La storia fisica che ci han conservato le favole
Si propone qui non già un percorso antologico, ma un vero e proprio saggio storico-critico, che affronta un tema specifico, che può tuttavia fornire suggestioni importanti per un lavoro interdisciplinare tra Letteratura italiana, filosofia, Storia della scienza e Storia del pensiero religioso.
Le indagini di Giambatista Vico sul diluvio universale non costituiscono solo un’importante testimonianza della cultura europea del primo Settecento, ma pongono questioni stimolanti e attualissime, all’interno di dinamiche di pensiero che, tra la nascente antropologia, esegesi critica delle fonti storiche e interpretazione dei miti, caratterizzano una fase capitale della formazione del pensiero laico e scientifico moderno.
- Il diluvio: Principio della Storia universal Gentilesca
La storia del diluvio universale è la storia di un nuovo inizio. Genesi non equivoca le ragioni della catastrofe: è la malvagità degli uomini sulla terra a causare il dolore e la rabbia di Dio «Cancellerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato e, con l'uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fatti».
Che cosa inizia, allora, con il diluvio? Questa è la domanda che si pone Giambattista Vico nella Scienza Nuova. Non è una domanda banale all’inizio del XVIII secolo. Per i contemporanei di Vico il diluvio è ancora da intendersi come un evento incontestabile, che fonda storicamente il principio su cui si regge l’universalismo cristiano: tutti gli uomini sono discendenti di Adamo, tutti gli uomini subiscono la punizione del diluvio, tutti gli uomini subiranno il Giudizio universale. Il diluvio è, a tutti gli effetti, l’ultimo evento biblico che riguarda l’umanità nella sua interezza, prima della dispersione delle generazioni dei figli di Noè e il racconto della discendenza di Abramo e del popolo ebraico. In senso figurale esso anticipa il Giudizio universale e ne legittima la possibilità: come il diluvio spazza via dalla terra l’umanità corrotta, così il Giudizio universale, la realizzazione futura del primo, la redimerà per l’eternità. Nel mezzo ai due eventi, la storia dell’uomo.
Come ogni catastrofe naturale, il diluvio segna un’irriducibilità rispetto al passato, all’altezza della quale il tempo si arresta bruscamente. Racconteranno bene lo stesso senso di sbandamento del tempo i contemporanei del Terremoto di Lisbona del 1755; dal diluvio non si torna indietro, anzi, esso mette la sua cifra su ciò che segue. La storia profana, delle Nazioni gentili, ha il suo inizio con il diluvio; esso sta fuori dalla storia dell’uomo, è un evento naturale e divino e pertanto non riconducibile al comprendere e al fare umani, eppure di quella storia esso è il primo movimento. Lo leggiamo nelle parole di Vico:
Il Principio della Storia universal Gentilesca; la quale con pruove fisiche, e filologiche si dimostra aver avuto il suo cominciamento dal Diluvio Universale; dopo il quale a capo di due Secoli il Cielo, come pure la Storia Favolosa il racconta, regnò in Terra, e fece de’ molti, e grandi beneficj al Gener’Umano: e per uniformità d’idee tra gli Orientali, Egizj, Greci, Latini, ed altre Nazioni gentili sursero egualmente le Religioni di tanti Giovi; perché a capo di tanto tempo dopo il Diluvio si pruova, che dovette fulminare, e tuonare il Cielo; e da’ fulmini, e tuoni ciascuna del suo Giove incominciarono a prendere tai Nazioni gli auspicj; la qual moltiplicità di Giovi, onde gli Egizj dicevano, il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti, ha fatto finora maraviglia a’ Filologi: e con le medesime pruove se ne dimostra l’Antichità della Religion degli Ebrei sopra quelle, con le quali si fondaron le Genti, e quindi la Verità della Cristiana.[1]
In questo paragrafo sono riassunti i risultati di una ponderata presa di posizione all’interno dell’accesissimo dibattito sulla cronologia tradizionale e sui tempi della storia umana. I contemporanei di Vico iniziano a mettere seriamente in discussione la verità e l’universalità del diluvio; lo fanno a partire dallo studio dei fossili e delle conchiglie e trovano conferme dal confronto delle cronologie dei popoli conosciuti, che sembrano dimostrare una maggiore antichità delle storie egizia e cinese su quella ebraica - onde gli Egizi dicevano, il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti.[2] Nell’ortodossia dell’esegesi biblica, da Agostino fino a Vico, e oltre, storia sacra e storia universale coincidono. Eppure, già dalla metà del XVII Secolo, l’idea che il mondo potesse essersi popolato in seimila anni, secondo la cronologia canonica, per opera della sola stirpe di Adamo, cominciava ad accompagnarsi a forti perplessità. A questo proposito, Isaac La Peyrère aveva sostenuto, nel 1655,[3] l’esistenza dei Preadamiti, cioè di una popolazione umana precedente a Adamo. Il testo fu accolto con grande scandalo. Ne tiene traccia anche Vico, che ricostruisce per sommi capi una genealogia della deriva verso l’ateismo di alcuni pensatori che sarebbero stati attratti dalle antichissime antichità preadamitiche:
Pure benchè il Padre Michel di Ruggiero Gesuita affermi, d’aver’esso letti libri stampati innanzi la venuta di Gesu Cristo; e benchè il Padre Martini pur Gesuita nella sua Storia Chinese narri una grandissima Antichità di Confucio; la qual’ha indotto molti nell’Ateismo, al riferire di Martino Scoockio in Demonstratione Diluvj Universalis; onde Isacco Pereyro, Autore della Storia Preadamitica, forse perciò abbandonò la fede Catolica, e quindi scrisse, che ’l Diluvio si sparse sopra la Terra de’ soli Ebrei: però Niccolo Trigaulzio meglio del Ruggieri, e del Martini informato nella sua Christiana expeditione apud Sinas scrive, la stampa appo i Chinesi essersi truovata non più, che da due secoli innanzi degli Europei; e Confucio aver fiorito non più, che cinquecento anni innanzi di Gesu Cristo: e la Filosofia Confuciana, conforme a’ Libri Sacerdotali Egiziaci nelle poche cose naturali ella è rozza, e goffa; e quasi tutta si rivolge ad una Volgar Morale, o sia Moral comandata a que’ popoli con le leggi.[4]
L’ipotesi dei Preadamiti apre le porte alle successive teorie poligeniste, cioè quelle teorie che a partire dal XIX secolo negarono la discendenza dell’umanità dalla sola coppia adamitica. Sostenere queste tesi innescava una catena di conseguenze difficilmente conciliabili con la lettera del Testo sacro: se Adamo non fosse stato il primo uomo, allora la Bibbia avrebbe raccontato la storia di un popolo e non di tutta l’umanità, il diluvio di Noè non sarebbe stato universale ma avrebbe riguardato solo gli ebrei, la cronologia si sarebbe dilatata enormemente e avrebbe aperto lo scenario inquietante e oscuro di sterminate antichità precedenti la creazione di Adamo.
- «Tutte le storie gentili hanno favolosi i principi»
Uno dei capisaldi della Scienza Nuova vichiana è proprio il rovesciamento delle ipotesi sulle sterminate antichità delle Nazioni e sulla loro presunta sapienza riposta, che va di pari passo con il ribaltamento dell’immagine colta dei primordi dell’umanità.
Fin dalle prime confutazioni delle tesi di La Peyrère, gli apologeti del testo biblico relativizzano le presunte antichità antecedenti alla storia narrata nella Bibbia, contrapponendole a quella come “storie favolose”. Vico si inserisce in questa corrente apologetica, seguendo la strada tracciata da Martinus Schook nella Fabula Hamelensis (1622), e utilizzando la fortunata espressione “boria delle Nazioni”. Si veda questo passo del filosofo napoletano:
III. Della boria delle Nazioni udimmo quell’aureo detto di Diodoro Sicolo, che le Nazioni o greche, o barbare abbiano avuto tal boria, d’aver’esse prima di tutte l’altre ritruovati i comodi della vita umana, e conservar le memorie delle loro cose fin dal Principio del Mondo.
Questa Degnità dilegua ad un fiato la vanagloria de’ Caldei, Sciti, Egizj, Chinesi d’aver’essi i primi fondato l’Umanità dell’antico Mondo.[5]
Il tema della vanagloria e della presunzione dei popoli (lo ha documentato diffusamente Paolo Rossi), diviene quasi un topos letterario dopo la metà del Seicento. Nessuna originalità quindi nella tesi vichiana, che pure suona come una “discoverta” nella lingua affabulatoria della Scienza Nuova: «Tutte le storie gentili hanno favolosi i principi».
- Tra favola e vera narratio
Quando Vico parla di storie gentili, o barbare, intende le storie che cominciano dopo il diluvio, con i figli di Noè e in particolare con la progenie di Jafet e Cam. I discendenti di Sem, infatti, conservarono la vera religione e modi civili. Dopo il diluvio, narra Vico:
le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’ error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale Diluvio potesse mandar’in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta.[6]
Bisogna cercare nei miti e nelle favole dell’umanità post-diluviana, la verità sulla cosiddetta «sapienza riposta» delle Nazioni. Il diluvio segna l’inizio di un nuovo ordine di storie, che si discostano dalla Storia sacra, così come l’ebraismo lascia il posto a «le religioni di tanti Giovi». Uno straordinario evento naturale, catastrofico, genera un cortocircuito nel corso storico e lascia tracce.[7] L’interesse esclusivo della Scienza Nuova è per le tracce lasciate dalla storia civile, che non sono esclusivamente, come scrive Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, nell’apertura de Le epoche della natura (1778), le medaglie e le iscrizioni: «Come nella storia civile si consultano i documenti, si ricercano le medaglie, si decifrano le antiche iscrizioni, per determinare le epoche delle rivoluzioni umane e verificare le date degli eventi morali; così nella storia naturale si deve rovistare negli archivi del mondo, si devono estrarre dalle viscere della Terra i vecchi monumenti, raccogliere i loro resti per poter stabilire le differenti stagioni della Natura».[8] È curioso che lo stesso paragone tra storia civile e storia naturale lo proponga anche Vico, con uno spostamento epistemologico, però: la nuova scienza di Vico non è storia della Natura, e neppure storia civile nel senso di Buffon; è bensì filologia critica, e ha come oggetto le favole, vera narratio degli Autori delle Nazioni post-diluviane:
le Favole, che sono le medaglie de’ tempi, ne’ quali si fondarono le Nazioni gentili e sì accertarne i costumi con una Critica Metafisica sopra essi Autori delle Nazioni; dalla quale doveva prendere i primi lumi questa Critica Filologica sopra degli Scrittori; i quali non provennero che assai più di mille anni dopo essersi le Nazioni fondate.[9]
Il mito e le favole sono le medaglie dei tempi e non sapienza riposta; esse devono essere interpretate, esercitando la corretta distanza filologica, come originaria modalità di pensiero dell’umanità ai suoi albori. Dinanzi all’immensa congerie di fatti, frammenti e macerie che queste sterminate antichità possono offrire, lo strumentario della filologia, risemantizzata su nuove funzioni – fanno parte della nuova filologia anche l’epigrafia, la numismatica e la cronologia (Vico, De Constantia) – è il più idoneo a raccogliere le sfide di una nuova scienza. Una «Nuova arte critica», così la chiama Vico, nasce all’incrocio fra storia universale e antiquaria; ha come oggetto un sapere empirico, deputato a ricostruire la storia delle cose risalendo fino alle favole delle prime Nazioni gentili e ritrovando nelle modificazioni della propria mente umana il criterio per interpretare quelle favole. È sufficientemente ampio il campo epistemologico della filologia per ospitare questa ridefinizione dei suoi oggetti? Per esercitare questo sforzo ermeneutico, che è anche uno sforzo di conoscenza di sé, bisogna saper vivere le vite degli altri, anche quelle dei nostri antenati più lontani, allargare le maglie della propria esperienza e alimentare il senso che rende possibile la filologia come scienza, quello che Vico chiama il senso comune del genere umano. Come scrive un grande lettore di Vico, Erich Auerbach: «La filologia è possibile perché basata sul presupposto che gli uomini possono comprendersi fra di loro, che esiste un mondo umano comune a tutti, appartenente ad ognuno, accessibile a chiunque: senza questa fede non ci sarebbe la scienza dell’uomo storico, non ci sarebbe la filologia».[10]
Se la corpulenta fantasia dei primi uomini si condensa in contenuti poetico-immaginifici, anche la nostra mente razionale dovrà fare lo sforzo di risalire a quella modalità di pensiero, rintracciandola dentro sé stessa.
- Giove fulmina, ed atterra i Giganti
La ricerca filologica ha a che fare col ritrovamento dei principi, del punto o dei punti di partenza, dell’inizio di una tradizione. Trovare un inizio non vuol dire necessariamente riavvolgere il nastro della tradizione, di essa non è scontato infatti che si conoscano le tappe. Un inizio si fa largo tra gli eventi per la sua densità di significato e si dimostra capace di raccordare attorno a sé una costellazione di elementi che compongono la sua storia. La Scienza Nuova è il più grandioso tentativo di raggiungere una sintesi storica a partire dal ritrovamento del principio del mondo civile in un preciso evento, il diluvio, e in un atto dell'uomo successivo a quell’evento ma a esso connesso: il processo di attribuzione a un intervento divino diretto quell’evento. Così, spiega Vico, il fenomeno naturale dei ‘fulmini’ trova in tutte le culture e civiltà un ‘Giove’ di essi generatore:
che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar’in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi […][11]
Forse la scoperta più significativa per la maturità intellettuale di Vico è proprio la visione della struttura mentale dei primi uomini, i giganti atterrati dal fulmine di Giove dopo il diluvio. Negli anni che intercorrono tra il De antiquissima e la prima edizione de La Scienza Nuova (1725), Vico si occupa di storia del diritto romano e studia le teorie del diritto naturale attraverso la lettura degli scritti di Grozio, Selden, Pufendorf e Hobbes. Questa direzione dei suoi studi lo porta ad interessarsi personalmente a questi stessi temi: tra il 1720 e il 1721 compaiono le dissertazioni in latino De universi iuris principio et fine uno del 1720, e il De constantia iurisprudentis del 1721; con La Scienza Nuova del 1725 la forma di diritto, le istituzioni e la mentalità dei primi uomini diventano l’oggetto principale, il nucleo dell’opera. Questa scoperta è così rilevante perché Vico, prima di tematizzare usi e costumi dei primordi della civiltà, si rapporta ai suoi primi uomini con una curiosità ermeneutica di cui cerca di spiegare i presupposti. La sua indagine fondamentale non è motivata dall’interesse per la loro specifica natura, ma dai motivi stessi che rendono possibile questa indagine e quindi la comprensione della natura dei primi uomini.
Erich Auerbach non rimane insensibile di fronte alla logica profonda che animò questa ricerca, comprendendone le elevate pretese: Vico – secondo il grande critico – si pone il difficile compito di verificare le condizioni di possibilità del Verstehen, [‘comprendere’, ‘capire’, in tedesco] sostanzialmente come se lo erano posto anche i suoi maestri dello storicismo tedesco. Si vedano queste parole di Auerabch:
Egli [Vico] scoprì che i primi uomini non erano né esseri innocenti in un idilliaco stato di natura, e neppure bestie mosse dall’istinto di autoconservazione, quanto piuttosto creature isolate piene di paura e spavento di fronte al caos della natura misteriosa e proprio per questo terribile. I loro primi suoni furono espressioni di spavento, e tentativi di esorcizzarlo. Per Vico il primo uomo non possedeva la ragione ordinante e calcolatrice dell’uomo di cultura, ma solo senso e fantasia; egli non era dunque un vecchio immaturo, ma un bambino. Questo uomo dai sensi robusti e ricco di fantasia personificò le forze della natura, vide in esse esseri superiori, dèi, che gli rivelavano la loro volontà nelle loro manifestazioni, tempesta, fulmine, tuono; egli cercò di interpretare e soddisfare questa volontà attraverso riti, formule magiche, cerimonie, che erano del tutto fantastiche e rituali, e totalmente irrazionali; cosicché il primo uomo in questi primi riti si poetava [dava una rappresentazione poetica de] la sua vita, e le cerimonie poetiche rituali erano l’inizio del suo diritto e dei suoi costumi.[12]
Sgombrato il campo dalle ipotesi “addottrinate”, Vico ricolloca il mito e le favole nell’ambito di una narrazione vera, testimonianza del modo di pensare e immaginare dei primordi dell’umanità. È in queste storie che si deve andare alla ricerca della verità del diluvio. Il punto di partenza di Vico sono le rappresentazioni della civiltà dell’uomo nelle epoche della storia universale e non la complessità del sé rischiarata dai lumi del suo secolo. Giganti, eroi e famuli esistono in lontananza e rispetto ad essi è impensabile ogni riconoscimento che ambisca a sussumerli sotto le categorie del presente. Vico si spinge fino agli albori della civiltà con lo scarso materiale documentario e archeologico a lui disponibile e trova l’uomo allo stato ferino, prima del linguaggio, completamente immerso nei sensi e nella paura, e lo vede finalmente portarsi in posizione eretta, alzare la testa al cielo, terrorizzato dal fragore del tuono, il primo rumore di Dio, che chiamerà Zeus.
- La Religion’Ebraica fu fondata dal vero Dio sul divieto della Divinazione; sulla quale sursero tutte le Nazioni Gentili.
Nascere pagani (Gentili) significa nascere nella storicità, costruire le proprie istituzioni e fingersi i propri dei, essere condannati a produrre storia e a viverci perennemente. La storia fatta dall’uomo deve porsi il problema dell’inizio, che ha a che fare con la divinazione e l’immaginazione di dio. Immaginarsi Dio è una prerogativa delle Nazioni gentili, che le differenzia dal popolo ebraico, quasi una qualità antropologica fondamentale.
Iniziare una storia è un compito arduo, come lo è ogni inizio, figurarsi quando quella storia è la storia dell’uomo. Quale miglior inizio di una catastrofe, figlia di una trasgressione e di una conseguente punizione divina, il diluvio, per stabilire un ordine diverso e divergente rispetto a quello della storia che l’ha preceduta, la storia sacra. E come ogni inizio, secondo la definizione che ne dà Edward Said in Beginnings,[13] anche questo è il primo passo in una intenzionale produzione di significato, quasi un atto di divinazione per l’appunto, che istituisce un'autorità per ciò che segue e rappresenta una discontinuità rispetto a ciò che lo precede.
A pensarci bene ogni vero inizio è sempre e comunque una trasgressione, una discontinuità e una rottura con la tradizione. Mentre la storia sacra continua uguale a sé stessa con i figli di Sem, per i Gentili tutto è da fare. Quale migliore immagine poteva scegliere Vico per stabilire il suo inizio di quella di una terra desolata e fradicia in cui vagano esseri più simili a bestie che a uomini, con robustissimi sensi e nessun raziocinio? Le possibilità creatrici in questo scenario sono straordinarie e infinite e i primi uomini sono detti da Vico “poeti”, «che lo stesso in greco suona che “criatori”»[14].
L’uomo primitivo non è il portatore ingenuo di un grazioso parlare poetico; la sua facoltà poetica è piuttosto una facoltà creatrice di corpulente rappresentazioni, che intervengono ad esorcizzare o a descrivere la paura e la meraviglia ancestrali dinanzi ai fenomeni naturali e che si concretizzano in istituzioni e leggi con i primi moti sociali, all’incontro con l’altro. I primi riti propiziatori o in onore della divinità erano cerimonie poetiche, racconti corali, e i primi sacerdoti erano rapsodi e cantori. Le leggi e il diritto eroico nascono in queste cerimonie come formule poetiche che acquisiscono valore sacrale nel momento stesso in cui vengono recitate.
Non dobbiamo immaginare che quello delle Nazioni gentili e della storia profana sia un regno dell’arbitrio assoluto; l’unica storia possibile per Vico è comunque quella che accade nella cornice della Provvidenza. La Provvidenza è l’orizzonte di irriducibilità entro il quale si rende possibile credere e conoscere il proprio mondo; essa guida gli uomini in tutte le fasi della loro storia e del loro processo creativo. Non si può disconoscere l’elemento trascendente all’interno del mondo storico, come motore della creazione umana e come orizzonte di riferimento di ogni comprendere. È infatti la Provvidenza, e non l’uomo, il Dio della storia e la sua è una «Teologia civile ragionata della Provvidenza divina».
L’uomo non è il Dio della storia, può conoscere sé stesso e le sue alienazioni perché egli stesso le ha fatte, ma non può comprenderne il significato immediato, nel momento stesso in cui le fa; piuttosto, nella considerazione complessiva del corso delle cose del mondo, come storia ideale eterna, egli può intravedere i piani della Provvidenza, può ripercorrerne i confini tracciati, cercare di comprenderne le motivazioni, perché è essa stessa un fatto storico. L’orizzonte della Provvidenza, che sovrasta l’uomo come «un cielo in forma di enorme cupola barocca», secondo la fortunata formula di Auerbach, è la cornice di riferimento che delimita l’agire e il conoscere umani, mai immediatamente trasparenti a sé stessi, ma opachi e per ciò stesso oggetto dei più svariati tentativi di comprensione degli studiosi.
- Riepilogamenti e ricorsi della storia
Se usiamo l’opera del ‘vichiano’ Edward Said, Begininngs, come lente di ingrandimento per leggere il senso della scelta vichiana di stabilire il diluvio universale come inizio e della storia profana e della temporalità dei Gentili, troviamo utilissima la distinzione semantica tra il concetto di origins e quello di beginnings proposta dallo stesso Said.[15]
Un’origine imprime al corso storico un procedere teleologico, come quello della storia sacra, orientata ineluttabilmente e linearmente verso un fine e una redenzione. Un inizio ha, invece, un carattere secolare o gentile, e non è compatibile con una nozione di tempo lineare o teso verso un telos. Occorre ipotizzare una temporalità diversa, un tempo pieno, costellato di sopravvivenze che si depositano sul fondo del corso della storia ma possono riemergere e tornare ciclicamente.
Può sembrare strano che nella Scienza Nuova si parli diffusamente del diluvio ma non sia mai citata la sua attualizzazione figurale e escatologica, il Giudizio universale. Il diluvio sta fuori dalla storia profana, è un evento della storia sacra, l’unico di cui si parli nella Scienza Nuova, che intende raccontare il nuovo tempo dei Gentili, creativo e ciclico, e lascia ai margini della narrazione quello lineare del popolo eletto.
La ciclicità è, se ci facciamo caso, il movimento stesso della Scienza Nuova. Lo studente che si avvicini all’opera vichiana potrà aprirne a caso una pagina e seguire l’autore per alcuni capoversi rendendosi conto dell’andamento sinusoidale del discorso e dei continui riferimenti interni che riempiono il testo. La Scienza Nuova è un’opera densa, nel senso che non ha spazi vuoti, spazi deliberatamente lasciati da Vico perché siano riempiti e interpretati dal lettore; è l’autore stesso ad interpretarsi continuamente e a infittire la trama dell’opera con ridondanze e ripetizioni. L’esperimento del lettore poco avveduto che apre una pagina a caso della Scienza Nuova rappresenta, al contrario di quanto si possa immaginare, il miglior esempio di lettura esperta del testo. Vico ci ha lasciato un’opera senza inizio e senza conclusione che è la perfetta immagine del corso storico che intendeva rappresentare. La metafora dell’acqua del fiume, che Vico usa per rappresentare visivamente l’avvicendarsi delle epoche storiche, è utile per comprendere la costruzione vichiana, della sua opera e della sua Storia ideale eterna: il lettore e l’interprete, anche immergendosi in punti diversi del libro o del tempo storico, troveranno persistenze e continuità, avvertiranno i mutamenti di temperatura e di corrente, ma sapranno di muoversi nelle stesse acque, «come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l'acque portatevi con la violenza del corso». Auerbach descrive con precisione questa condizione della storia universale vichiana: «La storia universale è in continuo movimento ma pur nel suo movimento è un eterno stato platonico».[16] Rispetto alle storie universali di matrice illuminista e poi idealista, la storia di Vico non trova ordinamento nella coscienza tassonomizzatrice dell’uomo moderno, essa è refrattaria a incasellamenti e a linearità e lascia tracce difficilmente inscrivibili in un continuum storico-temporale. «L’affinità tra Vico e il nuovo pensiero filologico si salda proprio nella concezione di uno sviluppo che per sua natura lascia e deposita “rottami”,[17] residui, persistenze che offrono all’interprete l’attrito necessario alla “presa” ermeneutica»[18]. In questo panorama di rottami e residui della storia la filologia è lo strumento metodologico e ermeneutico più adeguato a comprendere il passato che si affaccia sul presente. La filologia, come sostiene a ragione Silvia Caianiello in un confronto con il modello cumulativo dello storicismo di matrice illuministica e idealistica, «approfondisce la percezione della “resistenza” fattuale del passato all’assimilazione senza residui in una cumulatività ascensionale dell’esperienza storica, passibile di concludersi in una ragione assoluta».[19]
Con il diluvio universale si apre la storia universale, che non pretende tuttavia di essere l’emanazione e la realizzazione di una ragione assoluta, ma di tante piccole ragioni particolari, quelle dei creatori, degli autori delle Nazioni: i primi, quelli che «si finsero il Cielo esser’ un gran Corpo animato, che per tal’ aspetto chiamarono Giove, il primo Dio delle Genti»[20], e gli ultimi, contemporanei, uomini e donne che possono credere in questo mondo, perché sono sempre loro stessi e continuamente a crearlo: fingunt simul creduntque.
27 giugno 2022
[1] G. Vico, La Scienza Nuova 1744: testo, manoscritto, editio princeps. Edizione elettronica a cura del Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR. Laboratorio dell’ISPF. 2015, vol. XII. DOI: 10.12862/ispf15L101, Spiegazione della dipintura, p. 17
[2] P. Rossi, I segni del tempo, Storia della Terra e Storia delle Nazioni da Hooke a Vico, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 152-153: «il duro giudizio di tanti autori (e di Vico) su libri dall’apparenza così innocua come quelli di John Marsham (1671) e di John Spencer (1670 e 1686) può essere spiegato solo tenendo presente questa situazione culturale. Anche perché, ed è importante sottolinearlo, la tesi di una trasmissione di contenuti culturali dagli Egiziani agli Ebrei si legava fatalmente all’affermazione del carattere non isolato dello sviluppo storico del popolo ebraico. Nelle pagine del Canon chronicus aegyptiacus, hebraicus, grecus di John Marsham (1671) si tracciavano le linee di una storia comparata degli Egiziani, dei Caldei, dei Greci, degli Ebrei. […] Sulla base di una prospettiva molto simile, nel De legibus hebraeorum (1686), John Spencer aveva analizzato il sistema giuridico mosaico considerandolo come una tra le molte strutture organizzative del mondo più antico e sottolineando gli elementi di somiglianza tra le leggi ebraiche e quelle degli altri popoli».
[3] La Peyrère, Praeadamitae sive Exercitatio super Versibus duodecimo, decimotertio, et decimoquarto, capitis quinti, Epistolae D. Pauli ad Romanos, quibus inducuntur Primi Homines ante Adamum conditi, 1655, trad. it. a cura di G. Lucchesini e P. Totaro, I Preadamiti / Praeadamitae (1655), Ed. Quodlibet, Macerata 2004.
[4] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 40.
[5] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 61.
[6] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 44.
[7] A differenza di molti suoi contemporanei, Vico non ricercò le tracce del diluvio nei resti naturali, conchiglie e fossili sulla cui collocazione e morfologia si generarono le interessanti e talvolta fantasiose ricostruzioni di storici e naturalisti dell’epoca, bensì nelle favole e nelle storie fisiche delle Nazioni che, dopo il diluvio, tornarono a popolare la terra. Per ricostruire la genealogia delle teorie sul diluvio sono fondamentali P. Rossi, PERSPECTIVE - L’oscuro abisso del tempo. In Journal of Mediterranean Earth Sciences, 1. https://doi.org/10.3304/JMES.2009.010, 2014; e M.S. Seguin, Déluge et déluges: de la pluralité des mondes au polygénisme, in Presses Universitaires de France, «Dix-septième siècle» 2003/4 n° 221, pages 685 à 694.
[8] G-L. Leclerc, conte di Buffon, Les époques de la nature, 1778, incipit, traduzione mia.
[9] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 146.
[10] E. Auerbach, Giambattista Vico und die Idee der Philologie, In Homentage a Antoni Rubió i Lluch, I., Barcelona 1936, trad. it: Id.,Vico e l’idea di filologia, in Id., San Francesco, Dante, Vico, Editori Riuniti, Roma 1987, p. 64.
[11] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 44.
[12] E. Auerbach, Introduzione a La Scienza Nuova [1947], trad. it. a cura di M. Bensi, in Storiografia Rivista annuale di storia, Fabrizio Serra Editore, n. 19, Pisa-Roma 2015.
[13] Cfr. Said E. W., Beginnings: intention & method [1975], Granta Books, Londra 2012.
[14] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 104.
[15] E. W. Said, Beginnings: intention & method, ed. cit., pp. 372-373.
[16] E. Auerbach, Vico und der Volksgeist, in Wirtschaft und Kultursystem. Festschrift für Alexander Rüstow, Eugen Rentsch, Erlenbach-Zürich/Stuttgart 1955, trad. it. Id., Vico e il Volksgeist, in Id., San Francesco, Dante e Vico, Editori Riuniti, Roma 1987.p. 245.
[17] Sul concetto di “rottame” in Vico cfr. P. Cristofolini, Scienza nuova. Introduzione alla lettura, Roma 1995, § 5.3.I: Piccola digressione sulle streghe, riferita alla degnità XL della Scienza nuova del 1744.
[18] S. Caianiello, Vico e lo storicismo tedesco, in «Laboratorio dell’ISPF», VIII, 2011, ½.
[19] S. Caianiello, Vico e lo storicismo tedesco, in «Laboratorio dell’ISPF», VIII, 2011, ½.
[20] G. Vico, La Scienza Nuova 1744, ed. cit., p. 105.