Mariza Rusignolo - Il motivo del manichino in Luigi Pirandello

e nella cultura letteraria e pittorica degli anni ‘20 e ‘30

   

Quei fantocci là, per esempio, se lo spirito dei personaggi che si rappresentano si incorpora in loro, lei vedrà quei fantocci muoversi e parlare. E il miracolo vero non sarà mai la rappresentazione, creda, sarà sempre la fantasia del poeta in cui quei personaggi sono nati vivi, così vivi che lei può vederli anche senza che ci siano corporalmente […].

 

Con tali incisive parole il personaggio del mago Cotrone si rivolge, nel mito rappresentato ne I giganti della montagna, alla contessa Ilse e agli astanti, esponendo la sua teoria sulla vita e sul mondo, sul sogno e sulla rappresentazione del sogno, tra attuazione necessaria di un onirico presentarsi ai vivi, di situazioni che essi altrimenti relegherebbero nel loro inconscio, mentre invece si fanno reali nella sua casa.

La storia de I giganti della montagna racconta di una compagnia di scalcinati personaggi che vive in una foresta immaginaria, lontana dalla città. A un certo punto arriva una compagnia di teatranti e, tra varie vicissitudini, si crea un connubio tra i primi e gli ultimi arrivati, composti tra l’altro da un conte e una contessa. Essi, a capo di una compagnia di teatro viaggiante, vanno per il mondo rappresentando un testo intitolato La favola del figlio cambiato, composto realmente da Luigi Pirandello nel 1934.

La contessa deve espiare, quasi come peccato sociale, la morte per amore di un poeta (forse Pirandello stesso) il quale scrisse la favola dedicandola proprio a lei. Il marito della contessa ha impegnato tutto il suo patrimonio per permetterle di recitare; gli attori rimasti, dopo innumerevoli rappresentazioni, sono i loro fedelissimi. Alla fine, giungono alla villa di questi strani personaggi, a metà tra il reale e l’immaginario, frutto della fantasia ma tuttavia umani, i quali li accolgono con fare gentile e intenzionati a far rappresentare ‘La favola’ ad un pubblico strano, i giganti della montagna vicina, che celebrano un matrimonio. Qui il fulcro del mito.

La rappresentazione poetica de La favola del figlio cambiato, testo portato in scena da tutti, si confronta con il giudizio del mondo moderno rappresentato dai giganti. Questo potrebbe essere un primo tentativo di spiegazione del testo Pirandelliano. I personaggi principali, quindi, sono la Contessa e il resto delle due compagnie, che rappresentano forse delle caricature del nostro mondo, ma pur sempre parte di esso, esseri a metà tra l’immaginazione e la cruda realtà.

 

La commedia che Ilse desidera rappresentare non può realizzarsi che qui, nella villa degli Scalognati, in un’atmosfera che aveva già connotato le novelle degli anni Trenta. Si pensi alla fantomatica riunione di C’è qualcuno che ride o a Soffio, in cui l’uomo fornito di un misterioso soffio che provoca la morte istantanea di coloro ai quali è diretto, finisce col dissolversi lui stesso nell’aria. Ma se nella narrativa il tema metafisico può svilupparsi con facilità, la bravura tecnica di Pirandello ne I giganti della montagna è tutt’altra cosa! Egli crea sulla scena la vita immateriale, un’atmosfera in cui i personaggi si muovono allucinati; mentre il loro corpo fisico giace in sonno nel letto, il loro manichino va in giro per dare espressione ai loro desideri insoddisfatti, ma ancora vivi ed ansiosi di realizzarsi nel mondo fisico. In questa villa dove ogni notte si vede tutto come in un sogno, dove i manichini si animano e strumenti musicali suonano, tutto diventa possibile, anche la poesia che non può essere compresa dal mondo esterno, dalla modernità.

Ilse però, ostinatamente, vuole portare La favola del figlio cambiato nel mondo. Per questo raggiunge il dominio dei Giganti per recitarvi con la sua compagnia e trasmettere così quel messaggio di poesia al quale è rimasta fanaticamente legata. La sua iniziativa di proporre la presenza della poesia in una società produttiva, pragmatica, abitata da uomini rozzi che non possono concedersi pause di raccoglimento interiore per un’esperienza fantastica qual è quella estetica, si risolve in un fiasco rovinoso, che lo stesso Pirandello sembra irridere nel ritratto che delinea della contessa: che appare come una sovrana decaduta, capace di recitare la sua parte inattuale e non di vivere, cioè di “produrre”, come fanno invece i Giganti.

Un personaggio cardine del mito è il mago Cotrone che abita la villa della Scalogna e che diletta con i suoi prodigi gli ospiti teatranti ma che, ad un certo punto del dramma, esce dalla sua forma di personaggio didascalico e acquista gradualmente una forma più concreta, una maturità di vedute e la capacità di offrire un’esposizione lucida del mondo.

Egli, assecondato da una folta schiera di emarginati, con i suoi prodigi sostituisce ‘il necessario’ che condiziona la realtà con ‘il marginale’ di cui si alimenta l’immaginario. Il mago, in cui sembra essersi reincarnato Vitangelo Moscarda, escludendo la mediazione degli attori e l’equivoco rapporto con il pubblico, lascia che la rappresentazione emani direttamente dalla fantasia del poeta, come avviene nell’arsenale delle apparizioni. La Favola del figlio cambiato, in questa atmosfera surreale, onirica, si anima con fantocci che prendono corpo e traducono le parole in azione. L’elogio della ‘docilità della marionetta’ teorizzato tra Ottocento e Novecento da Edward Gordon Craig con la sua Ubermarionette è qui ripreso da Cotrone, che ribadisce a Ilse e compagni il primato della parola sulla materialità scenica.  

Cotrone propone di rappresentare la favola davanti ai giganti, il popolo ormai inviso alla poesia e che rappresenta, forse, la società degli anni Trenta lontana dalla poesia (si ricordi il distacco dalla poesia e arte classiche teorizzato dai manifesti futuristi).

Nel terzo atto Cotrone espone così il suo pensiero:

 

[…] vivono di vita naturale, signor conte, altri esseri di cui nello stato normale noi uomini non possiamo aver percezione, ma solo per difetto nostro, dei cinque nostri limitatissimi sensi.

 

Egli si riferisce ai fantasmi e in questa sua riflessione sembra riprendere spunti del pensiero di Spinoza, che nell’epistolario, parlando degli spettri, afferma che la gente pensa ad essi come a esseri reali, quando ode soltanto voci e suoni immaginari che sono il frutto di una conoscenza parziale delle cose.

Cotrone va al di là di questa posizione filosofica: i fantasmi si presentano infatti veri e vivi davanti agli ospiti della villa nelle vesti di manichini che senza forma si animano e le cui voci si odono. Il personaggio dimostra che i fantasmi nascono all’interno di noi e non sentirli non significa che non esistono, ma che non abbiamo attivato ogni nostra facoltà naturale per capire noi stessi, la nostra possibilità di essere poeti. Rivolgendosi alla contessa Ilse Cotrone afferma:

 

Se lei contessa vede ancora la vita entro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori da questi limiti per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé […]. È il libero avvento di ogni nascita necessaria […].

 

Cotrone espone la vita alla libertà del pensiero, lontano dal meccanismo di chiusura che impone essa stessa al mondo, costringendo le cose ad essere quello che gli altri vogliono che siano. Liberandosi da questa apparenza, l’uomo può essere libero, ma separato dal mondo “normale” della società. Lontano dai limiti, solo gli artisti veri e coloro che rappresentano la poesia, gli attori appunto, riescono a dissimulare il mondo costrittivo, la realtà apparente e a trascenderla.

Il ruolo di supremazia rimane comunque al poeta che, a differenza dell’attore crea, mentre quest’ultimo, interpretando, è solo un simulacro della propria illusione. Il poeta è dunque l’uomo libero, l’attività vitale creatrice, mentre i fantocci-attori sono gli uomini che si muovono in balia del loro creatore oppure delle loro passioni.

Emerge, tout court, nell’opera, il conflitto tra il desiderio dell’artista di comunicare e l’incomprensione del pubblico. La mancanza di dialogo vissuta dall’artista e la conseguente crisi d’identità si manifesta pertanto, o nella riduzione del personaggio in manichino o nella perdita di fisicità del personaggio nel suo divenire etereo, immateriale.

Del resto, il motivo del fantoccio, dell’uomo-manichino già delineato nella frase di Cotrone agli astanti, ben si raccorda con quel crollo dei miti della ragione, della scienza e del progresso che connota la crisi del Novecento. Tale crisi, che si esprime nella contemporanea cultura del Decadentismo, trova nell’opera di Pirandello una delle più importanti espressioni. L’uomo, secondo Pirandello, non è più capace di padroneggiare il mondo esterno e, soprattutto, non conosce più sé stesso e non si appartiene. Da qui il relativismo di Pirandello, che utilizza il linguaggio del teatro per definire la vita una buffoneria, una fantocciata, una pupazzata, espressioni che stanno ad indicare l’inestricabilità del rapporto tra realtà e finzione, tra vero e il falso. Il motivo del manichino, di cui abbiamo seguito le tracce nell’ultimo Pirandello, trova riscontro d’altra parte, nell’affermazione di Giovanni Macchia, secondo il quale per Pirandello i personaggi sono manichini nelle mani del giocoliere e partecipano tutti a un grande gioco, con azioni che appaiono e scompaiono e, anche i più derelitti, anche i più sciagurati, posseggono una capacità di ragionamento che arriva al sofisma.

Nel suo saggio del 1933 Arte e coscienza d’oggi, Pirandello denuncia profeticamente la relatività di ogni cosa:

 

Nei cervelli e nella coscienza regna una straordinaria confusione […], crollate le vecchie norme, non ancora sorte o stabilite le nuove, è naturale che il concetto della relatività di ogni cosa si sia talmente allargato in noi. […] Non mai credo, eticamente ed esteticamente, la vita nostra fu più disgregata.

 

Pirandello rielabora tali idee in consonanza con alcuni autori contemporanei che si possono indicare come fonti del suo pensiero relativistico. A differenza di Svevo, Pirandello non lesse direttamente Freud, ma la sua opera è piena di richiami al mondo dell’inconscio, al sogno, alla follia. Egli, infatti, lesse nell’originale francese Le alterazioni della personalità (1892), dello psicologo Alfred Binet (1857-1911), da cui trasse l’idea che la personalità degli uomini non è una ma molteplice. Da questo spunto verrà uno dei suoi temi decisivi, quello della follia: i suoi personaggi si sdoppiano, sono dissociati, sono contemporaneamente “uno, nessuno e centomila”. Il titolo dell’omonimo romanzo pirandelliano Uno, Nessuno e Centomila del 1926 è un’efficacissima chiave di lettura della tematica dell’identità. Vitangelo Moscarda allo specchio, simbolo dell’io davanti a sé stesso, scopre di vivere senza ‘vedersi vivere’. Si getta all’inseguimento dell’estraneo inscindibile da sé, che l’alterità conosce in centomila identità differenti. Il protagonista si stacca dal proprio ‘fantoccio vivente’ per sé stesso, è ormai nessuno: la distruzione dell’io è ormai consumata. Se ognuno di noi è “Uno Nessuno e Centomila”, anche la realtà perde la serena e fittizia oggettività e si scompone all’infinito nel vortice del relativismo.

L’uomo è un artificiale costruzione ligia alle convenzioni sociali e contrapposta alla natura, priva di componenti artificiali. Maschera creata dagli altri, fantoccio della moglie, è il ‘caro Gengè’ amato teneramente da Dida, fino a trasformare Vitangelo in un’ombra vana. Vitangelo alla ricerca di una via di fuga dai centomila estranei a sé che vivono negli altri, decide di uccidere le sue ‘marionette’ ma per aver voluto dimostrare di non essere ciò che si credeva è ritenuto pazzo. Non c’è via di fuga: Vitangelo assapora il piacere di ‘alienarsi’ da sé ma scopre poi, suprema disillusione, che le marionette possono impazzire ma non si possono distruggere.

Una marionetta è anche il personaggio di Serafino Gubbio, protagonista de I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Con tale testo Pirandello si misura più direttamente con le rivoluzionarie innovazioni tecnologiche del proprio tempo (tra queste naturalmente il cinema, cui fa riferimento la professione del protagonista), evidenziando la sua polemica nei confronti della modernolatria dannunziana e futurista. I Quaderni si propongono la difesa di un teatro/vita (crocevia di partecipazioni emotive attori-pubblico) contro un cinema/forma (frigido ripetitore di stereotipati fotogrammi). Minacciato da un incombente morte dell'arte, l'artista rifugiatosi in una scrittura-terapia, rivendica un ruolo demistificatore verso la pervasiva e mercificante industria culturale, in grado di asservire alla logica del guadagno le più diverse figure di intellettuali. Nel romanzo, costruito attorno ad una labirintica trama in cui tutti i personaggi vanamente inseguono tutti i loro obietti affettivi ed esistenziali, emerge la tematica del ruolo della macchina nella vita dell'uomo. Dall'analisi di tale tematica è enucleabile la posizione critica di Pirandello nei confronti del nuovo mondo industriale che va imponendosi; ma soprattutto essa mette in rilievo il modo particolare in cui Pirandello declina il concetto di alienazione. Già nel primo dei sette quaderni che compongono il romanzo, Serafino Gubbio, l'io narrante, parlando della sua mansione di operatore cinematografico, indica la condizione straniata del suo lavoro: «sono operatore ma veramente essere operatore nel mondo in cui vivo non vuol mica dire operare». L'operatore Serafino, infatti, non ha che mansioni ripetitive e nella sua ‘perfetta impassibilità’, si limita ad annotare i tempi delle riprese necessari per la pellicola; dunque, non è null'altro che una mano che, indolente ed estraniata, gira la manovella di una macchina da presa. Serafino è, tout court, l'alienata impotenza dell'uomo di fronte al potere trasformatore della macchina e il romanzo diviene una critica corrosiva, per altro dichiarata dall'autore, contro la macchina che de-umanizza l’uomo schiavizzandolo e contro il mondo industriale e la velocità di mille sorprendenti meccanismi che tendono a stordire l'immaginario. C’è qui, come nell’ultimo mito de I Giganti la necessità di una rinunzia alla propria identità, alla consistenza del proprio corpo, e la consapevolezza che solo tentando di sottrarsi alla forza fagocitante e manipolatrice della società che automatizza l’uomo, quest’ultimo può riconquistare le radici più profonde del proprio essere.

Nel momento in cui il Fascismo aveva costituito una svolta nella società e nella cultura italiana, matura in Pirandello un cambiamento di poetica col passaggio da una produzione che punta sullo svelamento umoristico delle contraddizioni a una che tende a rivelare e a celebrare l’Essere nella sua immobilità storica.

Di questa nuova fase sono testimonianza gli ultimi racconti scritti tra il 1931 e il 1936 e i tre miti teatrali composti a partire dal 1927. Già Petronio aveva sottolineato che nell’ultima produzione novellistica di Pirandello i ritratti diventano ‘meno inclementi’; il lessico, lo stile, la musica del discorso si alleggeriscono, in uno sforzo evidente di trovare i toni necessari a quel mondo di impressioni e sensazioni sfumate, surreale o irreale, che ora prende il posto di quello convulso delle precedenti novelle.  Ne I Giganti della montagna queste connotazioni si realizzano nella liberazione magica delle forze del sogno, dello spirito, dell’inconscio e di quelle della creazione artistica. Ma nel dramma il mondo beato di Cotrone che aspira all’infinito è costretto a misurarsi col mondo del finito che lo circonda, con la miseria e con la dura realtà. Il sogno di autosufficienza dell’arte è ristretto al mondo notturno, in cui i manichini prendono vita, ma viene condannato all’impotenza in quello diurno. Il fallimento del tentativo di Cotrone e la tragica fine di Ilse mettono a nudo la insensibilità all’arte dei Giganti, vale a dire di un potere esclusivamente dedito all’azione pratica, all’economia, allo sviluppo tecnico. C’è una ripresa del tema dell’impossibilità di rappresentazione del dramma, qui però causato non dall’assenza dell’autore, come nei Sei personaggi, ma dall’assenza del pubblico.  Il tema è d’altra parte comprensibile in un momento in cui Pirandello si mostrava diffidente nei confronti del cinema che in quegli anni rischiava, con le sue attrattive più facili, di soffocare il teatro.

Il tema della forma come ciò che si oppone e blocca il flusso della vita è importante per comprendere come nasca in Pirandello l’esigenza del teatro. Il palcoscenico è infatti un mondo finto in cui si agitano non uomini vivi ma personaggi, ossia maschere, come l’autore li chiama. Il teatro è per Pirandello il luogo-simbolo, l’ambito delle falsità e delle apparenze sociali. E tuttavia ecco il punto, noi non possiamo liberarci da queste convenzioni.

Cerchiamo la vita vera e invece siamo costretti a vivere in un mondo falso, nel mondo delle maschere, dei fantocci, dei ‘pupi’ (come vengono chiamate le marionette siciliane). Con Sei personaggi in cerca di autore Pirandello improvvisamente stravolge i canoni del teatro naturalista. Protagonisti non sono uomini ma personaggi, i quali rappresentano sé stessi in un testo che non ha ‘atti né scene’. Era l’inizio, come pensa il critico ungherese Péter Szondi, del teatro epico, dell’opera che estrapola la propria sostanza drammaturgica, quella propriamente aristotelica e la trasforma in narrazione, facendo dello spettatore un osservatore che non resta coinvolto nell’azione scenica. La materia de I sei personaggi in cerca di autore poteva lievitare in forma solo ‘nell’opera impossibile’ che condusse Pirandello a inventare il teatro nel teatro negli stessi anni in cui André Gide scriveva I falsari, il primo romanzo nel romanzo.

Quella materia investiva un universo familiare, quello che, secondo Cesare Garboli è il vero protagonista di tutta l’opera di Pirandello, il grande tema vischioso, tenuto a bada e, indirettamente tormentosamente espresso, con i ragionamenti logorroici, la logica seviziatrice’ che si esprime nel 'linguaggio dei verbali di polizia’ occupando nel suo teatro il posto della vita e facendo sì che: «il cavillo giuridico ribalti comicamente la realtà, costringendola a mosse burattinesche e inusuali».

 

Ne I sei personaggi la realtà non viene affrontata direttamente, si parla non di persone ma di personaggi, non della vita ma del teatro, non della realtà ma della finzione. Il teatro, nel momento in cui mette in scena sé stesso, assorbe e purifica la vicenda rappresentata consegnandola allo scatto limpido e deciso della fantasia che alimenta la tragedia surreale dei personaggi e la rende credibile. Fiorisce, tout court, su quel palcoscenico fin dall’inizio un punto di vista straniante che sembra assumere il carattere fantasmatico dei personaggi. La famiglia che si presenta sulla scena è tutta tramata di riferimenti autobiografici rilevati anche da Andrea Camilleri nella sua recente biografia pirandelliana. Il dramma si chiude con la stridula risata della figliastra. Le ombre dei personaggi ‘grandi e spiccate’ sotto il fascio di luce di un riflettore verde hanno atterrito e volto in fuga il capo comico. Figlio, madre, padre sono fermi a metà sul palcoscenico ‘rimanendo lì come forme trasognate’.

Poco dopo conclude la didascalia ‘cadrà la tela’. Tutto torna nel buio: i personaggi, gli attori, l’autore invano inseguito da tutti ed egli stesso proteso ad inseguire una verità impronunciante. I Sei personaggi è, a ben guardare, una storia che può affiorare solo a patto di non riconoscerla, di considerarla in un certo senso ‘finta’, la cupa storia che non si racconta, si trasforma con un processo inverso a quello descritto da Montale in Favola:

 

Noi non sappiamo quale fine sortiremo o la favola onde s’esprime

la nostra vita repente

si cangerà nella cupa storia che non si racconta.

 

Il motivo del ‘pupo’, del manichino incapace di decisioni, a ben guardare è un motivo centrale nella cultura letteraria e pittorica circolante negli stessi anni. Basti pensare all’opera di Luigi Chiarelli (La maschera e il volto), di Luigi Antonelli (L’uomo che incontrò sé stesso) di Enrico Cavicchioli (L’uccello del paradiso), di Massimo Buontempelli (La scacchiera davanti allo specchio), di Rosso di San Secondo (Marionette che passione!) di Palazzeschi (Il codice di Perelà), per individuarvi un’omogeneità di sentimenti e di motivi.

 

Di qui possiamo partire per un percorso di letture che tocchi testi letterari i e opere figurative.

 

Il romanzo di Massimo Bontempelli, ad esempio, La scacchiera davanti allo specchio (1922) è una vera formulazione in forma narrativa di ‘realismo magico’, ed è informato d’una atmosfera metafisica.

In un mondo vuoto di natura in cui i personaggi e cose sono scorporate dalla loro materialità, in una atmosfera lontana da ogni logica e verosimiglianza, si assiste al dialogo di un manichino di vimini, «di quelli alti come un uomo senza braccia né testa su cui le sarte provano i vestiti delle signore», col suo interlocutore, l’io narrante che dice di essere in mezzo a tanti oggetti «la sola creatura dotata di intelligenza, di volontà e di parola». Il manichino, nel corso dell’opera, diventa consapevole della propria essenza a metà tra umano e non umano e afferma la propria superiorità espressiva sull’uomo, proclamandosi abitante del vero mondo e relegando l’uomo a immagine riflessa. Non si può fare a meno di pensare a quella componente di sortilegio che emana dai manichini della pittura metafisica di De Chirico o alle inquietanti esperienze surrealistiche a cui il Bontempelli esplicitamente si ispirava.

Lo dimostra il mondo infinito nel quale si ambienta la storia, fatto solo di spazio in un tempo senza avvenire, vuoto di natura, governato da manichini. Non a caso per un testo teatrale di Massimo Bontempelli, Siepe a nord-ovest (1923) in cui si assiste a un primo rovesciamento di ruoli tra uomini, marionette e burattini, De Chirico preparò una serie di illustrazioni che alternano le marionette-manichino nelle città misteriose al nuovo clima ‘romantico’ tipico della pittura di Böcklin

 

La pièce di Rosso di San Secondo Marionette che passione! (andata in scena nel 1918) fu oggetto di una nota critica dello stesso Pirandello, che ne lodò i personaggi demistificati e l’energia drammatica dell’azione. Sempre nel 1918 Silvio D’Amico, una delle menti più lucide della critica teatrale italiana, recensì l’opera di Rosso in un articolo dal titolo Teatro recente che, pur nella sua brevità, può costituire un’importante riflessione sul nodo importante del teatro italiano del Novecento.

L’articolo di D’Amico fu dedicato non solo all’opera di Rosso ma anche alle ultime due composte da Luigi Pirandello per la scena, Il piacere dell’onestà e Così è se vi pare, accostamento che ebbe il merito di contestualizzare l’opera di Rosso all’interno della corrente poetica dei ‘grotteschi’.

La novità di Marionette che passione! consisterebbe, come ebbe a sottolineare anche Pirandello, non tanto nella vicenda raccontata tratta dalla quotidianità, bensì nel procedimento stilistico con cui quella tematica viene espressa e soprattutto con cui i personaggi vengono delineati.

Lontano dalle analisi dialettiche e dimostrative di Pirandello, Rosso attua qui un tentativo di ‘sintesi ad oltranza’ dei personaggi, ognuno irrigidito nel suo spasimo, delle azioni che si fissano in gesti lignificati, marionettistici, dei dialoghi che si condensano violenti in macchie di colore.

Da Pirandello a Rosso, D’Amico sottolinea la distanza di stile di una drammaturgia che si può definire dialettico-dialogica a una drammaturgia scenico-gestuale in cui D’Amico ravvisa tratti di poetica espressionistica.

In Marionette che passione! la perdita di senso e la frantumazione del soggetto tipici dell’arte della modernità si concretizzano nell’urto violento tra lo spasimo e l’impossibilità che questo urlo dica veramente lo strazio, il suo trasformarsi subito in smorfia grottesca a contatto con la miseria di un mondo inumano che invade fin le fibre più intime di ogni atto, gesto, pensiero.

L’urlo dell’uomo che si vorrebbe nudo e solitario, non riesce ad essere l’urlo in un super uomo in rivolta e diventa invece, lo spasimo incespicante di una grottesca marionetta che si affanna ancora a costruirsi immagini e sogni che le permettono di sopravvivere: «perché ancora mossa dalla nostalgia di una vita più ampia e più ardente».

L’atmosfera nella quale si muovono i personaggi ‘altro non è che la proiezione del loro stato d’ansia che concorre a suscitare uno stato di languore presente nelle loro parole, nel colore dei vestiti dei protagonisti maschili: il nero e il grigio, nei toni cupi e tristi ‘cielo grigio e desolato nello squallore della città nella penombra della grande sala, nel silenzio glaciale, nel torpore snervante che regna nei locali, nelle parole balbettate della protagonista nella semioscurità.

La storia di Marionette che passione! è incentrata sull’incontro casuale di tre personaggi, incapaci di dare un senso alla loro esistenza, il signore in grigio, il signore a lutto e la signora dalla volpe azzurra. I tre si rivelano alla fine delle marionette, in balia delle proprie passioni. Marionette che passione! è, a ben guardare un’opera drammatica, grottesca, che alcuni definirono legata al pirandellismo anzi, secondo Gaetano Savatteri, la grandezza di Rosso viene messa in ombra proprio dalla figura di Pirandello.

Se Rosso con le sue marionette esprime la crisi di identità dell’uomo moderno, Palazzeschi l’aveva già espresso col suo personaggio evanescente ovvero con ‘L’omino di fumo’, protagonista del suo Codice di Perelà (del 1911 è la prima edizione). Quest’ultimo a trentatré anni esce dal camino in cui è nato ritrovandosi, suo malgrado, ad essere ammirato ed esaltato come un essere eccezionale, privo di qualsiasi peso umano, purificato dal fuoco di qualsiasi interesse e di qualsiasi egoismo. ‘Vittima designata’ dall’ammirazione generale viene addirittura incaricato dal re di redigere un nuovo codice, atto a risolvere tutti i problemi insoluti dalle leggi ‘decrepite e grinzose’ in vigore fino a quel momento. A corte l’omino di fumo viene a conoscenza di vari personaggi, ognuno con le sue colpe, i suoi difetti, le sue ipocrisie. Ne nasce un quadro di pungente ironia su tutto il genere umano. Perelà, mentre sta per redigere il codice per incarico del re, viene dichiarato colpevole e condannato alla segregazione a vita.

Allora ‘Sua leggerezza’ preferisce volar via tra le nuvole dopo aver lasciato agli uomini poche parole di spiegazione e le sue scarpe. Opera tutta polemica, il romanzo è una satira della malvagità del mondo condotta senza acredine ma con ironia, con un procedimento allegorico e con una tecnica narrativa vivacissima e originale, specie nella persistente vivacità dei dialoghi.

E mi sembra interessante citare il breve romanzo futurista Una donna con tre anime di Rosa Rosà, metafisico viaggio a ritroso alla ricerca dell’identità primaria perduta che narra la trasformazione fisica e mentale di Giorgina Rossi. Dopo aver subito tre metamorfosi questa casalinga ‘passatista’, inizialmente sopraffatta dalla banalità della vita quotidiana raggiunge una sensibilità medianica.

Della sua veggenza essa testimonia al marito in una lettera che possiede le caratteristiche di un autentico discorso onirico automatico: «Mi sento evadere dall’involucro ermetico soffocante dell’atmosfera terrestre. Sono alleggerita dai torbidi pesi umani». Leggerezza, perdita di peso, sparizione della sensibilità materiale, connotano la perdita di fisicità e della materialità e dunque la frantumazione dell’identità dell’uomo.

D’altra parte, il secondo futurismo fiorentino di cui Palazzeschi fu uno dei fautori insieme con Papini e Soffici, si indirizzò nella ricerca di soluzioni letterarie in cui traspare l’interesse per l’esoterismo e l’occulto, punto programmatico fondamentale della rivista «L’Italia futurista». La componente metafisica evidente nella narrativa futurista è latente anche in certa poesia della cosiddetta ‘pattuglia azzurra’ fiorentina, denominazione che Raffaello Franchi diede ai futuristi de «L’Italia futurista».

Anche nell’arte pittorica circolante in quel tempo troviamo omogeneità di motivi e sensibilità. Il motivo del manichino nelle avanguardie letterarie, pittoriche e teatrali del primo Novecento rappresenta la spersonalizzazione dell’uomo traumatizzato dallo sconvolgimento delle due guerre mondiali nonché dall’avvento dell’era tecnologica ed industriale a cavallo tra i due secoli. Ormai ‘l’uomo è antiquato’ avrebbe scritto il celebre filosofo tedesco Günther Anders. Ecco allora nella maggior parte delle arti figurative e pittoriche l’uso del manichino che riproduce le fattezze umane. Si guardi alla già citata pittura di Giorgio De Chirico, fondatore insieme con Carlo Carrà, della pittura metafisica, una tendenza che si ancorava ad una realtà oltre l’apparenza ottica e fenomenica e che in De Chirico assume un aspetto visionario ed enigmatico pur nella concreta individualità delle presenze, legato al mistero delle piazze silenziose, di gelide statue con luce inclinata, quasi un incontro pre-surrealistico, abitato tuttavia da inquietanti manichini. Il suo è un mondo sospeso in una dimensione atemporale, popolato da muse, gladiatori, manichini, metafora di una condizione esistenziale misteriosa e straniante. Il manichino con De Chirico diventa protagonista assoluto e si consacra come oggetto d’arte. È a Parigi nel 1914 che cominciano ad apparire tra i soggetti delle opere di Giorgio De Chirico i primi manichini ispirati sembra, dal poemetto del fratello Alberto Savinio che nel 1914 pubblica a Parigi Les chants de la mi-mort dove descrive «un homme sans voix , sans yeux et sans visage, fait de doleur, fait de passion, fait de joie» ossia un uomo senza voce, senza occhi e senza viso, fatto di dolore, di passione, di gioia. La prima opera in cui fa capolino un manichino è La nostalgia del poeta del 1914 che presenta in primo piano, disposto di profilo, un busto classicheggiante che indossa occhiali da sole e sullo sfondo la sagoma di un pesce, simbolo di salvezza attaccata ad un pilastro. L’elemento inedito è però il manichino che sembra quasi in dialogo con il busto e che si ripropone anche in un’altra opera del periodo parigino dal titolo Viaggio senza fine del 1914. In quest’ultima opera un manichino si trova sul basamento di una statua ed è abbigliato con un chitone greco. Ai suoi piedi, quasi gettato con noncuranza si evidenzia il volto di una statua che sembra scaturito dalla testa del manichino e che guarda in alto verso esso. Tra i due si stabilisce uno scambio di sguardi che si instaura tramite l’occhio centrale dipinto sulla testa del manichino che rappresenta una delle prime manifestazioni del tema dell’occhio presente nelle opere del periodo ferrarese dell’artista.

 

Negli anni del cosiddetto periodo ferrarese (1915-1918) De Chirico inizia la serie dei grandi manichini Il Trovatore (1917), Ettore e Andromaca (1917) e Il grande metafisico (1917), che risentono dell’atmosfera rinascimentale di Ferrara con rossi profondi e chiaroscuri connotanti i soggetti ritratti che danno un senso di irrealtà ai quadri. I manichini ‘ferraresi’, assemblaggi di elementi geometrici, appaiono, a ben guardare, più umanizzati in confronto a quelli parigini del 1914. Le muse inquietanti del 1918 costituiscono una delle più note e significative opere di Giorgio De Chirico e possono essere considerate come il manifesto dell’arte metafisica, Un rinnovato interesse per i manichini si manifesterà nell’artista negli anni a cavallo tra il 1935 e il 1938, ovvero durante la sua permanenza negli Stati Uniti ed in particolare a New York. A tal proposito l’artista scriveva:

 

Nelle vie di Nuova York predominano le vetrine, c’è il senso dell’esposizione ovunque. Nelle vetrine di Nuova York si svolge tutta la storia dell’umanità. Ho visto vetrine di grandi negozi della 57° strada in cui erano manichini raffiguranti donne eleganti sedute in mezzo ad una ricostruzione antologica dei miei quadri con cavalli antichi, frammenti di colonne, tempi, portici e prospettive. Gli americani hanno il culto del manichino, della cosa esposta.

 

 

Un’analisi del quadro Le muse inquietanti evidenzia che i colori sono caldi ma privi di vibrazioni atmosferiche, la luce è bassa, le ombre lunghe e definite nettamente, la prospettiva accentuata dalle linee convergenti in profondità, su una specie di palco ligneo, crea un vasto spazio allucinante. Sullo sfondo il castello estense ci richiama il grande passato glorioso della città di Ferrara irrimediabilmente perduto, mentre le ciminiere in disuso, squallido simbolo di modernità, ci richiamano al suo presente. I forti contrasti cromatici, il rosso del castello e il bianco spento delle due muse creano un’atmosfera surreale ed inquietante in cui lo spettatore è trasportato. In questo luogo sognato, solo apparentemente reale, dove tutto è immobilizzato, non possono abitare uomini ma solo manichini che hanno l’aspetto dell’uomo, non l’essenza. In questo quadro i manichini hanno foggia di statue classiche e il richiamo alla Grecia classica giustifica il titolo: le muse sono inquietanti perché inserite in un contesto urbano tanto posteriore come lo sono certi sogni, certi incubi, dove tutto sembra reale ma non lo è perché è dato dal nostro inconscio. I motivi tratti dalla realtà quotidiana sono assemblati senza un preciso motivo. Questo luogo sospeso, al di fuori del tempo e dello spazio non può essere abitato da esseri umani ma solo da manichini senza volto, i soli che possono trovare posto in uno spazio enigmatico. Nel silenzio di questa piazza ‘le muse’ sono pertanto immobili come in un palco vuoto che non attende pubblico. Sono presenze misteriose, inaccessibili, che mai potranno rivelarci il loro segreto. ‘Inquietanti’ perché devono suggerirci di andare oltre le apparenze e farci dialogare con il mistero. A detta di G. De Chirico «Noi spariremo ma il manichino resta». Resta perché a differenza del genere umano non soggiace alle leggi del divenire, della vita e della morte ma resta lì, immutabile come la Musa silenziosa, nel suo eterno dialogo con il mistero.

 

Anche in Ettore e Andromaca (1917) troviamo dei manichini ma in questo caso sono protagonisti: entro l’ampia prospettiva con la consueta atmosfera rarefatta e sospesa i due mitici personaggi si stringono nell’ultimo abbraccio presso le porte Scee prima del duello con Achille che segnerà la morte di Ettore, ma non sono personaggi reali e neppure autentici manichini di sartoria. Somigliano alla forma di manichini perché gli elementi costitutivi sono composti in quel modo, ma questi singoli elementi sono figure geometriche astratte come astratto è il complesso.

 

I manichini metafisici di De Chirico, di fatto, prefigurano quelli che verranno poi dipinti dai Surrealisti in cui immaginario e onirico si fondono creando atmosfere surreali. Nei suoi quadri si perde la concezione di spazio e tempo.

 

Non meno importante l’opera del fratello di Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico a cui il fratello dedica l’opera Duo (1914-1915). In tale opera i due manichini che si ergono su un pavimento ligneo, uno di statura più alta rispetto all’altro, De Chirico vuole rappresentare sé stesso ed il fratello Alberto Savinio identificabile nel manichino di minori dimensioni. Artista poliedrico dalla personalità eclettica, Savinio si dedica alla scrittura, alla drammaturgia, alla musica, alle arti visive divenendo uno dei massimi esponenti, con il fratello, del fermento avanguardista del primo Novecento. Pur arrivando alla pittura solo nel 1926, quando cioè la metafisica aveva fatto storia e da due anni si era affermato il movimento surrealista, le sue opere si impongono all’attenzione della critica per la ricerca creativa e il corroborante dinamismo che le caratterizza. Se nelle opere di Giorgio De Chirico si evidenzia, infatti, una dimensione statica e sospesa in cui tutto sembra fuori dal tempo, bloccato in un flash di un ricordo, in Savinio si riscontra un dinamismo prorompente che accompagna non solo la sua concezione della pittura   ma la sua visione del mondo. Egli costituisce un caso unico di intellettuale che non si concentra a rompere le barriere tradizionali all’interno di un’arte ma all’interno delle varie arti. In molti dei suoi quadri realizzati tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta vengono declinati in vari modi i leitmotiv dominanti quasi ossessivamente: forme trasfigurate dei suoi giochi d’infanzia riscoperte per una lettura delle infinite mutazioni della sua anima e del mondo.

 

I suoi manichini, che sono un trionfo di colori, rimarcano strutturalmente i giocattoli della sua infanzia riprodotti in molti suoi dipinti, accatastati l’uno sull’altro, che sembrano avere un’anima nel formare figure inusuali e meravigliose.

 

Ed ecco proporci nel quadro Ulysse (1928) il mitico Ulisse che ha per volto una sagoma ovoidale a rete, in netto contrasto con il paesaggio classico dai contorni ben delineati, una marina dal mare agitato su cui si adagia l’eroe omerico, un manichino il cui corpo è formato da un incastro di figure geometriche cilindriche e coniche con inserti trapezoidali policromatici in cui si alternano con un gioco sapiente il verde, il rosso, l’arancio, il blu, il rosa. Ciò che colpisce però, è che queste sagome geometriche che impersonano l’eroe greco, sembrano avere un’anima nella disposizione delle forme adagiate, quasi stremate, sulla battigia, come reduci da un naufragio.

 

Interessanti anche le opere del futurista Carlo Carrà che, dopo aver conosciuto De Chirico a Ferrara nel 1917 capta subito la novità del suo linguaggio pittorico e si avvicina al linguaggio metafisico. I manichini e le prospettive stranianti entrano a far parte del linguaggio pittorico dell’artista dando vita nel 1917 a tre dipinti: La musa metafisica, La camera incantata e Madre e figlio in cui reinterpreta gli oggetti prediletti da De Chirico tra cui i manichini, ricercando nuove relazioni tra spazio e volume, colore e strutture plastiche e dando un’interpretazione personale della poetica metafisica.

 

In particolare, ne La musa metafisica (1917) compare un manichino simile a quelli utilizzati da De Chirico insieme ad elementi diversi. La cartina geografica che mostra l’Istria di fianco al tricolore riveste una particolare importanza. Carrà, amico tra l’altro di Cesare Battisti, era un irredentista ed era convinto della necessità di far tornare italiane Trento, Trieste, l’Istria e la Dalmazia, obiettivo che la guerra permise di raggiungere solo in parte.

 

Ne La camera incantata l’artista rappresenta la camera dell’ospedale neurologico di Villa Del seminario a Ferrara, dove fu ricoverato nel 1917 per un problema nervoso dovuto alla sua deludente partecipazione alla guerra mondiale, sollecitato dal mito della guerra propugnato dal futurismo. Durante i mesi trascorsi nell’ospedale ferrarese conobbe Giorgio De Chirico e Filippo De Pisis, anche loro pazienti presso l’ospedale, i quali lo convinsero ad avvicinarsi alla pittura metafisica. Nelle sue opere, di fatto, si riconoscono iconografie tipiche della metafisica di De Chirico, come i manichini, il pesce di latta, i galleggianti, immerse in un’atmosfera incantata che vuole evocare ‘la magia delle cose’.

 

Nell’opera Madre e figlio (1917) l’artista conferma in primo piano l’elemento tipico della stagione ferrarese, il manichino, riproposto nella doppia personificazione familiare del figlio in abiti da marinaretto e della madre, inquietante busto sartoriale di memoria futurista.

 

Emblematico appare il dipinto di Carrà, L’ovale delle apparizioni (1928), in cui due manichini si ergono in un mondo senza tempo, sullo sfondo di un palazzo geometrico, in cui tutto sembra avvolto dal silenzio, anche la natura morta che li affianca. La forma ovale che, simbolicamente, si riferisce ai cubisti alimenta la tensione allo spirito perfetto, cui gli oggetti del dipinto tendono ad uniformarsi in sintonia con la contemporanea ricerca metafisica dechirichiana,

 

Anche l’artista bolognese Giorgio Morandi è tra i più originali interpreti della pittura metafisica. Mentre G. De Chirico e altri pittori metafisici si formano nell’ambiente parigino e assorbono le esperienze artistiche delle metropoli europee ed italiane G. Morandi rimane per tutta la vita legato alla sua città d’origine, Bologna.   Durante il suo percorso pittorico si dedica essenzialmente alle nature morte, inserendo genialmente in esse il motivo del manichino dopo avere incontrato De Chirico. La sua adesione alla pittura metafisica durò però pochissimo collocandosi alla fine della Prima guerra mondiale. Le sue opere creano un’atmosfera di silenziosa e pacata meditazione che infonde, anche negli oggetti più semplici una solennità quasi austera. L’artista abbandona ogni pretesa di carattere spirituale o filosofico per riportare il linguaggio pittorico alla pura essenza plastica.

 

In Grande natura morta del 1918, oggi conservato nel Museo di Brera, si evidenziano connotazioni tipiche della pittura metafisica come il manichino, le campiture uniformi di colore, le figure geometriche, l’atmosfera trasognata ed inquietante ma Morandi vi pone qualcosa di innovativo, inserendo nel contesto metafisico un elemento realistico come una bottiglia completamente bianca e un cilindro, elementi che caratterizzeranno il suo percorso pittorico futuro.

 

E ancora in Natura morta con manichino del 1919 si evidenzia l’influenza dechirichiana nella ripresa del motivo del manichino di cui compare la solida testa di legno che si erge immobile ed inespressiva sul tavolino di cui è parte integrante. Attorno sono sparsi una serie di oggetti che sembrano ispirarsi agli interni metafisici di De Chirico, tra cui un foglio bianco senza alcuna scritta e delle bottiglie di diverse dimensioni. Protagonista assoluto dell’opera è comunque il manichino che, a differenza dei manichini di De Chirico che simboleggiano qualcosa, vale in quanto forma perfetta: il suo volume, la sua fisionomia, lo spazio in cui è collocato rappresentano la sua stessa natura plastica.

 

Per non parlare dell’opera artistica di Fortunato Depero, che nel 1915 firma insieme a Balla il manifesto Ricostruzione futurista dell’Universo. In cui l’oggetto artistico si sostituisce alla realtà. Successivamente nel Teatro plastico inizialmente stilizza i movimenti degli attori fino a sostituirli del tutto con dei manichini che fungono da attori – macchina. Così si esprime a tal proposito nel 1919:

Liberandomi dell’elemento uomo conseguii la massima autonomia e la massima libertà nelle mie amatissime costruzioni viventi e così nacquero i miei ‘Balli plastici’, primo organico tentativo della rivoluzione e ricostruzione plastica e teatrale del mondo.

 

Nel 1924 produce il balletto pantomima Anihccam 3000 che segna il trionfo in scena dell’uomo manichino in veste di locomotiva ovvero come affermerà lui stesso di ‘locomotive umanizzate’.

 

Ne I selvaggi rossi e neri a trionfare è ancora l’uomo meccanizzato che sembra invadere il nostro pianeta, quasi alieno proveniente da mondi altri, in un gioco policromico seducente, in uno spazio con si pone all’occhio dello spettatore con un sovrapporsi giochi geometrici collocati in un tempo indefinito.

E si guardino ancora i bozzetti per i manifesti pubblicitari anticipatori dei balletti che metterà in scena a New York in cui a trionfare è ancora il manichino ma in veste di matita.

È a New York nel 1928/30 che l’artista progetta i costumi Pennini e matite utilizzando calzamaglie decorate. Per il balletto Cifre del 1929 adotta delle calzamaglie colorate lasciando ai danzatori, attraverso i movimenti del loro corpo, il compito di trasmettere segni dinamici e cifre. L’uomo, anche sulla scena si disumanizza diventando numero, matita, locomotiva, un manichino multifunzionale ed eclettico.

 

Si pensi ancora alle opere pittoriche di Mario Sironi in cui la componente metafisica rivestì un’importanza fondamentale nello sviluppo della sua arte e del suo universo di immagini lungo tutto l’arco degli anni Venti e dei primi trenta. A differenza di Carrà in Sironi temi ed elementi metafisici appaiono già in diverse opere futuriste. In La ballerina, ad esempio, incastonata sulla tela nella tecnica futurista del collage, si evidenzia la trasformazione da un soggetto di tradizione futurista ad un automa meccanico o per meglio dire ad un manichino, soggetto metafisico per eccellenza. Il 1919 viene considerato l’anno in cui maggiormente si manifesta l’adesione di Sironi alla pittura metafisica, quella in cui l’artista medita sul tema del manichino a cui spesso si affianca il cavallo o la natura morta. I manichini sironiani però, diversamente da quelli di De Chirico e degli altri rappresentanti della pittura metafisica, restano ancorati alla realtà, calati in una dimensione drammatica e in un afflato patetico che non ha riscontri in altri artisti del periodo.

 

Nel dipinto La lampada, ad esempio, del 1919 la lampadina sotto il lume appare inquietamente spenta eppure lungo il profilo del manichino da sartoria si diffondono barbagli indecifrabili di luce. Insolito il manichino femminile in guêpière dai tratti androgeni che si erge sui tacchi, in un interno domestico dai tratti dimessi e che, quasi in dialogo con un tavolo, ha solo alcuni tratti umani come i capelli, l’orecchio, l’ombelico mentre protende una mano inumana verso la lampadina. Sprazzi di luce scivolano sulla piramide in bilico sul tavolo mentre dall’ambiente in penombra sembrano svettare oggetti brillanti di luce propria come il verde smeraldo del tavolo in simbiosi col verde della calzamaglia del manichino che ben si raccorda col rosso della metà del busto. Un ambiente in cui il gioco ben cadenzato di luci ed ombre crea un’atmosfera suggestiva ed audace di luce ed ombre che fa di quest’interno forse il più metafisico che l’artista abbia creato.

 

Anche l’opera La Venere dei porti (1919) evidenzia un mélange futuristico – metafisico riscontrabile l’uno nel dinamismo della nave dello sfondo, nel collage di giornali che costruisce il suo corpo, l’altro nella donna –manichino forse in attesa, dritta sul ponte, dal volto misterioso in ombra, dal busto rigido e con tacchi alti, immersa nel paesaggio portuale circostante che rimanda alle periferie urbane industriali con le atmosfere deserte.

E un dipinto ricco di suggestioni pittoriche diverse appare anche Il cavallo bianco sempre del 1919, oggi al Museo Guggenheim di Venezia. La parte superiore del dipinto, infatti, ricorda lo stile fortemente spezzato cubo-futurista mentre la parte inferiore che racchiude il nudo e il cavallo, focalizza la simpatia di Sironi per la pittura metafisica di G. De Chirico e Carlo Carrà ravvisabile anche nel cumulo di solidi geometrici ammassati disordinatamente sullo sfondo. Il suo cavallo con cavaliere capovolge la dimensione eroica del soggetto in quanto Sironi non guarda alla coppia cavallo- cavaliere con uno sguardo volto alla mitologia ma piuttosto per fotografare il suo tempo a cavallo tra vecchi valori e modernità. Quest’ultima è ravvisabile anche nella sagoma del motociclista, visibile di spalle dietro il cumulo di solidi geometrici. Il dipinto sembra dunque proporre uno spaccato di un’Italia ancora legata ai valori rurali ma in cammino verso l’industrializzazione. Sironi vive drammaticamente questo passaggio e ne sente la malinconia più che l’energia.

 

È notevole anche la figura di Renato Paresce. Nato a Carouge, vicino a Ginevra, nel 1886, è una delle personalità più singolari del primo Novecento. Formatosi nell’ambiente culturale fiorentino e poi a Palermo, dove si laurea in Fisica, Paresce assorbe gli umori della filosofia europea antipositivista del tempo, da Bergson a Le Roy, che lo spingono ad abbandonare la carriera universitaria e a dedicarsi alla pittura. È soprattutto agli inizi degli anni Venti che la sua pittura acquista caratteri più definiti elaborando la sintassi post-cubista sulla scia di autori come Gris e Braque, ma è negli anni Trenta che la sua pittura acquisisce una piena maturità artistica. Nell’ambiente parigino assorbe la grande lezione di De Chirico, ma la rielabora in modo molto personale mescolando romanticismo e astrazione, classicità e avanguardia. Nella pittura degli anni tra 1928 e il 1933 il suo orizzonte si amplia: compaiono scalinate, archi, velieri e, soprattutto le donne-manichino.  

 

Il dipinto Donna alla finestra è un incastro di spazi domestici tenuti insieme dal filo sottile della prospettiva. Il quadro è come un teatro con una sceneggiatura che è solo in parte allusa per lasciare a chi guarda la possibilità di immaginare quanto vi si cela .Il tema su cui si focalizza  l’opera è l’attesa, evidente  nel  manichino- donna che appare assorto alla finestra quasi Penelope in attesa forse del proprio amato e l’attesa è rimarcata dalla porta aperta nella parte sottostante , a significare  la  disposizione emotiva della donna che forse attende da molto tempo e  si augura , con la porta aperta, che  l’attesa  stia per coronarsi con un arrivo insperato. Il veliero lontano a vele spiegate che avanza su un mare calmo, vuole forse comunicare che l’attesa è finita? Paresce lascia la risposta a questa domanda alla fantasia dei lettori e delle lettrici del quadro.

 

Figure di donne troviamo nella pittura di Massimo Campigli, pseudonimo di Max Ihlenfeldt, donne che si inseriscono in uno scenario senza tempo e senza una connotazione geografica, come rigidi manichini. «Dipingere le donne» - forse influenzato dalla presenza nella sua vita della madre e della nonna - «per me è un dovere irresistibile, intrinsecamente collegato all’atto stesso della creazione artistica». Donne dunque, ripetute, moltiplicate, frammentate, le protagoniste delle opere di questo intellettuale che, nato a Berlino nel 1895 non conoscerà mai il padre. A Milano, dove trascorre parte della giovinezza entra in contatto con l’arte futurista iniziando la sua attività di pittore ma è a Parigi che decollano le sue aspirazioni pittoriche, formando il gruppo Italiens de Paris con De Chirico, Tozzi, Severini ed altri fino al 1932 e assimilando le tecniche della pittura metafisica ma personalizzandole. Tutte le età - come ebbe a dire Ezra Pound - sono contemporanee nella pittura di Campigli che spazia dalle più antiche del Mediterraneo, degli Egizi e degli Etruschi, dei Greci e dei Romani, un ‘Novecento antico’ tout court su cui si innestano le tecniche assimilate a contatto con l’ambiente parigino.

 

Ecco allora ne La pittrice (1927) una donna di profilo che ricorda nelle movenze l’autoritratto di Artemisia Gentileschi, intenta a dipingere su un cavalletto ben squadrato il cui volto incastonato in un gioco di luci ed ombre che pervade tutto il dipinto, è assimilabile ai manichini dechirichiani anche nella gestualità resa mediante schemi geometrizzanti, mentre nei tratti corporei sovradimensionati palesemente mascolini riecheggia l’influsso della pittura cubista. Nelle opere realizzate durante tutto l’arco della sua vita la sua creatività si riversa sulle donne – clessidra e le donne ispirate alla cultura etrusca.

Non si può non sottolineare l’influenza capillare della pittura metafisica sulle avanguardie europee, documentata peraltro, da una serie importante di opere di Man Ray, Raul Hausmann, René Magritte, Salvator Dalì, Marx Ernst che realizzarono straordinari capolavori ispirati ai manichini di De Chirico e Carrà.

 

Dopo quest'ampia disamina di opere letterarie e pittoriche degli anni tra le due guerre, appare plausibile domandarsi quali potrebbero essere stati i motivi che abbiano indotto gli intellettuali a fare oggetto della loro arte il tema del manichino e della marionetta. Sicuramente l'atmosfera del dopoguerra aveva creato un clima di incertezze, sia per la mutata situazione politica e sociale, sia per i nuovi indirizzi dell'arte e della filosofia che si andavano affermando. Ciò sollecitava l'intellettuale a esprimersi in modi diversi rispetto alla tradizione e a percorrere nuove strade favorevoli alla nascita di nuovi stili sia nella letteratura che nelle arti figurative. Forse però nel tema del manichino è da vedere una celata contestazione al regime fascista; il fenomeno del fascismo istituzionalizzatosi, la figura di Mussolini e dei gerarchi imperanti, rompevano il precedente equilibrio, il gioco delle proporzioni e il fascismo rappresentò in quegli anni in cui si registravano i maggiori successi del regime sia politici che culturali, un'invadenza in tutta la vita italiana. Ognuno di questi intellettuali, pertanto, reagì a seconda della propria angolazione, ingrandendo o rimpicciolendo attraverso la propria lente la realtà e mettendo in evidenza un processo di disgregazione dell'io e di disumanizzazione che riduceva l'essere umano ad una sorta di manichino in cui si annulla l'identità del soggetto.

Della politica Pirandello, in particolare, aveva colto l’aspetto più corrosivo del compromesso ideale e morale. Per questo la sua adesione al regime ha il significato di una delega ad un ‘personaggio’ capace di eccezionali poteri creativi. Il drammaturgo di successo teatralizzava così il suo rapporto con Mussolini senza accorgersi che, facendogli credito di uno speciale sentimento della ‘doppia e tragica necessità della forma e del movimento’ contribuiva alla parodia ideologica del pirandellismo, che già andava manifestandosi come riduzione della sua opera a formula parafilosofica.

La propaganda del regime cercava il consenso intellettuale insistendo sulla novità del Fascismo come prima originale creazione politica italiana; e certo l’adesione pirandelliana la favoriva nei limiti in cui lo scrittore si prestava ad essere strumentalizzato, limiti segnati dalla funzione che col suo prestigio egli pensava di potere esercitare in funzione della rinascita, anche organizzativa, del teatro. Per il resto valevano al di là dalla soddisfazione per i riconoscimenti ufficiali che il regime non gli lesinò, il carattere segnatamente corrosivo della sua opera, a volte rischiosamente allusivo (come nella novella già citata del 1934 C’è qualcuno che ride) e soprattutto la sua ribadita estraneità esistenziale e professionale, alla politica, come si evince dalle sue parole «sono apolitico, mi sento soltanto un uomo sulla terra». D’altra parte, Pirandello era consapevole dell’impossibilità di scendere dal piedistallo in cui l’avevano collocato l’opinione pubblica e il potere. Nel 1932 scriveva a Massimo Bontempelli: «Nascere è facile, nascere all’arte è sempre stato il meno. Il gran rischio di ogni artista è poi, quando è nato, seguitare a rinascere». Nella pièce teatrale Quando si è qualcuno il protagonista sembra essere la proiezione di Pirandello, poiché vuole dimostrare a sé stesso più che agli altri la sua capacità di sottrarsi al cliché e di rinascere, ma alla fine rimarrà solo sulla scena ‘irrigidito, divenuto la statua di sé stesso’. La maschera di Qualcuno non può denudarsi neppure inviando messaggi nuovi e contraddittori. All’artista è impossibile in definitiva, inviare messaggi storicamente riconoscibili. L’ultimo mito di Pirandello è appunto il dramma del messaggio impossibile. Non a caso Pirandello sceglie come testo sacro a Ilse  La favola del figlio cambiato che, rappresentata nel 1934 al teatro dell’opera di Roma, era stata accolta con ostilità dai fanatici del Regime, insofferenti del significato latente del mito, che esalta sentimenti rinunciatari e riduce a farsa il tema del dominio e della sovranità  Il mito è in tal senso da leggere come una rivalsa di Pirandello contro il potere, prestandosi ad una sua interpretazione allusiva, come allegoria di un totalitarismo che si esibiva in quegli anni con la maschera del gigantismo operoso. Viene naturale un confronto con i testi Kafkiani Il Castello e Il Processo, che fanno della inaccessibilità del potere la condizione tragica del personaggio. Ilse sarà uccisa dal pubblico che pretende da lei l’esibizione di uno spettacolo volgare e il suo corpo sarà raccolto dai compagni ‘spezzato come quello di un fantoccio rotto’.

È evidente ne I Giganti l’ostentazione di gigantismo operoso del Regime, che sottometteva ai suoi voleri anche l’opera d’arte e la condanna del potere da parte di Pirandello e di molti altri intellettuali del tempo diviene è indiretta ma non per questo meno corrosiva ed efficace. Nel tema del manichino si concretizza una silente ma marcata denuncia contro un potere che non dava voce ad un intellettuale che si sottoponeva ai suoi voleri coercitivi.

Oggi l'automatismo, la meccanicità, sono diventati il sintomo di una malattia universale. La disumanizzazione, la mancanza dei rapporti umani, i vuoti dialoghi, i problemi della grande città, l'accelerazione, sono attuali oggi più che mai.

L'uomo ha perso ogni autonomia, libertà e autenticità, siamo (per dirla con un'espressione di Massimo Bontempelli nella sua commedia Minnie la candida) uomini ‘prefabbricati’, costruiti cioè da una società che ci plasma per subordinarci ai suoi fini consumistici, una società che secondo Bontempelli è strutturata retoricamente, perché mira a persuadere e ad addomesticare l'uomo. Il tema è posto oggi da molti studiosi. Per esempio, il critico americano Fredric Jameson, autore di un saggio ormai classico sulla società post-moderna (Il postmoderno. O la logica culturale del tardo capitalismo, 1989) sostiene che gli strumenti audio-visivi tendono a “colonizzare” l'inconscio e a produrre un tipo di obbedienza immateriale ed impercettibile. Il potere insomma è diventato potere del linguaggio, (quello della pubblicità, della televisione, dei mass media in genere) che forma non solo la coscienza ma l'inconscio, trasformando l'uomo in un ingranaggio ubbidiente al sistema. Le avanguardie del primo '900, primo tra tutti Pirandello, pongono un problema assai vivo anche oggi.

E allora ci tornano alla mente gli ‘scalognati’, i dolci dementi, i folli visionari che non chiedono più nulla alla vita ma si contentano della palpabile realtà dei loro sogni che l'immaginifico Cotrone crea loro per arcana virtù, così che l'esistenza diventa un gioco di illusioni. Di colpo il poeta e il suo popolo di fantasmi come le maschere doloranti di un tempo sembrano disciogliersi come ‘l'uomo di fumo Perelà’ e al loro posto emerge la realtà di oggi anch'essa finta e artificiale come gli uomini che la compongono, una realtà in cui a dominare è il computer, la chat, gli sms in cui la parola e la comunicazione vengono mortificate.

Verrebbe dunque di fare un appello a quanti oggi, asserviti ad internet trascorrono molto tempo davanti ad uno schermo divenendo come Serafino Gubbio Operatore quasi automi o manichini davanti ad una macchina, incitandoli a recuperare la parola, la fisicità, l'umanità oggi perdute.

 

 

14 novembre 2025