(La nave di Teseo editore, 2019
Si propongono indicazioni per una lettura a scuola dell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, Il colibrì, vincitore dell’edizione 2020 del Premio Strega.
Il romanzo - per il quale si pensa a una lettura casalinga, ma guidata dall’insegnante e con possibili attività di approfondimento o di apertura verso altre letture – è consigliabile come storia avvincente, caratterizzata da una lingua agile e fortemente innervata di elementi del parlato corrente. In esso troviamo inoltre una vivace attenzione al quotidiano, ma giocando sulla compresenza tra gli eventi privati dei personaggi e lo sfondo della storia pubblica italiana, dal 1960 ai nostri giorni (anche se la vicenda, come si vedrà, si conclude in un futuro vicino).
La riconoscibilità immediata dell’universo narrativo (di esperienze e di linguaggio) può essere perciò un buon punto di partenza per una lettura che si apra eventualmente a suggestioni molteplici: sia come occasione di riflessione sulla lingua (tanto per le soluzioni lessicali che sintattiche) sia come apertura verso topoi letterari riscontrabili in varie letture della modernità ottocentesca e novecentesca.
Si propone perciò una scheda del romanzo, che vuole essere un laboratorio, con linee di lavoro molteplici, che l’insegnante può seguire in parte maggiore o minore, e riarticolare a seconda della propria sensibilità e, soprattutto, a seconda delle sensibilità, conoscenze e attività già svolte dagli allievi.
La scheda/romanzo qui proposta, sarà dunque così articolata:
1) Un dettagliato riassunto che vuole essere una mappa di immediata utilità per l’insegnante per muoversi all’interno del testo (si indicano per ogni luogo le pagine, facendo riferimento all’edizione del 2019)
2) Si offrono, senza pretesa di sistematicità, spunti di approfondimento nell’analisi testuale; di carattere narratologico; stilistico; semantico/espressivo.
3) Si presenta una schedatura esemplare (ma dettagliata) di particolari fenomeni linguistici, sia lessicali che sintattici, che possono offrire interessanti spunti di riflessione sui meccanismi linguistici del parlato e della comunicazione quotidiana.
4) Si suggeriscono infine alcuni percorsi di approfondimento di tematiche e topoi letterari, che possono fornire spunti all’insegnante, o per il recupero e l’accostamento di letture fatte o che possono eventualmente caratterizzare un percorso di letture in fieri.
IL TITOLO*
[*I numeri tra parentesi in corsivo indicano le pagine del romanzo nella prima edizione del novembre 2019]
Partiamo dal titolo. “Colibrì” è il soprannome che il protagonista della vicenda, Marco Carrera, riceve dalla madre nella prima età (22, 150, 155) per via di una complessione minuta, ma graziosa e proporzionata, dotata di leggerezza e velocità. Anche dopo il tumultuoso sviluppo dell’adolescenza, dovuto a una cura ormonale (22, 316) e, più tardi, quando l’infelicità e il dolore diventano la cifra della sua esistenza, il soprannome gli resta attaccato (173), come emblema del suo carattere strenuo, agile, resistente. Mentre intorno a lui tutto viene inesorabilmente travolto, Marco non cede, si sottrae al cambiamento (296) librandosi in una singolare immobilità o risalendo a ritroso nel temps perdu (296), così come un piccolo colibrì, con settanta battiti di ali al secondo, è capace di restare immobile in volo o anche di volare all’indietro (296).
INDICAZIONI PARATESTUALI E TESTUALI
“Colibrì” sta per ostinazione, plasticità e resilienza (318): è l’istinto con cui il protagonista resiste ai numerosi “potenti urti emotivi” che lo colpiscono (15) e difende la sua umanità. A ciò fanno riferimento la citazione integrale della poesia Colibrì di Raymond Carver (91) e la paradossale epigrafe posta in esergo al romanzo, tratta dal finale de L’innominabile di Samuel Beckett: «Non posso continuare. Continuerò». Da qui la definizione di emmenalgia (295), per descrivere questa nuova particolare condizione antropologica. Nelle note poste in appendice, che sotto l’etichetta “Debiti” dicono molto sul contesto culturale e ideologico del romanzo, scopriamo chi ha coniato questo neologismo (i linguisti G. Meacci e F. Serafini, 365) e il suo significato: «emmenalgia è un senso di struggimento malinconico per il desiderio di voler continuare ad oltranza» (295).
INVENTARE UNA BIOGRAFIA
La vita di Marco, medico oculista (13, 244), e della sua famiglia si svolge in un arco di tempo che va dal 1960 al 2030. Sullo sfondo, i cambiamenti epocali intervenuti nella società italiana a partire dall’ultimo quarto del Novecento fino l’impetuoso sviluppo tecnologico più recente.
Una miriade di informazioni sul protagonista e di dettagli cronachistici minuti (nomi, date, luoghi, fatti, avvenimenti politici e di costume, canzoni, libri, fumetti, film, marchi commerciali, griffes, trasmissioni televisive, documenti, lettere, circostanze e personaggi celebri o secondari), si intrecciano e si richiamano a distanza, costituendo il tessuto di una narrazione biografica volutamente desultoria e disorientante, tesa a scoprire dall’interno il senso di un’esistenza normale (viene da dire ordinaria) e borghese che «ha sempre continuato a srotolarsi allo stesso modo: stando ferma per anni mentre quelle degli altri andavano avanti, e poi di colpo eruttando in un improvviso evento eccezionale che lo sbalzava [ndr. il protagonista] in un altrove sconosciuto» (318).
Qual è, dunque, la fabula di questa complessa partitura? Il gioco è questo: estrapoliamo gli eventi che costituiscono il complicatissimo intreccio, poniamoli in ordine e mettiamo in evidenza il loro significato (direbbero gli storici) evenemenziale. L’effetto è straniante. Come in un almanacco, nella loro nuda evidenza i ‘fatti’ sono banali e mediocri, talvolta ridicoli. Abbiamo qui, forse, una seconda chiave di interpretazione: il romanzo come biografia di un everyman in cui si rispecchia il destino di tutta una generazione.
I DETTAGLI DELLA STORIA
I. Infanzia e adolescenza
Il protagonista della storia, Marco Carrera, trascorre un’infanzia apparentemente felice nella bella casa di P.zza Savonarola a Firenze, arredata con raffinati oggetti di design (45), in un ambiente colto e benestante, pervaso «da una certa arrogante sensazione di superiorità tipica di certe famiglie borghesi degli anni Sessanta e Settanta» (45).
Il padre ingegnere e la madre architetto garantiscono a lui, a Irene la sorella maggiore e al più piccolo Giacomo una vita agiata e senza preoccupazioni, fatta di comodità quotidiane, di partite a tennis e gare sciistiche, di vacanze a Bolgheri e in montagna.
Sotto questo «moscio benessere» (43), Marco a quattordici anni scopre, attraverso i litigi tra il padre e la madre che lo tradisce sistematicamente, di avere una famiglia saldamente e ipocritamente «inchiodata all’infelicità» (44). Un senso di libertà o meglio di liberazione gli arriva dal gioco d’azzardo (36), a cui viene introdotto da un coetaneo, Duccio Chilleri, soprannominato Blizzard, rampollo di una facoltosa famiglia fiorentina, conosciuto sulle piste da sci e sui campi in terra rossa. Duccio, colpito da una sinistra e umiliante fama di menagramo (34), progressivamente recide i legami col proprio destino borghese (37) e finisce per dedicarsi interamente al gioco. Marco, invece, attratto dal gioco solo per l’emozione, il denaro e il sottomondo equivoco che lo circonda (37), riesce a proseguire la sua normale esistenza. Il sodalizio con Duccio Chilleri (38), ormai comunemente detto l’Innominabile, resiste fino a una data precisa, il maggio del 1979, quando si verifica un episodio straordinario. I due amici scampano a un disastro aereo (111), perché l’Innominabile Duccio, in escandescenze appena prima del decollo, dopo aver inveito contro i passeggeri e urlato frasi minacciose che alludevano alla loro imminente morte (68-69), trascina l’amico fuori dal velivolo.
Due mesi dopo lo scampato disastro Marco consuma il tradimento nei confronti di Duccio (115). Una sera racconta l’episodio agli amici, riportando i particolari della vicenda e le parole pronunciate dall’Innominabile e, così facendo, condanna l’amico, che gli aveva salvato la vita, all’infamia e alla definitiva emarginazione come iettatore (116).
II. Amore e matrimonio
A Bolgheri Marco conosce Luisa Lattes, una bellissima adolescente (116) che trascorre le vacanze estive nella proprietà confinante con quella dei Carrera. La incontra mentre, seduta sulla sabbia, legge il libro da lui preferito, Il dottor Živago di Pasternak (168). E’ un coup de foudre (198), ma Marco e Luisa, le cui famiglie sono da anni in contrasto, si danno in segreto il loro primo vero appuntamento solo due anni dopo (196), in una sera d’agosto senza luna, di una dolcezza infinita (207). Nello stesso momento in cui Marco con Luisa crede di aver toccato la felicità (206-207), la prima tragedia si abbatte sulla famiglia: Irene, la primogenita, come da lungo tempo ha preordinato (189), si suicida ai Mulinelli, il mare poco lontano da casa (183 e ss.). Per Marco «è la fine del mondo» (80). La morte della sorella separa per sempre i componenti della famiglia e provoca in lui dei sensi di colpa che lo allontanano da Luisa (29, 137). Si è verificato un cortocircuito fatale: Marco penserà sempre all’amata Luisa, ma pensando a Luisa non potrà non pensare alla sorella scomparsa (30). L’amore per Luisa è cerebrale, tormentoso e irrealizzabile, e quando l’amata si trasferisce a Parigi (63, 135) assume le forme di un moderno amor de lohn, con rari e fuggevoli incontri e uno scambio epistolare che proseguirà fino alla morte del protagonista. Intanto, diventato oculista, proprio come l’eroe di Pasternak (168), Marco si stabilisce a Roma e lì conosce Marina Molitor, hostess di origine slovena (140), che nel corso di una trasmissione televisiva riferisce di essere scampata per una provvidenziale combinazione allo stesso disastro aereo da cui Marco era rimasto indenne (131-132). Marina racconta, infatti, di essere sbarcata poco prima della partenza, perché convocata per donare il midollo alla sorella, ammalata di leucemia, che dopo il trapianto era purtroppo comunque deceduta. Marco non esita a crederlo ed è così ingenuamente suggestionato dalle coincidenze del racconto (il disastro aereo e la morte della sorella) da convincersi che con Marina esista un destino comune e una sorta di affinità elettiva. I due si sposano e dall’unione nasce la figlia Adele. Inizia una quieta routine matrimoniale, destinata, però, a incrinarsi quando Adele all’età di tre anni manifesta un grave disturbo ossessivo (la convinzione di essere legata con un filo dietro alla schiena; 94, 99) che supera solo allorché viene assiduamente affidata alle cure paterne (101-102). Marina, infatti, si dimostra sempre più inaffidabile, facendo emergere via via problemi di natura mentale, che si aggravano dopo la morte in Slovenia della madre: il disagio esplode e si riflette in comportamenti dissennati e in una serie vorticosa di adulteri, anche smaccati, che Marco tuttavia non riconosce e neppure sospetta (141). Nel cercare di comprendere le ragioni della disattenzione del marito, Marina viene a scoprire la relazione fra Marco e Luisa (143). A questo punto (e proprio da qui prende avvio il romanzo) entra in scena il dott. Carradori, lo psicoterapeuta che ha in cura Marina (14), per avvisare l’inconsapevole Marco che la moglie ha scoperto la sua relazione extraconiugale ed è determinata a vendicarsi di lui (19-27); inoltre è rimasta incinta di un altro uomo. Inizia la causa di separazione (55). Marco, umiliato dalle accuse della moglie, scopre che Marina lo ha sempre ingannato e che anche la storia dello scampato incidente aereo corrisponde a una pura finzione (144).
III. Nuovi lutti
Mentre Marina, in Germania al seguito del nuovo compagno, viene curata in una clinica psichiatrica, la vita di Marco, tornato a Firenze con la figlia, riprende il suo corso ordinario, sintantoché ai genitori non viene diagnosticato il cancro (230, 235). Inizia per loro la «Via Crucis sanitaria» (230), fino a quando non si spengono a breve distanza l’uno dall’altra (241-242): prima la madre e poi il padre, che ottiene da Marco la promessa eutanasia (244). Morti i genitori, Marco e il fratello decidono di “disfarsi” della casa di famiglia e dei suoi ingombranti ricordi (46,50). E’ un’operazione dolorosa che fa riaffiorare in Marco in modo vivido e struggente la memoria del passato (190). Superato il trauma per la morte dei genitori, trascorrono per Marco numerosi anni tutti d’un fiato e, incredibilmente, passano con «ottimismo e leggerezza» (162), in «un unico formidabile blocco di tempo» (162), facendo «un milione di piccole cose quotidiane» (163) senza che «un solo giorno fosse andato sprecato» (163), ma poi arriva per lui la prova più dura. La figlia Adele muore in un incidente durante un’arrampicata, causato dalla rottura della corda di sicurezza («Il filo…» esclamano Marco e il suo amico dott. Carradori, come se l’inquietante coincidenza con il disturbo ossessivo sofferto da Adele da bambina dimostrasse l’evidenza di un destino, 248). Marco si ritrova solo con la nipote nata due anni prima. Adele che, quasi per abolire spavaldamente la funzione paterna (166, 167), non ha mai voluto rivelare l’identità del padre, l’ha chiamata con un nome propiziatorio, Miraijin, che in giapponese significa «Uomo del futuro» (161).
Grazie alla piccola Miraijin Marco riesce a riemergere dall’atroce sofferenza per la perdita della figlia e a dare una spiegazione al corso della sua vita.
V. La ricerca di un senso
Osservando retrospettivamente la sua esistenza, Marco si convince di essere riuscito a resistere e a non crollare di fronte alle dolorose vicissitudini che l’hanno segnata per un solo scopo, per una sola missione (319): perché al mondo arrivasse Miriajin e a lui spettasse il privilegio unico di allevarla (318).
Marco riprende così la sua vita, concedendosi anche gli svaghi dell’antica gioventù: il tennis e il gioco d’azzardo, portando sempre al seguito la piccola Miriajin da cui mai si separa. Introdotto nel giro di accaniti giocatori che frequentano la casa del facoltoso Dami Tamburini (274) Marco, rincontra dopo quaranta anni Duccio Chilleri, che ha fatto della sua fama di iettatore una professione ed è stato chiamato al tavolo da gioco dal Dami proprio col preciso intento di rovinare Marco (289). Avvisato da Duccio della trappola che gli è stata tesa, Marco non si tira indietro (293-294): mentre in una stanza vicina la piccola Miriajin riposa, gioca per tutta la notte e, favorito dall’imprudenza, vince una cifra favolosa a Dami Tamburini, ma invece di incassarla, gliela restituisce, pretendendo in cambio l’archivio fotografico della madre donato alla Fondazione Dami Tamburini dopo la morte della congiunta (305-306). Il ripudio della logica del gioco e del piacere dell’azzardo (37), che celano disgusto e disprezzo nei confronti della vita (307), segna il passaggio all’accettazione di «una vita che non avrebbe mai voluto vivere» (267).
VI. Il futuro e la morte di un colibrì
L’ultima parte della vita di Marco Carrera è una storia futuribile dai tempi accelerati. La nipote Miraijin, prodigiosa incarnazione dell’“Uomo del futuro” per le molteplici attività a cui si dedica con eccezionale bravura e per la sua straordinaria bellezza (da “avatar” dei videogiochi, 320), rimane grazie a lui legata ai valori del mondo passato (329). Sembra davvero l’incarnazione di un nuovo tipo antropologico, le persone elette, gli uomini nuovi, le donne del futuro. Diverrà in ogni dove una celebrità di Internet, amata, rispettata, imitata, ma anche odiata, tanto da vivere in luoghi segreti (331) ed essere protetta da una scorta (332). Diverrà la protagonista della guerra feroce tra verità e libertà, schierandosi dalla parte della verità contro le “libertà” plurime e ostili, distruttive e irrazionali, disumane e ignoranti, arroganti e anomiche (329). Il legame di Miraijin con Marco, radicato in un mondo al tramonto, rimarrà intatto fino alla fine. A settanta anni, Marco scopre di avere una malattia incurabile. Con lucidità, memore del calvario dei propri genitori, sceglie di ricorrere ad un “suicidio assistito” (333). La nipote Miriajin riunisce per l’ultima volta nella vecchia casa di vacanze, l’angulus di Bolgheri, le persone che hanno avuto un ruolo importante nella vita del padre: il fratello Giacomo, Luisa, la moglie Marina con la figlia Greta, l’amico Daniele Carradori. Tra loro, in un giardino attraversato dall’ultimo sole di una giornata estiva (344), Marco si congeda dalla vita, affidandosi con leggerezza alla morte come si conviene a un «petit colibri» (353).
FABULA E INTRECCIO. VERSO L’ANACRONIA
“Il colibrì” è un ottimo romanzo, che cattura l’attenzione del lettore fin dalla prima pagina in virtù di un intreccio complesso e avvincente, strutturato con grande maestria in quarantasei capitoli non numerati, ciascuno dei quali, con titolazioni e date di riferimento, racconta scene della vita del protagonista in una successione rigorosamente non cronologica, con ampie sfasature dei piani temporali che tendono a rastremarsi nella seconda parte. Ne deriva una narrazione desultoria e apparentemente caotica, con la continua ripresa e la rifocalizzazione a distanza degli elementi narrativi; e alla fine tout se tient. Questa fluttuazione fra prolessi e analessi è uno strumento efficacissimo per fare emergere progressivamente coerenza, pathos e senso in una pletora di accadimenti biografici di per sé comuni, spesso minimali e non infrequentemente grotteschi. In qualche modo il romanzo esprime fiducia nella capacità di conoscenza della scrittura ed è la riprova di come un testo sia un sistema complesso variabile, i cui termini costitutivi assumono principalmente valore e significato a seconda di come gli uni si rapportano agli altri.
UNA RIFLESSIONE SUL GENERE LETTERARIO
Il libro, che secondo un’indicazione metatestuale incipitaria è «una storia dai molti centri… una storia dalle molte altre storie» (13), alterna senza deroghe capitoli (quelli dispari) di carattere prevalentemente diegetico (ma ne abbiamo anche alcuni interamente dialogici e uno “telefonico”), affidati a un narratore esterno onnisciente, e capitoli (quelli pari, marcati in corsivo) che riproducono dialoghi, scritture private e documenti redatti direttamente dai personaggi (lettere, più spesso d’amore, cartoline, e-mail, sms, elenchi di oggetti e libri). Insomma ci troviamo di fronte a un intarsio pregevole, a una forma di narrazione mista diffusa nel romanzo contemporaneo, in cui nell’insieme le parti più propriamente narrative non hanno maggiore importanza dei materiali esterni ad esse giustapposti. La varietà dei moduli narrativi è notevole e ardita: vengono, ad esempio, inseriti brani in buona parte estratti dalle voci di Wikipedia (169-172; 228-230), gli appunti per una relazione ad un convegno di oftalmologia (277-283), brani poetici (91, 191, 180-182, 357), citazioni di testi musicali (17, 362-363) e trovano anche spazio, con valore puramente iconico, ideogrammi giapponesi con relativa traduzione e interpretazione (169). Nel continuum narrativo di sequenze tipologicamente diverse emerge sul finire del romanzo un’ambigua voce fuori campo che sembra subentrare a quella del narratore nella descrizione degli eventi a venire.
Questa tipo di modularità narrativa, insieme alla citazione continua di nomi, luoghi, date, marche commerciali, oggetti di largo consumo, canzoni, fumetti, notizie di cronaca, etc… (ovvero, la presenza di tutto quello che ingombra la nostra quotidianità), rivela l’intenzione dell’autore di ottenere una prosa immediatamente comunicativa e realistica, ma con effetti patetici ed emozionali.
ATTRAVERSO UN CAPITOLO
Un esempio di adesione emotiva alle vicende e di immediatezza comunicativa ci viene fornito subito nel primo capitolo (13-15) dalla voce colloquiale del narratore. Come sempre anche questo capitolo viene titolato con una locuzione in esso contenuta; in questo caso si tratta di una proposizione incidentale (“si può ben dire”) ripetuta due volte, semanticamente e narrativamente irrilevante, ma significativamente caratteristica della lingua parlata adottata, come a indicare al lettore che la scrittura si uniforma all’oralità, riproducendone i fenomeni standard. Il narratore, inoltre, in questo capitolo prodromico all’intera vicenda accenna solo in modo sommario al carattere del luogo teatro dell’azione (il quartiere Trieste di Roma), ma si sofferma sui dettagli relativi alla topografia-toponomastica («all’angolo fra via Chiana e via Reno»), all’ubicazione della scena («al primo piano di uno di quei palazzi»), al tempo («in una mattina di metà ottobre del 1999»), alla professione del protagonista («Dott. Marco Carrera, dice la targa apposta alla porta del suo ambulatorio, specialista in oculistica e oftalmologia»), all’attività lavorativa («Sta prescrivendo una ricetta a una vecchia signora malata di blefarite ciliare»), alle indicazioni terapeutiche («collirio antibiotico… tendenza a cronicizzare»), all’onorario della prestazione medica («120.000 lire»), al physique du rôle dello psicoterapeuta che attende di conferire col protagonista («un ometto basso,… calvo e barbuto, dotato però di uno sguardo magnetico»), alle dotazioni e all’atmosfera dell’ambulatorio («ricca offerta di riviste nuove di zecca - non marce e vecchie di mesi – sparse sui tavolini… il banco della segreteria… il giradischi Thorens… incastonato nello scaffale insieme al fido amplificatore Marantz e alle due casse in mogano AR6»), all’affacciarsi rapido del medico sulla soglia dell’ambulatorio («Carrera fa capoccella per invitare il prossimo paziente»), alla musica di sottofondo e all’anno di incisione («Graham Nash … Song for Beginners, 1971») e alla cosa più vistosa di tutto l’arredamento, l’enigmatica copertina del disco sullo scaffale («Graham Nash con una macchina fotografica in mano»). Ecco, allora, che ricreata come in una scena cinematografica un’impressione di realtà e di normale quotidianità, il narratore ci avvisa che la vita ordinata dell’inconsapevole protagonista sta per essere sconvolta da una inaspettata rivelazione e conclude: «Preghiamo per lui, e per tutte le navi in mare». E’ questo il singolare appello posto alla fine del capitolo e ripetuto nell’explicit del romanzo (15 e 355), un appello che prepara all’emozione e alla partecipazione e che mantiene, nonostante l’amplificatio retorica della metafora della navigazione, un sapore di liturgia comunitaria in cui narratore, lettore e personaggio si trovano solidalmente uniti. Non a caso in altri passi del romanzo il protagonista diventa “nostro fratello Marco”, come nell’episodio della morte della figlia (215, 219). Sono i segnali dell’empatheia che impregna la narrazione, della volontà di calarsi nel personaggio, penetrare nei suoi sentimenti, comprenderne le sue apparenti contraddizioni identificandosi con lui e alla fine prendere posizione. La rappresentazione dei dolorosi avvenimenti (i «potenti urti emozionali», 15) che colpiscono il personaggio coinvolge emotivamente narratore e lettore, e accende un processo di identificazione per cui nelle peripezie del protagonista si riconosce un crisma di universalità.
LESSICO E SINTASSI
La lingua del romanzo si adegua allo scopo. La scelta lessicale si conforma (spesso con sottesa ironia) a tutte le varietà che caratterizzano la lingua d’uso del ceto medio italiano (quindi, secondo l’estrazione sociale dei personaggi, si potrebbe dire, celiando, che rispetta il principio del conveniens).
In sintesi, la mimesi del parlato, che si accentua nei discorsi diretti e nei dialoghi, molto serrati e privi di sostegni discorsivi esterni (verba dicendi), ma con marche grafiche ( ̶ ) poste alla fine delle battute bruscamente interrotte dall’interlocutore (22-23, 26-27), comporta largamente l’uso di forme:
- gergali, spesso del linguaggio giovanile e di moda: “fittonata” (35), “tosto” (41), “lontano ammazzato” (98), “toboga” (43), “beccarsi una rospata” (106), “magone” (116), “messaggini” (118), “schifio” (131), “d’un botto” (173), “ragazza Alfa del gruppo” (174), “fare un gran casino” (157, 239), “perdere colpi” (232), “mollare l’ambulatorio” (237), “bazzicare” (274), “andare per bocca” (267, 274), “farsela sotto” (282) “avatar dei videogiochi” e “opzioni di un menù” (320), “sciropparsi un maxi ingorgo” (345);
- dialettali e in dialetto: “capoccella” (14), “scarognato” (39, 290), “Anvedi questa!” (57), “Ma li mortacci sua!” (57), “Sta fija de ‘na mignotta” (57), “alla zitta” (58); “coatta” (141); “cazziare” (meridionalismo tipico del sermo castrensis, 153);
- interiettive: il comune “Be’” (22, 58, 121, 124, 300), oppure l’ironico “alè” (136, 233), o univerbazioni deprecatorie: “santiddio” (263) e “oddio” (246), “Eh,…” (299); Vabbé (26, 301, 306);
- giornalistiche: “angeli del fango” (224); “Austerity” (83);
- onomastiche proprie del fumetto e dei film di animazione: “Baron Samedi”, “Loa”, “Ypso” (40), “Bambi” (169), “Astro Boy” (326);
- colte e ricercate: “anatema” (38), “lessico” (39), “antifrastico” (43), “aeromobile” (112), “auspico” (118), “adefago” (169), “iamatologia” (173), “apotropaico” (176), “etimologico” (176), “discernimento” (331), “obliterate” (287), “ipnotico” (348);
- settoriali, medico-scientifiche: “blefarite” (14), “narcisismo” (38), “ipoevolutismo” (151), “biopsia” (231), “metastasi” (232), “chemio” (232), “protocollo chemioterapico” (232), “morfina solfato” (244), “post traumatico” (268), “antropometria” (316); “gastrostomia endoscopica percutanea” (342), “midazolam”, “benzodiazepina”, “propofol” (348);
- di neologismi: “crissare” (ricalcato sul latino cris‹s›are = dimenarsi, 78) , “emmenalgia” (grecismo, 295), “bacillario” (330);
- di forestierismi vari: “trance” (29), “déracinés” (43), “killer” (35), “diktat” (38), “boom sonico” (61), “fatwa” (71), “glambero” (223), “Godospiné” (“Oh, Signore” in serbo-croato, 84), “karmico (il quadro k. , 55), “steward” (69), “fatalities” (111), “hostess” (116, 131), “burnout” (120), “baby-sitter” (133), “club sandwich” (137), “bisex” (141), “bondage” (142), “mandala” (152), “buen retiro” (194), “loop” (199) “walkman” (199), “forfait” (184), “weltschmertz” (191), “dhukkha”, “bhagavā”, “bhikkhu” (sanscrito, 192-193), “soufflé” (208), “gratin” (208), “shock” (258), “WhatsApp” (259), “gilets jaunes” (297), “global warming” (325), “zombie” (343);
- di metaplasmi: “architetta” (43, 232), “sostituta procuratore” (249), ovvero, funzione professionale al genere femminile;
- di suffissati denominali in -oso: “vecchi catarrosi” (37), “capelli unti e forforosi” (39), “natura spettacolosa” (57);
- di acronimi: VIP (69), OPEC (84), OMS (120), ASL (243), POS, PIN, SMS, (278);
- di metafore e similitudini “espressionistiche” di uso comune: “arrovellarsi sudando” (71), “bolla di terrore” (60), “bolo di orrore” (111), “crosta che si era solidificata intorno alla sua figura” (40), “la psicoanalisi era come il fumo” (47); “zanne gialle e accavallate” (una dentatura, 28);
- di univerbazione grafica di un’intera frase: “perché-me-lo-dici-adesso” (264);
- di ideofoni e onomatopee pure: “bum di colpo” (83), “Tchhh. Tchhh. Tchhh.” (il rumore della puntina che raschia contro il solco finale del disco, 115), “tubavano, gnìgnìgnì” (come discorso indiretto libero, 143), “nel cuore della notte, driiin” (213, 214), “stac, rotta” (248);
- bassamente triviali: “stronzate” (27), “stronzo” (41), “incazzatura” (42), “figura di merda” (70), “in culo all’Ardeatina” (103), “calci in culo” (136), “scopare” (141), “cazzo” (onnipresente: 22 con tre occorrenze, 27, 40, 42, 81, 152, 194), “cazzoni” (143), “gran troia” (143), “coglioni” (152, 312), “sfrantumarsi le palle” (152), “vaffanculo” (152), “sputtanarsi” (225), “porca troia” (248), “minchiate” (325).
Nella mimesi del parlato c’è spazio anche per un elenco di parole, secondo le convenzioni, politically incorrect (330) e per la parodia del linguaggio politically correct, che si coglie in molti passi del romanzo: “come se le razze si riunissero dentro di lei, mi spiego? -Sì. Benissimo -Non è un discorso razzista, spero che lei capisca, dico ‘razza’ per comodità” (252).
Dal punto di vista sintattico si riscontrano più frequentemente questi fenomeni:
- una preferenza per la paratassi e la brevità delle frasi (nelle sequenze dialogiche sono spesso interrotte dall’incalzare degli interlocutori, come accade nella reale dinamica dell’oralità);
- una punteggiatura parca, utilizzata più che altro per connotare espressivamente il testo;
- lo scivolamento nei passi diegetici verso il discorso indiretto e indiretto libero (69): “Non è niente, ripeteva, e Duccio chiosava certo, qua moriamo tutti e non è niente”(68); ”Il ragazzone rimase interdetto, forse lo scambiò per uno steward perché gli mostrò la carta d’imbarco. Fuori dai coglioni! Via, sciò!” (69), “Ma come, ma che c’entra, ma che dici, ma è diverso: niente” (162);
- la tendenza alla nominalizzazione della frase “la mobilità del futuro era profetizzata nei cieli molto più che sulla terra o sull’acqua” (55);
- ampio impiego dello stile nominale con funzione prevalentemente descrittiva, ma anche riassuntiva “Luglio. Controra. Penombra. Lenzuola fresche. Cuscino fresco. Fresco profumo di neonato” (58-59); “Niente. A piedi. E quel giorno, in più la nebbia” (84);
- l’uso di locuzioni e connettivi tipici del parlato: “Solo che” (13, 141,142, 144), “cioè che” (102), “E invece” (55), “Il fatto è che” (36, 149), “Ora, è imbarazzante” (143);
- la brevità dei periodi e l’uso del “che” polivalente nel caso di una sequenza sintattica più lunga (60);
- le costruzioni a sinistra: “Il risultato è che Letizia prova di nuovo attrazione per Probo” (208), “Che non si facesse vedere proprio quell’estate, mentre lui portava la croce, gli sembrò la prova definitiva che era persa per sempre” (274); “Commovente sarebbe tutto, d’altra parte, di questa faccenda” (341);
- l’inserimento di interrogative dirette nella narrazione per dare dinamismo e rappresentare immediatamente il pensiero del personaggio: “E cosa del padre?” (45); “Dov’era la sua casa? Dov’era la piazza? Dov’era la chiesa?” (85) “Che senso aveva l’essere virtuosa, ora, se sua madre era sotto terra a farsi divorare dai vermi?” (141);
- larghissimo uso delle figure di ripetizione, tra cui la diafora: “la madre era ridotta come era ridotta” (162);
NOTABILIA
Il romanzo affronta alcune delle tematiche più largamente sentite e discusse nella cultura e nella società contemporanea, che possono essere oggetto di riflessione e di ulteriori approfondimenti. Si elencano, a mo’ d’esempio, alcuni di questi temi portanti e si propone un ipotetico confronto con alcuni testi letterari.
L’INFELICITÀ FAMILIARE
La famiglia sub specie infelicitatis e il tradimento coniugale sono il leit-motif del romanzo. Il tema ha un’ascendenza, ça va sans dire, che risale addirittura al mito, ma nella narrativa moderna viene declinato in senso psicologico e sociologico e diviene una sorta di lente di ingrandimento delle contraddizioni sociali e individuali. A tal proposito si può ricordare il folgorante inizio di “Anna Karenina” di L. Tolstoj (“Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”) per cominciare ad esplorare i motivi della fecondità narrativa di questo tema e notare il diverso trattamento che riceve da vari autori nel romanzo moderno.
Testi:
H. de Balzac, Papà Goriot
G. Flaubert, Madame Bovary
L. Tolstoj, Anna Karenina
G. De Maupassant, I gioielli
C. Boito, Senso, (Storielle vane)
G. D’Annunzio, L’innocente
L. Pirandello, Tutto perbene (Novella e Dramma), Il giuoco delle parti
L. Pirandello, L’esclusa, Il fu Mattia Pascal
I. Svevo, La coscienza di Zeno
L. Bianciardi, La vita agra
G. Simenon, Lettera al mio giudice
G. Von Rezzori, Un ermellino a Cernopol
IL RICHIAMO MORTIFERO DELLE ACQUE
All’immagine dell’acqua sono collegati due episodi centrali del romanzo, il suicidio della sorella in mare e la nascita della nipote con il parto “naturale” in acqua, quasi a rappresentare, con inevitabile attualizzazione, le pulsioni contrastanti di vita e morte, come nelle suggestive tesi di G. Bachelard sul diverso significato dell’acqua salina del mare e delle acque dolci terrestri. “Trasformare l’anima in gocce d’acqua e disperderle nell’Oceano” (Marlowe, Doctor Faustus, V, 2) è la tentazione comune a molti personaggi del mito e della letteratura: Ero e Leandro, Narciso, Alcione e Ceice, Ofelia. La letteratura moderna risente del fascino morboso dell’elemento equoreo e lo collega, in particolare, al tema del suicidio.
Testi:
E. A. Poe, La cassa oblunga
J. London, Martin Eden
Fogazzaro, Malombra
Pirandello, Il fu Mattia Pascal, E due
Th. Mann, Il piccolo signor Friedmann
M. Yourcenaur, Le memorie di Adriano
B. Fenoglio, Il gorgo
IL GIOCO: LUDOTERAPIA VS. LUDOPATIA
La vita borghese del protagonista del romanzo è connotata fin dall’origine da un forte agonismo, che si esplica ludicamente negli sport, ma anche dal costante richiamo del gioco, inteso, secondo la tradizionale classificazione proposta da R. Caillois nel 1958, come alea¸ ovvero come azzardo, sfida al proprio destino e al caso. Nel romanzo la questione del gioco viene presentata nei suoi aspetti contraddittori: è libertà e liberazione (36-40), accettazione del piacere e del desiderio (255-256), antidoto al dominio delle pulsioni di morte e strumento di elaborazione del lutto (272-273), ma è anche angustiosa avidità (38, 67), degradazione e disperazione (275, 286-287), alienazione patologica (39), arrogante disprezzo (307).
Testi:
Puskin, La dama di Picche
E. A. Poe, William Wilson
F. Dostoevskij, Il giocatore
A. Schnitzler, Gioco all’alba
L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal
T. Landolfi, Lettera di un romantico sul gioco, Mano rubata, Eterna bisca
MALATTIA E MEDICINA
Alcune pagine del libro (230-232; 234, 241,243- 244; 317, 332) presentano una riflessione su quello che Claudio Magris ha definito un potere immenso, addirittura di gran lunga maggiore di quello statuale, il potere della medicina. Alla tematica, ampiamente trattata nella letteratura moderna, si aggiunge anche la delicata questione dell’eutanasia, al centro del dibattito pubblico in Italia (245-246, 337-355)
Testi:
Th. Mann, La montagna incantata
Pirandello, Il dovere del medico
L. F. Céline, Il dottor Semmelweis
D. Buzzati, Sette piani
G. Bufalino, Diceria dell’untore
M. Governi, La casa blu
6 ottobre 2020