Monica Fabbri - “Ed ella mi rispose come un greco”

I Greci di Dante

 

Non è facile esprimere quanto Dante sia stato fonte di ispirazione della mia didattica in questi anni di insegnamento. La frequentazione della Divina Commedia nelle aule scolastiche mi ha permesso di notare una straordinaria corrispondenza tra gli studenti e le terzine dantesche, nonostante sia stata più volte ribadita dalla critica la lontananza del mondo odierno dal pensiero del sommo poeta.

Mi stupiscono gli alunni che si accorgono di ‘interessarsi’ a Dante, che iniziano a considerarlo descrittivo e decisivo per sé, come se in qualche maniera le rime imparate a memoria riuscissero a fotografarli. Oggi non crediamo quasi più a nulla di ciò a cui credeva Dante. Non crediamo alla sua visione del cosmo, così essenziale alla sua invenzione poetica. Né crediamo più alla sua geopolitica o al mondo oltremondano creato con tanta potenza di fantasia dal poeta della Commedia.

Ogni classico si allontana da noi nel tempo e il rapporto dei testi antichi con la modernità modifica rapidamente il patto di credibilità fra l’autore e i suoi sempre più distanti lettori. Ma l’assoluta novità è, invece, il contrasto tra il naturale allontanarsi da noi, nel tempo, di quel mondo, e l’accelerazione inversa della presenza di Dante nella nostra cultura.

Si sa che Dante, nel corso della storia italiana ed europea, è stato a lungo più lodato che amato.

 

Saverio Bettinelli nelle Lettere virgiliane ci fa toccare con mano il fastidio del razionalismo classicista per il mondo dantesco, quel mondo di “ciance da nulla”. Il suo Virgilio esclama:

“Oh che sfinimento non fu per noi lo strascinarci, per cento canti e per quattordici mille versi, in tanti cerchi e bolge, tra mille abissi e precipizi con Dante, il qual tramortiva ad ogni paura, dormiva ad ogni tratto, e mal si svegliava, e noiava me, suo duca e condottiere, delle più nuove e più strane dimande che fosser mai! Io mi trovava per lui divenuto or maestro di cattolica teologia, or dottore della religione degl’idoli, insieme le favole de’  poeti e gli articoli della fede cristiana, la filosofia di Platone e quella degli arabi mescolando, sicché mi pareva essere troppo più dotto che non fui mai, e meno savio di molto che non sia stato vivendo e poetando. Acheronte, Minosse, Caronte, il Can trifauce ben io conoscea nell’Inferno poetico; ma, in un con loro, il Limbo e i santi padri, e con essi in poca distanza Orazio satiro, Ovidio, Lucano, indi a poco un castello, ove stanno Camilla e Pentesilea con Ettore e con Enea, Lucrezia, Iulia, Marzia, Corniglia e Saladino soldano di Babilonia con Bruto, infin Dioscoride con Orfeo, Tullio con Euclide, e con tal gente i due arabi Averroe ed Avicenna, tutto ciò veramente m’era novissimo, e non sapea più dove mi fossi. Cerbero «il gran vermo», e una grandine che con lui tormenta i golosi, non è egli un supplizio ben pensato? Plutone, che comincia «Pape Satan Pape Satan aleppe», e a cui fo io complimento dicendogli «maledetto lupo», io che l’avea posto in un trono di re; il ghiaccio e il fuoco, le valli e i monti, le grotte e gli stagni d’Inferno, chi può tutto ridire“

 

Eppure, nonostante i giudizi ben poco lusinghieri dei sostenitori del mondo classico, la bibliografia dantesca è a dir poco oceanica. La cultura contemporanea, anche e soprattutto quella popolare, si riappropria del mondo dantesco: basti pensare alle seguitissime letture di Roberto Benigni, valido strumento didattico;  e il dilagare del dantismo nel mondo dei videogames e della fiction di consumo.

 

Perché un autore appartenente ad un’epoca lontanissima risulta così potentemente contemporaneo? Possono essere tante le questioni da considerare. I temi affrontati dal sommo poeta (l’amore, la politica, il nostro destino su questa terra) sfidano il tempo e potrebbero aspirare ad un sorta di imperturbata perennità; oppure, la bellezza del testo che coinvolge emotivamente attraverso un linguaggio che si raffina sempre più fino a raggiungere la sublime perfezione del Paradiso.

Eppure gli studenti rimangono colpiti e affascinati dalla completa immedesimazione di Dante nel proprio tempo, dalla sua capacità di aderire totalmente e intensamente al suo presente. Nessun altro classico è così pieno del suo tempo quanto la Commedia. E questa pienezza di contemporaneità, invece di allontanare Dante da noi, ce lo rende, paradossalmente, più vicino. La Commedia è stata definita un instant book o anche un instant movie per la precisione degli avvenimenti, dei personaggi del tempo in cui fu scritta, delle immagini visionarie. Per essere più precisi diventa un colossale spettro, che ci dà l’ illusione di poterci muovere in ogni direzione della storia umana, alla ricerca spregiudicata di ciò che sia importante, decisivo addirittura, per il nostro destino personale. Tutto risulta allora funzionale alla comprensione del senso della nostra vita, di ciò che a noi accade o potrebbe accadere. Si è parlato di antropocentrismo della Commedia o di umanesimo dantesco in cui la destinazione di ogni individuo della nostra specie diventa il perno intorno a cui ruota il senso della storia. Tutto, il destino della Chiesa, il mondo antico, si fa contemporaneo nella percezione di quell’uomo del Trecento, perché tutto converge nella vicenda esemplare del suo smarrimento e della sua redenzione. Tutto si fa presente in lui, perché tutto deve servire al suo percorso dalla selva oscura all’ abisso di luce su cui si chiude il poema.

Nel suo io tutto converge e tutto diventa sincronicamente importante, al di là di ogni umana cronologia. Tutto ha significato e ogni cosa produce senso. Per questo verso, si potrebbe concludere che lo spasmodico bisogno di Dante del nostro tempo sia una forma, in fondo, di lancinante nostalgia. Quando si scrive di lui, una miriade di saggi ben più completi e significativi, stanno per essere pubblicati. E allora perché cimentarsi in questa ardua impresa? Perché non se ne può fare a meno. Perché proprio quell’universo culturale dantesco, tanto dileggiato dal Virgilio di Bettinelli, è uno spazio infinito talmente misterioso nella sua unità da non avere eguali nella storia della letteratura.

Dante come Google, anzi più potente di Google. Per anni si è voluto escludere dal mondo dantesco la cultura greca o meglio la si comprendeva solo tradotta, perché il sommo poeta non conosceva la lingua greca e non aveva la benché minima intenzione di impararla. Eppure, all’interno di questa colossale enciclopedia, prende consistenza l’universo greco-bizantino tanto da poter identificare una lingua non corretta grammaticalmente, ma sperimentale, che si potrebbe definire il “greco di Dante”.

Che cosa sapeva Dante di Omero? Si è scritto di tutto e di più. Significativo l’apporto di Giovanni Cerri in Dante e Omero il volto di Medusa. Il canto IX dell’Inferno, dove emerge il volto di Medusa, desta numerosissime domande tanto da considerare alquanto limitato il mito della conoscenza del greco preclusa all’Occidente dopo la caduta dell’Impero Romano.

Inoltre, il mondo classico in particolare nella Divina Commedia e nel Convivio  si declina attraverso i molteplici riferimenti alla matematica e ai filosofi greci.

 

Devo aggiungere un altro aspetto che mi ha sempre colpito moltissimo: alcuni autori  contemporanei riprendono il mondo classico attraverso il filtro dantesco. Si consideri per tutti un esempio: la poesia “Buffalo” di Eugenio Montale, che appartiene alla raccolta Le Occasioni.

 

Un dolce inferno a raffiche addensava

nell’ansa risonante di megafoni

turbe d’ogni colore. Si vuotavano

a fiotti nella sera gli autocarri.

Vaporava fumosa una calura

sul golfo brulicante; in basso un arco

lucido figurava una corrente

e la folla era pronta al varco. Un negro

sonnecchiava in un fascio luminoso

che tagliava la tenebra; da un palco

attendevano donne ilari e molli

l’approdo d’una zattera. Mi dissi:

Buffalo! – e il nome agì.

Precipitavo

nel limbo dove assordano le voci

del sangue e i guizzi incendiano la vista

come lampi di specchi.

Udii gli schianti secchi, vidi attorno

curve schiene striate mulinanti

nella pista.

 

Il poeta si trova in un velodromo e attende una gara ciclistica: descrive casualmente quello che vede. Ravviva l’elenco con allusioni abbastanza chiare alla scena di Caronte nel  terzo canto dell’Inferno di Dante, e con un lessico che sembra prelevato da quella zona della Commedia: le raffiche (v. 1), le turbe (v. 3), i fiotti (v. 4), il golfo brulicante (v. 6), la zattera (v. 12), il limbo (v. 14), i guizzi (v. 15), gli schianti (v. 17) – più che la descrizione di un velodromo sembra, per l’appunto, la descrizione di un girone infernale.

 

W. Most Glenn, a conclusione del suo saggio I Greci di Dante, commentando il sonetto “Un dì si venne a me Malinconia”, si domanda:

“All’epoca in cui scriveva questa poesia, qualche decennio prima del suo incontro nell’Inferno con Ulisse, Dante poteva essere assolutamente sicuro di non essere anche lui stesso, in qualche senso, un greco?”

 

Un dì si venne a me Malinconia

e disse: ‘Io voglio un poco stare teco’;

e parve a me ch’ella menasse seco

Dolore e Ira per sua compagnia.

E io le dissi: ‘Partiti, va via’;

ed ella mi rispose come un greco:

e ragionando a grande agio meco,

guardai e vidi Amore, che venia

vestito di novo d’un drappo nero,

e nel suo capo portava un cappello;

e certo lacrimava pur di vero.

Ed eo li dissi: ‘Che hai, cattivello?’.

Ed el rispose: ‘Eo ho guai e pensero,

ché nostra donna mor, dolce fratello’.

 

 

Bibliografia

Saverio Bettinelli Lettere virgiliane e lettere inglesi, a cura di E. Bonora, Einaudi, 1977

Giovanni Cerri Dante e Omero il volto di Medusa, Argo, 2007

Glenn Warren Most, I greci di Dante, “Belfagor”, 61, 2006

Eugenio Montale, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, 2018

 

6 ottobre 2020