” (L. M. Rosemblatt: 60).

Solo attraverso una risposta personale, anche se immatura, lo studente può accedere successivamente ad una piena consapevolezza letteraria perché, in caso contrario, non farà che ripetere docilmente un senso precostituito. Sulla base degli elementi emozionali si può costruire una risposta genuina al testo letterario che risulta essenziale anche nelle fasi più avanzate dello studio:

one can demonstrate familiarity with a wide range of literary works, be a judge of craftsmanship, and still remain, from the point of a rounded understanding of art, aesthetically immature. The history of criticism is peopled with writers who possess refined taste but who remain minor critics precisely bacause they are minor personalities, limited in their understanding of life. Knowkedge of literary works is empty without an accompanying humanity (L. M. Rosemblatt: 51).

La letteratura non è dunque un mezzo per esporre fatti ma un veicolo per sviluppare il pensiero riflessivo ed elastico che porta ad assumere un’abitudine mentale di sottoporre a verifica le proprie reazioni anche in base alle opinioni espresse dagli altri. La razionalità non esiste in opposizione alle emozioni “but rather represents the attainement of a working harmony among diverse diseres” (L. M. Rosemblatt: 227).  Il docente deve dunque sviluppare l’abilità di usare la risposta degli studenti per guidarli alla scoperta dell’informazione per contestualizzare. Impostare in questo modo il rapporto aiuta anche il docente a sentirsi meno frustrato dalla scarsa partecipazione degli studenti che lo porta a rivolgersi solo a quel ristretto numero di persone che sembrano seguirlo, “the rare students who seem to possess the divine spark” (L. M. Rosemblatt: 63).

Anche S. Fish parte della considerazione per cui il testo non è un’entità autosufficiente perché la sua struttura formale acquista valore solo se rapportata all’esperienza del lettore, il quale non deve semplicemente estrapolare il significato ma contribuisce a crearlo in una relazione dinamica. A suo avviso, il testo non è il contenitore privilegiato del significato, nella cui produzione il lettore ha uguale parte. Egli rigetta l’approccio formalista e afferma che il testo non è un’entità indipendente dall’interpretazione. Le strategie interpretative non possono essere fissate a priori ma emergono e si modellano nella lettura del testo. Da queste premesse egli elabora un metodo didattico volto ad allenare gli studenti a distinguere quello che è puramente personale nella loro risposta dal controllo del testo, introducendo la nozione di “comunità interpretativa”. Secondo Fish sono le comunità interpretative che producono il senso, non il testo e né il lettore, e sono costituite da persone che condividono le stesse strategie interpretative non per leggere ma per scrivere testi (nell’accezione barthesiana). Tali strategie si posseggono a priori e modellano quello che si legge dal momento che ogni individuo è membro di una comunità e questa appartenenza determina quello che egli può pensare. Membri della stessa comunità concorderanno perché vedranno tutto in base alla visione del mondo di quella comunità e, al contrario, membri di comunità diverse non concorderanno perché non vedranno ciò che appare chiaro e indiscutibile all’altra. Questo spiega la stabilità delle interpretazioni lettori lontani nel tempo e nello spazio, ed anche il perché dei disaccordi che generano il dibattito. Non vi sono metodi “corretti” di leggere, ma solo modi che riflettono gli interessi di una determinata comunità (S. Fish: 23).

Da questo punto di vista, Fish sottolinea il ruolo importantissimo della teoria e della critica letteraria che individuano una serie di prospettive dalle quali la lettura può procedere senza mai stabilire la “verità”. Ogni critico ha la precisa responsabilità di evidenziare il grado in cui le sue riflessioni partono “by a matrix of political, cultural and literary deteminants” (S. Fish: 49). Purtroppo però, la critica letteraria si è spesso configurata come uno sforzo teso a dimostrare che la propria interpretazione si accorda meglio ai “fatti”, oppure a persuadere ai principi interpretativi in base ai quali questi “fatti” appariranno indiscutibili. Oppure ancora, si è cercato di identificare le carenze delle interpretazioni fino ad allora operate per proporne una nuova che le potesse superarle. In realtà, “the announcement that one is returning to the text will be powerful so long as the assumption that criticism is secondary to the text and must not overwhelm it remains unchanged”. Respingendo la nozione di testo autosufficiente e oggettivo, si delinea un metodo pedagogico molto valido:

more than any other way of teaching I know, it breaks down the barriers between students and the knowledge they must acquire, first by identifying that knowledge with something that they themselves are already doing, and then by asking them to become self-consciuos about what they do in the hope that they can learn to do it better (S. Fish: 22).

La teoria del reader response acquista dunque un valore pedagogico non trascurabile, e deve essere tenuta in debita considerazione nell’elaborazione dei curriculi al pari dei metodi che Wellek e Warren definiscono rispettivamente estrinseci ed intrinseci. Anche se la sua utilità appare limitata ad un livello introduttivo e di scoperta, è bene non sottovalutarne l’importante funzione motivazionale anche nelle fasi più elevate del percorso educativo. In ambito universitario, soprattutto nei corsi dei primi anni, non si può dare per scontato che questo lavoro sia stato svolto efficacemente in precedenza, anche perché è ormai garantita la possibilità di accedere ad ogni tipo di corso anche agli studenti di provenienza non liceale.

Robert Scholes ritiene invece che non sia produttivo isolare abilità specifiche in specifici corsi, per quanto organizzati secondo una progressione che riflette il livello degli studenti, ma che sia molto più utile inserire diversi momenti all’interno dello stesso corso in cui gli studenti si confrontano con aspetti diversi dell’opera letteraria:

We have sometimes behaved as if certain skills, such as composition and even the close reading of poems, could be developed apart from knowledge. We are paying the price of that error now (R. Scholes: 16).

A suo avviso, la disciplina è organizzata in base ad una serie di dicotomie che operano al livello di costruzione mentale semi-conscia e che si manifestano nell’organizzazione del dipartimento, nella elaborazione dei curriculi e nelle prove di verifica. Queste dicotomie sottendono una ideologia e una gerarchia che conducono a ritenere il primo termine come superiore all’altro e sono dunque da decostruire. La prima dicotomia è Literature/Non Literature che porta ad escludere molte manifestazioni oggi rivalutate da un tipo di critica che ha separato con successo i termini “letterarietà” e “valore”. La seconda dicotomia Consumption/Production riflette la più datata divaricazione Reading/Writing che può essere efficacemente aggirata considerando la lettura un’attività produttiva. Infine, la terza dicotomia è quella Academy/Real World che deve essere superata evitando di chiudersi in una “torre d’avorio” separata dalla vita reale. Tali opposizioni vanno considerate come dei problemi da risolvere più che come verità intoccabili, e questo deve determinare l’inizio di una nuova pratica per ridefinire gli studi letterari. Bisognerebbe cominciare a chiedersi cosa significa insegnare la letteratura e perché “we say we ‘teach literature’ instead of saying we teach reading, interpretation or criticism” (R. Sholes: 12). Egli ritiene che sarebbe meglio considerare la conoscenza, non come qualcosa che viene trasmesso dal testo allo studente, ma qualcosa che si sviluppa nello studente interrogando il testo. Il cambiamento essenziale risiede nel modo in cui i docenti sono chiamati a definire il proprio compito: “to put it directly and, perhaps, as brutally as possible, we must stop ‘teaching literature’ and start studying texts” (R. Sholes: 12).

Questa ridefinizione deve portare a partire sempre dagli studi testuali nell’insegnamento della letteratura, con la giusta commistione di produzione e ricezione di testi, nell’ottica di insegnare tre abilità che sono strettamente interconnesse: “reading, interpretation e criticism”. La lettura è l’attività primaria su cui tutte le altre si basano. A questo livello, il lettore decodifica il testo in base alle proprie esperienze, legge e coopera alla costruzione del significato riempiendo gli spazi vuoti, facendo anticipazioni, immaginando una possibile continuazione o trasposizione degli eventi.

Queste attività inferenziali conducono al secondo passo, che è quello dell’interpretazione. La letteratura non rende immediatamente evidente il significato, e questo fornisce spazio all’interpretazione, che vuol dire interrogarsi sul significato di un’opera letteraria e, dunque, muoversi dal livello degli specifici elementi narrati, ad un livello generale di tipi e valori sociali. In questa fase, il vantaggio del gruppo di discussione rispetto alla fruizione solitaria, risiede nel fatto per cui è possibile correggere gli errori di interpretazione. Interpretare significa tematizzare e dunque muoversi dal livello dei semplici fatti narrati, ad un livello generale di tipi e valori sociali. Man mano che si analizzano i testi, le procedure diventano più chiare agli studenti e si cerca di mettere il testo in relazione con altri testi e pratiche culturali: “interpretation lies at the other side of reading. Its domain is the unsaid, the implied, perhaps, or even the repressed” (R. Sholes: 32). Per muoversi dal detto al non detto è utile la lezione dei formalisti e degli strutturalisti, per cui è necessario considerare gli elementi manifesti del testo alla luce di specifiche funzioni e chiedersi cosa “rappresentano” o “simboleggiano”. L’interpretazione è il risultato di un eccesso di significato nel testo che incontra la mancanza del lettore. Il rovescio di questa situazione, quando cioè c’è un eccesso di conoscenza nel lettore con cui si gestisce un testo deficitario è, invece, critica. Al tempo stesso, l’interpretazione comporta connessioni culturali che diramano dal testo e portano a riconoscerne l’unicità. L’interpretazione è dunque una esplorazione culturale che muove dal testo e si completa nella critica. La critica prevede la lettura dei temi o dei codici presenti in un’opera letteraria da una determinata prospettiva. La funzione del docente è quella di aiutare gli studenti a capire quale prospettiva può meglio soddisfare i loro interessi e spingerli a superare il loro punto di vista meramente personale a favore di concezioni più generali. L’abilità di criticare un testo si apprende col tempo e con la pratica per cui non è possibile aspettarsi che gli studenti sappiano subito uscire brillantemente dai valori perorati.

Secondo Paul Ricoeur, l’interpretazione ha due poli, uno negativo e uno positivo. Il primo è quello dell’ascolto e dell’obbedienza, il secondo del sospetto e del rigore, che Scholes definisce “critica”. Nel passaggio dall’interpretazione alla critica ci muoviamo da una dimensione individuale ad una dimensione collettiva. Le tre fasi sono strettamente legate l’una all’altra e producono attività testuali diverse ma complementari: “in reading we produce text within text; in interpreting we produce text upon text; and in criticizing we produce text against text” (R. Sholes: 24). 

Il docente ha il compito di spingere lo studente a diventare più consapevole di quello che fa in modo da poterlo fare meglio. Soprattutto, attraverso lo scambio e  il dialogo, il significato viene negoziato e non rimane fisso. Si può arrivare o meno ad un consenso, ma in questo processo ognuno modifica la propria percezione del mondo e acquisisce consapevolezza dei limiti delle proprie idee. Da questo punto di vista, è possibile affermare che nelle comunità interpretative avviene qualcosa di molto simile a quello che Turner definisce “dramma sociale”, un conflitto tra persone o gruppi che può essere risolto o approdare alla liminalità.

 

Concetto di “performativo” e finalità dell’insegnamento letterario

 

Come afferma Althusser, il comportamento performativo, da sostenere nella didattica, è il modo in cui le persone determinano i valori individuali e di gruppo, possono mantenere lo status quo o contribuire a sovvertirlo. Questo rappresenta anche la fondamentale risposta all’interrogativo sul “perché insegnare la letteratura?” in un momento storico che sembra negare ogni valore agli studi umanistici.

Se non è possibile dare una definizione di letteratura, è almeno possibile essere concordi su quelli che sono gli obiettivi dello studio letterario. In passato si riteneva che insegnare la letteratura fosse un modo per creare persone migliori e migliori cittadini. M. Nussbaum afferma che l’obiettivo principale dell’insegnamento umanistico e artistico sia quello di stimolare la capacità di pensare criticamente che sola garantisce pluralità e democrazia. Solo il cittadino abituato a porsi domande, a mettere in discussione l’ovvio, ad elaborare strategie alternative, non accetta passivamente il sistema ma contribuisce attivamente alla vita democratica del suo paese (M.C. Nussbaum: 26). Ma, come sottolinea R. Hoggat, l’istruzione critica è importante anche se non sufficiente, perché bisogna sviluppare la creatività, l’immaginazione e la letteratura lo fa in modo unico esplorando le parti più nascoste dell’anima. I classici sopravvivono perché di generazione in generazione si continua a trovare in questi libri qualcosa di universale (R. Hoggat: 60-61). La letteratura favorisce inoltre quello che la Nussbaum definisce “immaginazione narrativa” e che costituisce una delle competenze fondamentali del cittadino ovvero “la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri. La ricerca di tale empatia è parte essenziale delle migliori concezioni di educazione alla democrazia, sia nei paesi occidentali che in quelli orientali” (M.C. Nussbaum: 111).

Anche per E. Morin la missione propriamente spirituale dell’educazione è insegnare che la comprensione umana è condizione e garanzia di solidarietà intellettuale e morale. La comprensione intersoggettiva è profondamente diversa da quella intellettuale e oggettiva. I suoi ostacoli sono l’egocentrismo e l’etnocentrismo, che hanno come dato comune il fatto di situarsi al centro del mondo e di considerare come secondario e insignificante tutto ciò che è straniero e lontano. La letteratura, favorendo la proiezione e l’identificazione, ci consente di capire coloro che ci sarebbero lontani nella vita di  tutti i giorni. Nell’era globale è necessario tendere ad un pensiero policentrico capace di universalismo non astratto e nutrito dalle culture del mondo. La ricchezza dell’umanità risiede proprio nella sua diversità di lingue e culture per cui l’educazione deve necessariamente comprendere un’etica della comprensione planetaria (E. Morin: 100).

Da questo punto di vista, l’insegnamento delle lingue e letterature straniere è fondamentale perché

vedere come un altro gruppo di esseri umani intelligenti concepisca il mondo in modo differente, come ogni traduzione sia un’interpretazione imperfetta, offre ad un giovane un’importante lezione di umiltà culturale (M. C. Nussbaum: 100).

La civiltà contemporanea, caratterizzata dall’interazione tra diverse etnie, ha bisogno di far maturare una coscienza interculturale per promuovere atteggiamenti di apertura, rispetto e attenzione verso gli altri (G. Maiello: 273-291). All’interno di questo contesto la conoscenza delle lingue straniere assume un ruolo centrale perché lingue diverse organizzano il mondo in modi diversi. Sia l’ipotesi Sapir-Whorf, per cui la lingua che parliamo determina quello che possiamo pensare, che le teorie cognitive più recenti sottolineano come studiare una lingua straniera metta in opera nel discente una regressione primaria in cui parte della costituzione dell’io si trova messa in gioco. Ma affinché la lingua straniera produca empatia e un comportamento complessivo orientato all’accoglienza occorre cogliere il contenuto culturale dell’interazione comunicativa attraverso il sapere letterario (R. Stajano: 340). Anche R. Ceserani concorda che la letteratura concorre a modificare le idee stereotipate e cristallizzate. Attraverso il contatto con le altre realtà, si impara molto su quanto sia relativa la propria e ci si abitua a vedere le cose da diverse angolazioni. Oltre a favorire lo sviluppo di una società più aperta e tollerante, essa rende critici verso la pervasiva influenza dei media, tenendo in esercizio i meccanismi psicologici di una corretta “ecologia della mente” evitando i rischi “dell’invischiamento e del plagio” (R. Ceserani: 398).

In tempi recenti assistiamo ormai ad una crisi mondiale dell’istruzione perché i diversi paesi stanno progressivamente riducendo l’importanza e la centralità degli studi umanistici nella formazione. Nella riforma universitaria italiana, in cui l’istruzione è concepita come “impresa produttiva”, le discipline letterarie perdono centralità diventando meramente accessorie oppure professionalizzandosi. La crescente importanza data all’idea di sviluppo economico ha portato a prediligere le materie tecniche e scientifiche, che sono senz’altro importanti, ma da sole non possono formare cittadini democratici consapevoli. Distratti dall’obiettivo del benessere, chiediamo sempre di più all’istruzione di preparare al mondo del lavoro per cui gli studi umanistici appaiono a molti privi di applicazione pratica (C. Mucci: 23-24). L’istruzione viene considerata utile principalmente alla ricerca di una occupazione ben remunerata e non funzionale alla crescita individuale e sociale, per cui la letteratura diventa sempre di più un oggetto misterioso per lo studente: “così accade all’insegnante di sentirsi chiedere da un alunno, e non dal più stupido, a che cosa serve la letteratura” (L. Mancinelli: 90). Oggi che la conoscenza è diventata funzionale è legittimo domandarsi cosa effettivamente “produce” chi si occupa di letteratura. I dipartimenti di ingegneria formano persone che costruiranno ponti, ma cosa fa materialmente un laureato delle facoltà umanistiche? Nulla di tangibile perché si misura con i valori umani e le forme d’arte senza le quali la vita non avrebbe senso. J. F. Lyotard sottolinea come

it has become an enviable rarity these days to obtain a salary in exchange for the kind of discourse that is commonly called philosophy. As the 20th century draws to a close, the statesmen and families who run the French secondary school system seem to want to have nothing to do with it. For according to the spirit of the times, which is theirs, to do is to produce; that is, to reproduce with a surplus value. Those who teach philosophy are thus condemned to decimation or worse, while those who have studied it remain unemployed or give themselves up as hostages of their professions (J. F. Lyotard: 72).

M. Klages afferma che i dipartimenti di studi letterari producono effettivamente qualcosa: la conoscenza, in modo particolare la conoscenza delle opere letterarie e della storia, della critica e della teoria letteraria (M. Klages: 2006). Se è inevitabile che l’università riproduca il sistema dominante, è dovere dei docenti trovare  il modo di resistere a tutto questo.

Come afferma M. Ryan, i docenti radicali e i cosiddetti “business technocrats” hanno sostanzialmente la stessa visione dell’ Università, ma per ragioni diverse. Entrambi concordano che l’Università sia sostanzialmente al servizio del capitalismo “by providing  it with trained manpower, technology, and new knowledge” (M. Ryan: 45). Ma mentre i primi deplorano questa situazione, i secondi fanno tutto quanto è in loro potere per favorirla. L’Università così concepita finisce per incanalare le persone all’interno di ristrette funzioni economiche e non mira al pieno sviluppo delle facoltà umane. Tutto questo si riflette anche nella divisione disciplinare dell’accademia, ma

to study business instead of, say, language or politics is to assume implicitely that the latter have nothing to do with business, which is an independent, isolable realm, as the singularity of the word suggests (M. Ryan: 54).

La suddivisione disciplinare dell’accademia non è una scelta innocua e apolitica come potrebbe sembrare e riflette una volontà di classificare il mondo esterno che, di fatto, è impossibile dal momento che nella realtà tutte le discipline si sovrappongono e non esistono in modo differenziato. L’insegnamento disciplinare sviluppa nel discente una tendenza a pensare il mondo secondo compartimenti stagni che non hanno nulla in comune e questa tendenza è rinforzata  nel mondo del lavoro dove non esistono impieghi per i generalisti. Ma, soprattutto, l’insegnamento deve essere sganciato dalla realtà e la cultura deve dare l’impressione di non avere nulla a che fare con il mondo. Per questo si incoraggiano le lauree specialistiche più che i dottorati e i docenti vengono confinati nella “torre d’avorio” del loro sapere accademico. In questo modo si rafforza l’inerzia mentale e si contribuisce a creare nazioni popolate da persone addestrate tecnicamente ma incapaci di pensiero critico, abili a fare profitto ma prive di fantasia: “come disse Tagore, un suicidio dell’anima” (M.C. Nussbaum: 153). 

La supremazia di una conoscenza frammentata nelle diverse discipline rende incapaci di individuare il legame fra le parti e la totalità perché informazioni e dati isolati sono insufficienti se non vengono ricollegati al contesto per stimolare l’intelligenza generale. L’iperspecializzazione impedisce di vedere il globale e il cittadino perde il diritto alla conoscenza, può forse acquisire un sapere specializzato compiendo studi ad hoc ma è espropriato di ogni punto di vista inglobante. Mentre la cultura generale sollecita a contestualizzare ogni informazione, la cultura scientifica e tecnica parcellizza e disgiunge i saperi e porta all’atrofia della naturale disposizione mentale a contestualizzare (E. Morin: 41). Il proliferare di metodi di verifica cosiddetti “oggettivi” come standard tests, multiple choice, ecc. anche per le discipline umanistiche dimostra come questa mentalità abbia pervaso l’insegnamento. Contro l’iperspecializzazione si scaglia anche D. Lessing la quale afferma che in passato una persona veniva considerata colta se conosceva gli scrittori greci e latini, i maggiori classici europei e quelli del proprio paese e aveva letto la Bibbia. La società contemporanea è invece popolata da “educated barbarians” e cioè individui che hanno trascorso 20-25 anni ad istruirsi ma non hanno letto niente, non conoscono la storia e ignorano ogni cosa al di fuori della disciplina in cui si sono specializzati (D. Lessing: 48).

La letteratura, al contrario, non è una materia costituita da un sapere definito e non aspira all’esattezza o all’oggettività. È per sua natura interdisciplinare perché finalizzata ad un processo di attività critica che porta a liberarsi dalle costrizioni culturali e individuali. La letteratura, luogo della polisemia, ha necessariamente a che fare con l’interpretazione e con la creazione di un significato personale. Nessuna lettura dell’opera letteraria sarà mai esaustiva per cui gli studi critici, focalizzandosi su elementi diversi del testo letterario, forniranno interpretazioni diverse della stessa opera, nessuna delle quali potrà mai essere considerata definitiva. Qualunque sia l’approccio prescelto, la letteratura rivela aspetti dell’esistenza che altrimenti passerebbero inosservati, creando una particolare percezione di fatti ed eventi che spesso procede a sovvertire quella socialmente condivisa. La grande letteratura sa efficacemente rappresentare le posizioni più eterogenee e pertanto si configura come una costante ricerca della “verità”. Le grandi opere differiscono da quelle meno artisticamente apprezzabili proprio perché non sono mai saturate neanche dalle interpretazioni più intelligenti e sofisticate (A. Locatelli: 148). L. Mancinelli infatti sostiene che non è sufficiente dire che lo studio della letteratura abitua la mente all’analisi dei fatti dell’esistenza, perché esso acquista validità nella misura in cui dimostra che

tanto la produzione letteraria quanto le teorie sulla letteratura sono parte integrante e inscindibile di un processo storico che racchiude in sé tutte le forme del sapere (L. Mancinelli: 48).

Nel corso di una celebre intervista, alla domanda “Si può insegnare la letteratura?”, R. Barthes risponde “Il ne faut enseigner que cela” e spiega che essa è certamente un codice narrativo e metaforico ma è anche il luogo in cui si possono incontrare tutti i campi del sapere, per cui non è tanto importante diffondere un sapere sulla letteratura ma quanto presentarla come mediatrice del sapere (R. Barthes: 17).

T. Todorov aggiunge che lo studio della letteratura ha un ruolo vitale come mezzo di conoscenza dell’esperienza per cui è la migliore preparazione per tutte le professioni basate sui rapporti umani:

quale aiuto più prezioso potrebbero trovare il futuro operatore sociale o che si occupa di psicoterapia, lo storico o il sociologo? Avere come maestri Shakespeare e Sofocle, Dostoevskij e Proust non sarebbe come approfittare di un insegnamento eccezionale? E come non capire che un futuro medico, per esercitare la sua professione avrebbe più da imparare da questi stessi maestri che dai concorsi di matematica, che oggi determinano il suo avvenire? (T. Todorov: 82).

 

Monica Manzolillo

Liceo Scientifico “Glorioso”, Montecorvino Rovella (Sa)

 

BIBLIOGRAFIA

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    • Armellini G., Come e perché insegnare la letteratura, Bologna, Zanichelli, 1987.
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Pubblicato il 11/04/2017