Marzia Nurchi - Proposta di lettura di Espérance Hakuzwimana, Tutta intera

Torino, Einaudi, 2022

 

Gli studenti potrebbero essere più stimolati a leggere integralmente un romanzo se potessero “seguirne” l’autrice su Instagram, quindi avere l’impressione di conoscerla? Probabilmente sì. A maggior ragione se si trattasse di una attivista giovane e carismatica. Nel caso della scrittrice Espérance Hakuzwimana, esordiente come narratrice con il romanzo Tutta intera, questa scelta non implicherebbe la rinuncia all’adozione di un romanzo dai forti contenuti educativi e con uno spessore letterario non banale, tutt’altro. Attraverso una narrazione vivacissima, nel suo romanzo l’autrice tratta tematiche complesse e di bruciante attualità, come il significato dell’identità italiana nel nuovo contesto globale, la “bianchezza” imposta, la “nerezza”, le molteplici e spesso invisibili forme di razzismo interiorizzato, l’adozione internazionale interrazziale. Accanto a queste se ne ritrovano altre che stanno particolarmente a cuore ai giovani: il rapporto con i genitori, il valore dell’amicizia, la diversità, l’omologazione, le relazioni sentimentali, la malattia, il lutto.

 

Essere neri in Italia

La protagonista del romanzo è una ragazza nera che è stata adottata quando aveva due mesi da un’amorevole famiglia bianca ben inserita nel contesto in cui vive. Non ha dovuto affrontare un lungo viaggio per trovare una famiglia adottiva: è nata nella stessa città italiana in cui è cresciuta, ma nella sponda opposta del fiume che la attraversa. Quella descritta nel romanzo, infatti, è una città nettamente divisa da un fiume che assume il ruolo di delineatore di confine tra parti che non hanno mai costruito un’unica comunità. Sul piano simbolico, la divisione definita dal fiume riproduce a livello locale la distinzione globale tra Nord e Sud del mondo. Da una parte vivono gli italiani, dall’altra i migranti, molti dei quali lavorano per gli italiani:  ma è un attraversamento quotidiano del fiume/confine che non colma differenze e subalternità. Al di fuori dall’orario e dal luogo di lavoro i migranti non sono accolti di buon grado nel quartiere italiano; né gli italiani frequentano il quartiere dei migranti (nel romanzo denominato Basilici: un nome ricorrente nel romanzo, per le valenze emotive e simboliche legate al luogo e alla sua forte connotazione socio-culturale). È una separatezza introiettata dalla protagonista che non ha mai avuto né desiderio né occasione di addentrarsi nel proprio quartiere di origine. Eppure, è solo lì che vivono persone che le somigliano nei tratti somatici. Nel suo quartiere nessuno è nero come lei, per cui la protagonista si trova a dover costantemente confermare agli sconosciuti di essere la figlia dei propri genitori adottivi, ma anche una cittadina del suo quartiere, quasi a dover giustificare la propria esistenza.

Il tema della nerezza è preponderante e trattato in maniera originale, e questa è una delle ragioni per cui sarebbe importante affrontare la lettura di questo romanzo in classe.

Al colore della pelle è data una grande importanza: è proprio questo fattore, in una immediatezza percettiva caricata di radicati e archetipici valori simbolici, a marcare la distanza tra la protagonista e le altre persone (familiari, amici, compagni di scuola, sconosciuti ecc.). L’ipervisibilità data dalla pigmentazione denuncia costantemente la sua condizione di figlia adottiva, la espone ad angherie e atti discriminatori.

La narrazione, utilizzando un punto di vista interno e autodiegetico, illustra in maniera efficace che cosa significhi essere una persona nera in Italia oggi; producendo così un effetto straniante (il lettore è portato a identificarsi con la voce narrante) che non solo fornisce uno strumento utile per avviare una riflessione sulle tematiche legate alla diffusione del razzismo, all’identità italiana, alle questioni di attribuzione di cittadinanza, ma soprattutto può produrre un effetto di empatia e di consapevolezza delle difficoltà quotidiane che mettono a dura prova la stabilità emotiva delle persone non-bianche nel nostro Paese, fino a fare emergere in termini critici e problematizzanti le dinamiche che mantengono le persone bianche in una posizione privilegiata, ma per lo più inconsapevole. Da questo punto di vista, si tratta di un romanzo che è evidentemente rivolto agli e alle italiane bianche affinché conoscano i vissuti dei migranti e delle persone che non detengono i caratteri somatici che il senso comune identifica come ‘italiani’. La protagonista, infatti, non solo si sente italiana, ma lo è a tutti gli effetti, anche dal punto di vista legale, al contrario di tante altre persone che nascono e crescono nel nostro paese, ma non sono riconosciute cittadine italiane dalla legge.

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso si è delineata una vera e propria ‘letteratura migrante’[1], in cui alcuni critici (come ad esempio Armando Gnisci)[2] hanno individuato tre fasi cronologiche. Dopo gli esordi (1990-1995), e una seconda fase collocabile nella seconda metà dei Novanta, alcuni critici hanno individuato una terza e ultima fase, cominciata nel 2001, con l’uscita di Traiettorie di sguardi di Geneviève Makaping, e seguita il racconto Salsiccie di Igiaba Scego (2003), caratterizzata dal passaggio da una predominante testimoniale nel racconto di esperienze e traversie, a una riflessione specifica sui temi di razza e cittadinanza.

Tutta intera rientra dunque nella terza fase, sia per la datazione (il romanzo è stato pubblicato nel 2022), sia per la presenza di tematiche, per così dire, ‘oppositive’. Questo romanzo parla anche ai e per i figli dei migranti, i quali difficilmente possono identificarsi nei personaggi dei romanzi che normalmente si leggono a scuola, in cui i protagonisti hanno sembianze occidentali, così come accade, per esempio, nella narrazione cinematografica. Questo fattore è espresso anche nel romanzo, tramite la riluttanza di alcuni giovani a seguire la protagonista in biblioteca, a lasciarsi catturare dal mondo della letteratura proprio perché considerato mondo di altri, mondo in cui non si sentono rappresentati. La protagonista invece, indotta amorevolmente alla lettura fin da molto piccola dai propri genitori adottivi, riesce comunque a rifugiarsi in quel mondo di fantasia, presentando l’esperienza della lettura come salvifica.

In questa narrazione si riconosce l’intenzione dell’autrice di dare voce ai ragazzi e le ragazze di seconda generazione, raccontare le loro storie con un linguaggio realistico in modo tale che possano sentirsi rappresentati e soprattutto valorizzare le loro competenze, come la conoscenza di più lingue, la responsabilità di farsi carico di questioni burocratiche o di assistenza ai propri familiari quando questi non conoscono bene l’italiano.

 

La vicenda

Tutta intera è un romanzo di formazione. A formarsi è una giovane donna, Sara Righetti, che conduce una vita per molti versi routinaria in una cittadina tranquilla, famosa per la produzione di pesche. È l'unica figlia di un rispettabile professore di liceo e della cuoca della mensa dell’asilo. Sara ha un fidanzato e degli amici, una nonna, dei cugini. La sua famiglia è imparentata con uno dei personaggi di spicco della città, Zio Robi, che è il responsabile di un grande frutteto (nel romanzo è ‘il’ frutteto: quasi a dilatarne l’importanza nella realtà sociale della cittadina). Zio Robi può dare o togliere il lavoro ai braccianti a suo piacimento, decidendo il loro destino.

Il punto di svolta nella vita della giovane è costituito da un’esperienza lavorativa: il parroco le dà la possibilità di insegnare in una scuola nel quartiere della sua città a lei sconosciuto. Sarà questa esperienza lavorativa – lezioni di potenziamento a ragazze e ragazzi con difficoltà - a farla entrare in contatto con una realtà totalmente nuova, con studenti con cui fatica a rapportarsi, ma che le danno la possibilità di adottare un nuovo sguardo sia verso di loro che verso sé stessa, la famiglia ed il suo quartiere. È l’avventura, densa di riflessi interiori, di una giovane donna che affrontando difficoltà e vicissitudini che, pure essendo di dimessa quotidianità, le consentono di maturare consapevolezza di sé, accettazione ed orgoglio delle proprie origini.

L’intreccio segue due linee parallele. Una è costituita da ciò che accade quando la protagonista ha ventitré anni, e si svolge in modo cronologicamente lineare; l’altra è costituita da episodi e ricordi del passato che riaffiorano: ma non appaionjo come un dato memoriale che si affaccia alla coscienza della narratrice; sono invece eventi di immediata e vivezza: non a caso raccontati sempre al tempo presente, come a sottolineare l’ineludibilità del passato che in qualche modo costruisce il presente.

L’arco di tempo in cui si snoda Tutta intera è di una ventina d’anni, a partire dagli anni Novanta, quando la protagonista è bambina.

 

I personaggi

La relazione che Sara intrattiene con i diversi personaggi mette in luce le sfaccettature del suo carattere.

Madre: Giuliana, comprensiva, amorevole e protettiva, soprattutto nei confronti degli attacchi discriminatori che Sara riceve dall’esterno. Rappresenta per la giovane una guida che la accompagna nella valorizzazione e nella conoscenza di sé stessa. La mancanza del suo sostegno, dovuta alla malattia e poi alla morte, svelerà che la sua mediazione era fondamentale nel rapporto tra padre e figlia.

Padre: finché Sara è bambina, egli è di grande ispirazione e rappresenta per lei un modello a cui assurgere ed un punto di riferimento fondamentale. Quando però Sara cresce e viene a mancare il supporto di Giuliana, il loro rapporto si incrina, trasformando per certi versi la figura del padre in quella di un antagonista.

Rico: amico d’infanzia. È una persona particolarmente eccentrica e presa da sé, spesso incapace di offrire ascolto e sostegno. Attraverso questo personaggio, che lega amorosamente con le persone in quanto tali e non in quanto maschi o femmine, l’autrice presenta con molta naturalezza il discorso della fluidità di genere.

Marta: migliora amica di Sara. Sono coetanee, ma Marta ha acquisito un alto livello di maturità dato dalla propria condizione familiare; infatti, per via della depressione materna la giovane deve farsi carico della cura di sé e dei fratelli più piccoli. I suoi consigli e giudizi, anche se amari, sono fondamentali per Sara.

Luca Tuan: è l’unico bambino che Sara conosca ad essere stato adottato. Viene bullizzato dai compagni per i suoi tratti somatici asiatici, producendo così un senso di frustrazione e di rabbia che egli riversa su Sara, denigrandola e instillando dubbi e paure sull’adozione (si vedano ad esempio queste poche battute del ragazzino: “Tu lo sai quanto sei costata? […] Non lo sai? […] I nostri genitori ci hanno comprato, hanno pagato per portarci a casa […] Io sono costato come una nave da crociera, cento milioni perché i miei sono venuti a prendermi in Asia. Tu sarai costata niente perché ti hanno presa nel ghetto, dall’altra parte del fiume.” p. 44).

Matteo: indicato con M., è il fidanzato. La relazione con lui permette di esplorare l’evoluzione delle relazioni sentimentali al di là della fase dell’innamoramento, palesando che l’amore non basta per stare insieme. La protagonista ha bisogno di essere vista per quello che è, sostenuta negli scombussolamenti che vive, ma Matteo non è in grado di farlo, quindi Sara deciderà di lasciarlo, dando l’esempio di una donna che non mette sé stessa e i propri bisogni in secondo piano in nome dell’amore. Si consideri questo stralcio di dialogo (tratto da p. 199), che viene ridotto alla pura essenzialità vocale – quasi in assenza di verba dicendi o di elemnti descrittivi della scena:

 

Una volta hai fatto una battuta su di me che sono nera e al buio non mi si vedeva […]

E quindi? mi domanda per saperne di più.

Io ho riso. Hai riso a una battuta idiota, ok, e allora?

Io ho riso a una battuta fatta da te sulla mia pelle.

Sara non sto capendo.

Lo so.

 

Zio Robi: ha due facce, quella simpatica dello zio, affettuoso e dedito alla famiglia, e quella spietata dell’imprenditore che sfrutta i lavoratori ed è razzista nei confronti dei migranti. Si tratta della figura che subisce più di tutte una rivalutazione da parte della protagonista condizionata dalla consapevolezza acquisita grazie alla frequentazione del quartiere Basilici.

Parroco: Don Paolo è un amico di famiglia. All’inizio e per quasi tutto il romanzo rappresenta la figura del buon parroco che lascia la porta della sagrestia aperta per accogliere i suoi parrocchiani. Solo alla fine del romanzo acquisterà un grosso peso in quanto si scoprirà che è stato il fautore del destino di Sara, ovvero è colui che ha messo in moto l’adozione, scegliendo per Sara una famiglia o viceversa.

Studenti e studentesse di Basilici: Si tratta di giovani dalle diverse provenienze. Sostanzialmente le loro famiglie non hanno il tempo o le competenze per aiutarli con la scuola, che risulta un ambiente a loro ostile. Fanno difficoltà ad inquadrare ed accettare Sara, in quanto danno più peso alle differenze culturali che all’apparente somiglianza fisica.

 

“Pensiero bianco”

Soprattutto attraverso le dinamiche del rapporto tra la protagonista e gli studenti, Hakuzwimana intende far comprendere la differenza tra essere bianchi e sentirsi bianchi, qualcosa che va oltre la mera pigmentazione cutanea, investendo il modo di pensare, di pensarsi e di essere pensati. Sara Righetti, cresciuta in una famiglia bianca, all’interno di un quartiere bianco, in una città a prevalenza bianca si sente bianca ed è considerata tale dai conoscenti. Persino suo zio Roberto, che è palesemente razzista, nella relazione con sua nipote trascura il suo colore di pelle e non le attribuisce i pregiudizi che invece attribuirebbe a tutte le altre persone nere.

A suo modo, amandomi, mio zio mi ha piantata e mi ha tenuta in vita sperando nelle radici. Ma sono un innesto fallito (p. 88).

 

Sono gli sconosciuti a giudicarla unicamente dall’aspetto fisico quindi a ritenerla un’estranea, ad eccezione degli studenti di Basilici che colgono la discrepanza tra aspetto e mentalità. In questo l’autrice si rifà al concetto spiegato da Liliam Thuram nel suo saggio Il pensiero Bianco[3], in cui l’ex calciatore spiega che i bambini non nascono bianchi, ma vengono educati ad esserlo. Si propone un passaggio del libro di Thuram (p. 113), che potrebbe offrire spunti di riflessione in classe:

 

Da secoli, fin dall’infanzia, e ben prima di quanto di pensi, ai bambini bianchi non si insegna forse a sentirsi parte di una civiltà e cultura superiore? Nel corso del tempo, il pensiero bianco ha costituito una mitologia su cui ancora oggi si poggia l'identità bianca. Vedo chiaramente ciò che questo pensiero richiede alle persone nere come me, primo non contraddire i bianchi. Secondo dar loro ragione. Terzo ammirarli non è forse quello che gli uomini chiedono alle donne, in fondo.

 

L’incontro/scontro con gli studenti permetterà a Sara di esserne consapevole. La ragazza cercherà di liberarsi dei pregiudizi che in quanto antirazzista vorrebbe non avere, ma riconosce nei propri gesti e nei propri pensieri.

 

Registro linguistico

La voce narrante è quella della protagonista, che si esprime attraverso un linguaggio diretto, fortemente innervato di movenze morfosintattiche tipiche del parlato, ma anche immaginoso, grazie al ricorso a metafore, spesso riconducibili alla sfera vegetale. Il pesco è utilizzato per simboleggiare la vita, di conseguenza sono frequenti i rimandi a figure ad esso connesse (le gemme, le foglie, i semi, le radici, ecc). È una sfera semantica che si determina anche negli ambiti ideologicamente più pertinenti alle termatiche del romanzo. Si pensi – per fare un esempio – all’immagine delle ‘radici’ (strettamente collegata ai motivi della migrazione e dell’identità etnica – e non a caso Roots è il titolo del celebre bestseller del 1976 del giornalista e scrittore afroamericano Alex Haley):

 

Se tolgo il pesco, se taglio le radici dell'albero posso scoprire dove sono stata fiore e ancora prima seme (p. 136)

 

Il registro linguistico adottato costituisce un punto di forza di questo romanzo, in quanto nei dialoghi diretti viene sapientemente diversificato in base alle differenze socioculturali, esaltando l’abilità dei giovani di seconda generazione nello scegliere il registro, ma anche la lingua, più appropriati a seconda della situazione e degli interlocutori. Attraverso forestierismi e neologismi, fanno apparizione lingue straniere, soprattutto l’arabo, che arricchiscono il testo rendendo i dialoghi altamente verosimili, mostrando la trasformazione in corso dell’italiano e conferendo al testo una dimensione interculturale. Di fatto, anche favorendo un lavoro didattico in cui l’analisi del testo diventa un esercizio non banale di consapevolezza stilistica e di registro.

Nella narrazione di Tutta intera i sentimenti e le idee prendono forma e sostanza. Tutto diventa materiale, acquista peso e occupa spazio. È questo il modo peculiare di Hakuzwimana di utilizzare le figure retoriche. Si vedano due esempi (tra i tanti che nel corso della lettura pottranno essere sottolineati):

 

Non so come si tiene tra le mani la verità, se mi cade e si rompe (p. 25).

Beh, le nostre pesche sono bianche e tu no! Che vuol dire? È una battuta Sara: è per ridere!

Ma non fa ridere, rispondo.

Rico ha appena aperto una botola sotto i miei piedi e certo che non rido. Cado e chissà quando atterro (pp. 19/20)

 

Le scelte linguistiche adottate in Tutta intera, come si diceva, fanno del romanzo uno strumento per riflessioni linguistiche, in particolare sull’uso delle figure retoriche, sulle variazioni diafasiche e diastratiche. 

 

Ambientazione scolastica e identificazione

L’ambientazione scolastica è un fattore che agevola il processo di identificazione ai giovani fruitori del romanzo, in quanto la protagonista, pur ricoprendo provvisoriamente il ruolo di insegnante, incarna maggiormente il punto di vista degli studenti e delle studentesse. Se il mondo della scuola è diviso in due parti e da una parte ci sono gli adulti (preside, collaboratori, insegnanti, tra cui anche il padre della protagonista) e dall’altra ci sono i giovani (ovviamente gli alunni), la protagonista – ventitreenne – non appartenendo saldamente a nessuno dei due, si sente senz’altro più vicina al mondo degli studenti, e non solo per età, ma anche per inquietudine e ricerca di costruzione di un proprio spazio nel mondo. Si tratta di un libro che mostra le distanze generazionali, ma anche sociali, ed il tentativo estenuante della protagonista di accorciarle.

 

Omologazione e appartenenza

La condizione di estraneità è quasi esasperata nel romanzo: la protagonista vive costantemente la sensazione di non appartenenza ai diversi ambiti che frequenta o ha frequentato. Nel caso delle lezioni di potenziamento, non è né professoressa, né alunna; nella sua famiglia e nella sua città è l’unica persona nera; a scuola è l’unica bambina adottata della classe.

Il romanzo si apre con un episodio altamente significativo e di forte impatto: la protagonista bambina architetta un piano per sbiancarsi la pelle. Anelando più di ogni altra cosa di rassomigliare ai genitori, intende utilizzare la candeggina per eliminare la differenza. Nel corso della vicenda, anche quando la protagonista non sarà più bambina, ci saranno altri episodi che riporteranno all’aspirazione di omologazione con gli altri, soprattutto con i genitori, in controtendenza con quanto maggiormente accade tra gli adolescenti che affermano la propria identità a partire dal contrasto e dal distacco dai genitori. Questo permette di indagare con profondità la questione della non-appartenenza di cui oggi si parla spesso riferendosi a questioni culturali o di genere. La letteratura postcoloniale, a cui ho accennato prima, è ricca di voci che raccontano il sentimento di non appartenenza totale e definitiva né alla cultura d’origine, né alla cultura del paese d’approdo. In questo romanzo, lo stesso sentimento lo possiamo riconoscere tra i giovani del ghetto. Per Sara Righetti, che ha vissuto l’esperienza dell’adozione, è più complesso; non si tratta esclusivamente di una questione culturale, ma è strettamente connessa con le caratteristiche corporali.

Non sono uscita da lei, non mi ha dato il suo latte, non le ho rubato la forma degli occhi, il colore dei capelli, i lobi delle orecchie. Come posso chiamarla se non le sono appartenuta? Di cosa è madre se non mi ha tenuta in braccio con placenta e sangue? Che cosa le devo per il disturbo? Quanto vale il debito (pp.125/126).

 

 

10 luglio 2023

 


[1] Convenzionalmente si sceglie il 1990 come anno di nascita della letteratura della migrazione in Italia, essendo questo è l’anno di pubblicazione dei primi tre romanzi scritti da autori stranieri in italiano: il senegalese Pap Khouma, con Io, venditore di elefanti. Una vita per forza fra Dakar, Parigi e Milano (Garzanti); il tunisino Salah Methnani, con Immigrato (Theoria); il marocchino Mohamed Bouchane, con Chiamatemi Alì (Leonardo).

[2] A. Gnisci, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003.

 

[3] L. Thuram, Il pensiero bianco: non di nasce bianchi, lo si diventa, Torino, ADD, 2021.