Marianna Villa - Per un Verga “Manzoniano”

Leggere in classe Verga e Manzoni

 

Gli studi in corso per l’anniversario verghiano hanno avuto il merito di ridefinire alcune questioni significative per una riflessione sulla figura e l’opera di Giovanni Verga in classe.  La scuola, infatti, ha dato molto all’autore siciliano, contribuendo alla  canonizzazione di un’opera[i], come i Malavoglia, che, come sappiamo, fu un fiasco completo  (« I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo», scrisse Verga a Capuana l’11 aprile 1881), ma d’altro lato ha cristallizzato l’autore, ancorandolo ad alcune etichette critiche che oggi appaiono quanto mai riduttive, quali l’impersonalità, il realismo fedele,  l’assenza di giudizio, una presunta prospettiva regionalistica e conservatrice etc.

Invece dagli studi in corso è emersa l’immagine di un autore fortemente innovativo e sperimentale, mai uguale a sé stesso, che attraversa generi differenti- novella, romanzo, dramma, sceneggiature teatrali, fotografia,[ii] sceneggiatura per il cinema [iii]- e crea soluzioni linguistiche e stilistiche di volta in volta coerenti con il genere scelto e gli effetti voluti.  Insomma, il Verga scolastico “verista” va svecchiato e, se i tempi stretti delle lezioni costringono a ripiegare sui testi più noti, almeno sarebbe necessaria ed “onesta” una presentazione agli studenti di un Verga a tutto tondo, come suggerito a più riprese da Gino Tellini nei suoi interventi durante le celebrazioni verghiane in corso.

 

Tra gli aspetti da ridefinire a scuola, vi è senz’altro il rapporto con Manzoni, già tracciato da Gabriella Alfieri nella sua monografia del 2016:[iv] per una consuetudine scolastica, infatti, il romanzo “verista”, per lo più identificato con I Malavoglia, viene contrapposto schematicamente a quello manzoniano, quasi ne costituisse un sistematico rovesciamento. E invece Verga, “borghese conservatore”, attua una rilettura quanto mai profonda del capolavoro manzoniano e se ne riappropria progressivamente, forse per tentare una via alternativa a quella degli Scapigliati in un ambiente, come quello milanese, caratterizzato da una società letteraria aperta a diverse soluzioni narrative.

Verga arriva a Milano tra il 20 novembre 1872 e il 1873, e si eccettua qualche viaggio sporadico e ritorni periodici a Catania, vi rimane fino al 1892 cambiando quattro volte abitazione; vent’anni a frequentare ambienti dell’alta borghesia milanese, che gli consentono di intessere importanti relazioni con intellettuali, pittori ed editori. Si tratta dei salotti più esclusivi, come quello di Clara Maffei, ma anche di locali alla moda, tra cui il Caffè Cova, a lato del Teatro della Scala, il caffè Gnocchi  e il Biffi, i teatri, Dal Verme, Carcano e della Scala,  a cui aggiungere le discussioni su rivista. Piuttosto abitudinario, Verga   distingueva nettamente i momenti dedicati allo studio dallo svago e, come in un circolo produttivo, a partire dalle esperienze di vita mondana ricavava spunti per la sua scrittura. Egli scriveva fino alle quattro del pomeriggio per poi passeggiare nelle vie più eleganti della città, da Porta Venezia e Porta Nuova, e trascorrere le serate nei salotti e locali alla moda. Si tratta insomma di uno scrittore flâneur, che ben conosce i fasti e le seduzioni della mondanità, e ama immergervisi, come scrive a Capuana il 5 aprile 1973: 

 

"Sì, Milano é proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c’é proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni, e restare al lavoro. Ma queste seduzioni sono fomite, eccitamento continuo al lavoro, sono l’aria respirabile perché viva la mente; ed il cuore, lungi dal farci torto non serve stesso a rinvigorirla. Provasi davvero la febbre di fare; in mezzo a cotesta folla briosa, seducente, bella che ti si aggira attorno, provi il bisogno d’isolarti, assai meglio di come se tu fossi in una solitaria campagna. E la solitudine ti é popolata da tutte le larve affascinanti che ti hanno sorriso per le vie e che son diventate patrimonio della tua mente".

 

L’ambiente milanese stimola  la creatività di Verga: è sempre a Milano che incontra Capuana e crea quella sua “officina” di scrittori a cui si aggiungerà, dal 1885, De Roberto: scambi di idee, discussioni ma anche correzioni di manoscritti e il progetto di fondare addirittura una casa editrice in proprio, poi naufragato per le resistenze di Capuana.[v] Come è stato puntualizzato nel recente volume di Giorgio Forni,[vi] il Verismo va inteso come una sorta di “laboratorio collettivo”  caratterizzato da molteplici sperimentazioni, una esperienza di rottura  che potrebbe essere considerata «la prima Avanguardia d’Italia», non a caso ancora a Milano. E questa città significava “Manzoni” e soprattutto I promessi sposi della quarantana, un modello da indagare sia per quanto concerne le tematiche che la lingua.[vii]

 

All’ombra di Manzoni

“Manzoniano”: così si definisce Verga nella lettera a Cameroni dell’8 aprile 1890 scritta dalla lontana  Vizzini, a proposito della stroncatura di Policarpo Petrocchi sul Mastro Don Gesualdo:

 

"Hai letto l’articolo del Petrocchi sulla Lombardia a proposto del Mastro Don Gesualdo? Il Petrocchi è Manzoniano (lo sono anch’io, meglio di lui, corsivo mio n.d.) idealista che so io, il fatto è che, malgrado le sue proteste, ha una gran voglia di dir male del libro, e pazienza”. [viii]

 

Pur non essendoci dichiarazioni di poetica esplicite che confermino i debiti nei confronti di Manzoni, un nucleo di lettere milanesi intorno al 1880 contiene segni di ammirazione per Don Lisander. Ad esempio, rivolgendosi al giovane Ferdinando di Giorgi, Verga addita Manzoni come modello da imitare per poter intraprendere la carriera di scrittore:

 

"Glielo dico anzi perché c’è in esso qualità buonissime e stoffa di scrittore e pel molto che promette anche nell’opera giovanile e pel rispetto che si deve a chi combatte le prime armi con fede e valore. E di questo valore ella darà prova più sicuro, se avrà pazienza, se vorrà pensarci su molto, come diceva Manzoni, Lui che la sapeva più lunga di tutti e che cominciò con un capolavoro". [ix]

 

Manzoni è apostrofato con la lettera maiuscola e la sua opera viene definita «un capolavoro»: Verga appare allora molto più “manzoniano” di altri suoi contemporanei. Ugualmente I promessi sposi sono un costante punto di riferimento nella sua riflessione teorica:  nel 1874, ad esempio,  quando Verga li paragona a Madame Bovary, o in una lettera a Capuana del  19 febbraio 1881 - e ancora a Cameroni  del 19 marzo 1881- nelle quali è  l'Assommoir di Zola ad essere accostato al capolavoro manzoniano, che diventa un filtro comune per due opere in lingua francese molto diverse tra loro.

Ovviamente l’incontro  di Verga  con Manzoni era stato di lunga data, mediato dai banchi di scuola (e sappiamo che a 16 anni conosceva almeno l’incipit de I promessi sposi), ma si trattava di un Manzoni impoverito e riduttivo: va infatti  precisato che in Sicilia il romanzo veniva letto per lo più nell’edizione Ventisettana, come testimonia l’antologia manzoniana del 1850 presente in Casa Verga. Nella direzione del romanzo storico sono poi le prime prove narrative verghiane, come I carbonai delle montagne.  E’ però l’ambiente milanese a rafforzare l’incontro con Manzoni, sia attraverso la frequentazione dei luoghi manzoniani (in città, ma anche nel lecchese, come si legge nella corrispondenza epistolare) sia, possiamo supporre, attraverso una più profonda lettura del testo nella sua versione definitiva.

Gli studiosi hanno ipotizzato pertanto che durante il soggiorno milanese Verga tenesse sul comodino una sua personale copia de I promessi sposi mentre scriveva le sue opere:[x] a Capuana nel 1872, infatti, confesserà che ama il «ruminare» intorno a certe parole manzoniane,  che per altri sono «vane e insignificanti». Ecco allora che I promessi sposi potrebbero costituire il punto di partenza per la scrittura più matura di Verga: sulle parole “ruminate” e poi digerite innesca un continuo confronto con Manzoni, che per piccoli assaggi può essere sperimentato con gli studenti.

Molto attento alla “parola viva”, l’autore siciliano avrà guardato in particolare ai capitoli conclusivi de I promessi sposi in cui i personaggi sembrano prendere vita e arrivano a parlare direttamente, con una mimica e tratti linguistici peculiari. Tra i contributi del centenario verghiano, i più significativi per l’attività didattica di un docente sono quelli di Giuseppe Polimeni e Giorgio Forni,[xi] che hanno rinnovato le indagini sulle numerose convergenze a livello tematico, stilistico, di microstrutture linguistiche tra i due autori, a partire dalla rappresentazione del parlato e dei pensieri dei personaggi. 

 

Significativo per la riflessione linguistica potrebbe essere stato il capitolo XXVII per le possibilità narrative dell’oralità:

 

"Ma per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato. Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell'abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d'intendere; perché l'interessato, fondandosi sulla cognizione de' fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto".

 

Di fatto la lettera di Renzo è tutta piena di tracce di oralità. E’ come se, leggendo Manzoni, Verga abbia scoperto la componente orale, la lingua dell'affettività, tradotta in una sintassi in cui abbondano le aggiunge paratattiche per polisindeto e con la congiunzione “che”, già visibili nel passo manzoniano:

 

"Dopo l'espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, "scrivete," proseguiva dettando, "che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la giovine dev'esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c'entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l'ho sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui; e che, se ora sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che passerà presto;" e cose simili".

 

Nel cap. XXXVII de I promessi sposi vi è un’importante riflessione sulla rappresentazione del parlato dei personaggi, in cui Manzoni invita il lettore a «sentire con gli orecchi» i racconti e le parole degli umili:

 

"Agnese gl’indicò un orto ch’era dietro alla casa; e soggiunse: “entrate lì, e vedrete che c’è due panche, l’una in faccia all’altra, che paion messe apposta. Io vengo subito.”

"Renzo andò a mettersi a sedere sur una: un momento dopo, Agnese si trovò lì sull’altra: e son certo che, se il lettore, informato come è delle cose antecedenti, avesse potuto trovarsi lì in terzo, a veder con gli occhi quella conversazione così animata, a sentir con gli orecchi que’ racconti, quelle domande, quelle spiegazioni, quell’esclamare, quel condolersi, quel rallegrarsi, e don Rodrigo, e il padre Cristoforo, e tutto il resto, e quelle descrizioni dell’avvenire, chiare e positive come quelle del passato, son certo, dico, che ci avrebbe preso gusto, e sarebbe stato l’ultimo a venir via. Ma d’averla sulla carta tutta quella conversazione, con parole mute, fatte d’inchiostro, e senza trovarci un solo fatto nuovo, son di parere che non se ne curi molto, e che gli piaccia più d’indovinarla da sé".

 

Per Giorgio Forni si tratterebbe del passo “originario” da cui Verga avrebbe raccolto la sfida manzoniana e si sarebbe calato nei personaggi, presentandone la prospettiva. Ecco allora che I promessi sposi, inizialmente punto di riferimento per la lingua, è probabilmente diventato anche “altro” nel corso degli anni: un bacino di motivi e «microstrutture narrative», riprese e sviluppate in direzioni nuove.

 

Prelievi linguistici

Una prima indagine in classe può avvenire partendo dal dato linguistico, preferibilmente servendosi dei testi digitalizzati on line e/o di specifici programmi (Voyant tool, Philoeditor/[xii]) per un’interrogazione veloce dei testi. Già gli studi di Spezzani in occasione del centenario dei Malavoglia[xiii] avevano individuato una significativa consistenza di prelievi e modi di dire soprattutto nelle sezioni più popolareggianti; per cui si possono individuare più di sessanta locuzioni e modi di dire comuni tra le due opere, a partire dal celebre «mettersi il cuore in pace» [xiv]  (vengono riportati di seguito per opportunità didattica):

 

"mettere gli occhi addosso: PS II; M VI; aiutati che ti aiuto: PS VI; M XI; andare e venire: PS VII;M XI; rimanere a bocca aperta: PS I; M I; arricciare il naso: PS XXVIII; M IV; 33 Per le corrispondenze linguistiche verrà citato il capitolo di riferimento. Nei casi citati, salvo indicazione contraria, i corsivi sono miei. 34 Id., p. 758. 22 aver giudizio: PS XXIX; M I; aver pazienza: PS XV; M II; comandare a bacchetta: PS IX; M XII; levarsi il pane di bocca: PS XXIV; M X; bollire in pentola: PS V; M II; passar della burrasca: PS XXVII; M I; spartire i capelli: PS II; M IX; tirare la carretta: PS XXXVIII; XII; pensare ai casi suoi; PS XXIX; M XII; cavarsi d’impiccio: PS VI; M VII; cercar guai: PS XXXVIII; M XIV; stringere il cuore: PS X; M XI; toccare il cuore: PS X; M XI; fare il diavolo: PS XVI; M VIII; essere nelle mani di Dio: PS XIII; M X; far la volontà di Dio: PS IX; M XV; saltare di palo in frasca: PS XXXVIII; M XIII; essere un galantuomo: PS XI; MII; mettere una pulce nell’orecchio: PS III; M V; morir come le mosche: PS XII; M VIII; pensare alla pelle: PS II; M XI; fare uno sproposito: PS II; M X; essere volpe vecchia: PS V; M XIII".

 

L’orizzonte di riferimento per entrambe le opere è il toscano, ma senz’altro la lettura de I promessi sposi ha contribuito alla sedimentazione di queste espressioni nell’opera verghiana. E non si tratta di semplici tessere, in quanto portano con sé interessanti riflessioni sul diverso orizzonte in cui si collocano le due opere e sulla modalità di riuso attuata da Verga. L’analisi di alcune voci di questo corpus in classe, magari a gruppi, risulterebbe allora significativa per considerazioni ad ampio raggio sui rapporti tra i due autori.

 

«Giudiziosi accoppiamenti»

Basterebbe da solo l’accostamento tra i passi noti dell’«addio ai monti» di Lucia e della  contemplazione del cielo stellato fatta da Mena sul ballatoio –accomunati dal tema del “matrimonio mancato” –per verificare in classe come l’operazione verghiana sia anche quella di una «riscrittura enunciativa» de I promessi sposi.

 

"Le stelle ammiccavano più forte, quasi s'accendessero, e i tre re scintillavano sui fariglioni colle braccia in croce, come Sant'Andrea. Il mare russava in fondo alla stradicciuola, adagio adagio,[xv] e a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo il quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c'era pure della gente che andava pel mondo a quell'ora, e non sapeva nulla di compar Alfio, né della Provvidenza che era in mare, né della festa dei Morti; - così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno.
Il nonno s'affacciò ancora due o tre volte sul ballatoio, prima di chiudere l'uscio, a guardare le stelle che luccicavano più del dovere, e poi borbottò: - «Mare amaro!» (M, II )". [xvi]

 

Così  il cap. VIII, in cui è il narratore a riportare i pensieri dei personaggi:

"Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo[…]

Addio, monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de' suoi più familiari; torrenti, de' quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! 

[…]   Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini". [xvii]

 

Tra l’altro le due figure femminili sono accostabili per alcuni particolari: entrambe schive e riservate, subiscono i soprusi di un intero “sistema sociale”. La loro presentazione appare simmetrica nel particolare dell’acconciatura, come se Verga voglia “ammiccare” a Lucia:

 

"Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s'apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all'intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese (PS II)"

"Intanto a Sant’Agata le avevano messa la veste nuova, e aspettavano la festa di san Giovanni per toglierle la spadina d’argento dalle trecce, e spartirle i capelli sulla fronte, prima d’andare in chiesa, sicché ognuna al vederla passare diceva: – Beata lei! (M. IX)"

 

e in riferimento al lavoro di filatura, rafforzato dai nomi “parlanti” (Mondella- Sant’Agata)

 

"Povera Lucia Mondella! [Bortolo] Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! Sempre la più comporta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia… Mi par di vederla, appena fuor del paese con un bel fico che passava il muro[…]quando si passava da quella casuccia, sempre si sentiva quell’aspo che girava, girava, girava (PS XVII)"

"Padron Cipolla confermò che tutti lo sapevano in paese che la Longa aveva saputo educarla la figliuola, ognuno che passava per la stradicciuola a quell’ora udendo il colpettare del telaio di Sant’Agata diceva che l’olio della candela non lo perdeva, comare Maruzza.[…] – Comare Mena non si vede, ma si sente, e sta al telaio notte e giorno, come Sant’Agata, dicevano le vicine. (M II)"

 

Non solo per l’invenzione letteraria, Manzoni risulta significativo anche per la capacità  di rappresentare lo spirito di un’epoca, come Verga precisa nella già ricordata lettera a Felice Cameroni del 1881, allargando così le possibilità di un confronto a livello di ambienti, situazioni e temi, tra cui si può ricordare quello della casa, della Provvidenza, della rivolta etc.

 

"La vie seule est belle, dice Zola, e dice santamente, ed egli che ha soffio possente per emetterne tanto nelle sue opere d’arte, insegnerà assai meglio che con due pagine come la sua Miseria che con dieci volumi di critica il nuovo metodo in cui l’arte moderna ha cominciato a sentire l’alito vivificatore fin dalla prima metà di questo secolo, lasciamici mettere pure il caro Manzoni, col caro cardinale Borromeo, e col suo padre Cristoforo, che dato l’ambiente, la tendenza degli spiriti in quell’epoca, la situazione particolare dell’individuo, mi sembrano altrettanto vivi e reali quanto Don Abbondio e il Conte zio". [xviii]

 

Per un’analisi che  coinvolga il piano tematico e macrostrutturale, può essere significativo accostare il modo in cui ne I Promessi Sposi si guarda alle classi superiori con le modalità di rappresentazione dei Malavoglia:

 

"Sentite, figliuoli; date retta a me, - disse, dopo qualche momento, Agnese. - Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato [...] - continuò Agnese: - quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca-garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. – (PS III)"

 

Gli umili, come «pulcini nella stoppa» si rivolgono ai più potenti portando del cibo per avere informazioni e la stessa situazione si presenta ai Malavoglia quando cercano disperatamente di salvare la Casa del Nespolo e si affidano a chi sa di più.

 

" — Sacramento! — esclamava ’Ntoni. — Siamo sempre come i pulcini nella stoppa, ed ora mandano l’usciere per tirarci il collo. — Cosa faremo? — diceva la Longa. […] — Così i Malavoglia se ne tornarono a casa colla carta bollata in mano. Pure qualche cosa bisognava fare, perchè quella carta bollata lì, posata sul canterano, avevano inteso dire, si sarebbe mangiato il canterano, la casa e tutti loro. — Qui ci vuole un consiglio di don Silvestro il segretario, — suggerì Maruzza. — Portategli quelle due galline là, e qualche cosa vi saprà dire. (M. VI)"

 

Anche la nota sequenza dell’epidemia di colera che uccide la Longa è evidentemente modellata sull’illustre precedente, mentre il lettore è calato entro il punto di vista del personaggio e della collettività:

 

"Ma bisognava guardarsi bene dai cattivi incontri, e non accettare nemmeno una presa di tabacco da chi non si conosceva! Andando per la strada bisognava camminare nel bel mezzo, e lontano dai muri, dove si correva rischio di acchiapparsi mille porcherie; e badare di non mettersi a sedere sui sassi, o lungo i muricciuoli. La Longa una volta, mentre tornava da Aci Castello, col paniere al braccio, si sentì così stanca che le gambe le tremavano, e sembrava fossero di piombo. Allora si lasciò vincere dalla tentazione di riposare due minuti su quelle quattro pietre liscie messe in fila all’ombra del caprifico che c’è accanto alla cappelletta, prima d’entrare nel paese; e non si accorse, ma ci pensò dopo, che uno sconosciuto, il quale pareva stanco anche lui, poveraccio, c’era stato seduto pochi momenti prima, e aveva lasciato sui sassi delle gocce di certa sudiceria che sembrava olio. Insomma ci cascò anche lei; prese il colera (M XI)"

 

Così in Manzoni:

 

"Se mi s'accostava un passo di più, - soggiunse, - l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu ch’eravamo in un luogo così solitario, ché se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si trovava quella scellerata porcheria nel cappello. […] Ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore d’altro sudiciume, o d’altro più funesto peso che potesse venir giù dalle finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso buttate da quelle su’ passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte. (PS XXXIV)"

 

E’ possibile, più in generale, riscontrare un comune atteggiamento nei confronti degli spazi aperti, delle vie, delle folle: anche nella raccolta Per le vie,  pur nella dettagliata toponomastica che permette di riscostruire itinerari e ambienti milanesi, l’attenzione dello scrittore siciliano è più volta agli interni e all’interiorità dei personaggi; al rituale borghese  della passeggiata, del saluto e delle interazioni discorsive si affacciano la violenza, trasgressione e dolore che affliggono l’umanità. Così si potrebbero leggere a scuola in un’ottica di confronto con Manzoni le novelle I Bastioni di Monforte o la più riuscita L’osteria dei «Buoni amici »  (già inclusa da  Gianfranco Contini nella sua  Letteratura dell’Italia unita)[xix] per indagini, a partire dagli spazi, delle modalità di visione dell’altro, dei, luoghi, della società.

La procedura dell’accostamento e dell’analisi intertestuale di passi -anche rimanendo entro quelli più scolastici e generalmente antologizzati - premetterebbe di recuperare la grandezza de I promessi sposi, spesso schiacciati al termine del quarto anno, all’inizio del successivo,  mentre si affronta, con ritmi più distesi, lo studio di Verga.

Potrebbe inoltre risultare produttivo, anche al biennio, accostare a pagine manzoniane dei passi dalle opere verghiane o intere novelle, in un’ottica di confronto che possa “svecchiare” entrambi gli autori e far capire agli studenti come la letteratura si nutra di riscritture e riappropriazioni. Come Verga “ruminava” I promessi sposi? In cosa consiste la vitalità e l’attualità di un classico?  In cosa consiste l’ “onda lunga” di Manzoni nella tradizione letteraria?

Particolarmente efficace è anche il lavoro su Novelle Rusticane, che effettivamente presentano numerose macro-convergenze tematiche volute. In Reverendo, ad esempio, vi è un sacerdote usuraio, accostabile a  Don Abbondio dei Promessi Sposi. In Pane nero compare il riferimento alla Provvidenza (che è anche la barca dei Malavoglia), nei Galantuomini si trova il particolare della questua dei frati  che richiama Fra Galdino manzoniano; in Malaria troviamo un personaggio chiamato “Rospo” e una scelta onomastica che richiama, come in Manzoni, il mondo animale. Infine la novella Libertà, con tutti gli spunti che offre per l’Educazione civica,  può essere letta in parallelo ai capitoli manzoniani della rivolta per il pane.

Dalle pagine manzoniane alle novelle di Verga, magari analizzate a gruppi, e ritorno: il dialogo tra testi[xx], suggerito anche dagli studi recenti in occasione del centenario verghiano e proposto in modalità laboratoriale ai ragazzi, può veramente contribuire a sviluppare lo spirito critico e a svecchiare stereotipi e semplificazioni che la scuola si trascina da troppo tempo.

 

 


[i] Verga entra nei programmi scolastici dal 1923, con la riforma Gentile; ma decisiva è stata la monografia di Luigi Russo del 1820. Per una ricognizione sulla fortuna di Verga a scuola si rimanda a M. De Blasi, Verga a scuola, tra grammatiche e antologie, in Lessici e grammatiche nella didattica dell’italiano tra Ottocento e Novecento, Atti del Convegno internazionale, Università degli Studi di Milano, 22-23 novembre 2016, a cura di M. Prada e G. Polimeni, Quaderni di «Italiano LinguaDue», 2018, pp. 403-413, scaricabile qui https://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/article/view/10956 e alla miscellanea curata da Luisa Mirone, con i contributi di docenti dell’ADI: Vita tra i banchi: a scuola con Giovanni Verga, a cura di L. Mirone, Roma, Bonanno, 2021.

[ii] Ci restano quasi 500 negativi tra il 1878 e il 1911.

[iii]  Sono rimasti cinque soggetti cinematografici a cui Verga ha lavorato tra il 1914 e il 1917.

[iv] G. Alfieri, Verga, Roma,  Salerno 2016.

[v] R. Sardo, «Al tocco magico del tuo lapis verde…». De Roberto novelliere e l’officina verista, Catania, Bonanno, 2008.

[vi] G. Forni, Verga e il Verismo, Roma, Carocci, 2022.

[vii] Gabriella Alfieri ha infatti precisato come  la lingua di Verga nel complesso della sua opera debba essere considerata «sperimentale», fondata sul contatto tra scritto e parlato e aspetti lessicali di varie regioni – siciliano, toscano, milanese e la lingua de I promessi sposi- adatta per tutte le classi sociali. Ne esce l’immagine di un Verga come grande sperimentatore, lontano da quel monolite che la scuola ha tramandato - di un autore solo ed esclusivamente “verista” - su cui per altro, occorre fare chiarezza, come hanno mostrato le discussioni relative alla prima prova dell’Esame di Stato del 2022 in relazione al brano tratto da Nedda.

[viii] G. Verga, I malavoglia, introduzione  a cura di G  Patrizi, 2008, pp. 387 ss.

[ix] G. Verga, Lettere Sparse, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Roma, Bulzoni, 1980,  pp. 224-225

[x] G. Forni, cit.

[xi] Spunti e suggestioni del presente articolo, in generale, derivano dai lavori scientifici dei due studiosi, già pubblicati o presentati oralmente durante i convegni del Centenario (alcuni reperibili in Rete), perché particolarmente adatti al lavoro in classe dei docenti.

Per Giorgio Forni si rimanda al volume collettaneo del 2022; per gli studi di Giuseppe Polimeni si veda il fascicolo  n.2 /2002  della rivista milanese «Italiano LinguaDue» in corso di stampa e reperibile qui:  https://riviste.unimi.it/index.php/promoitals/index, nonché il contributo Da «quel ramo del Lago di Como» alla «sciara» di Trezza. Contatti di lingua e di stile, per una didattica dell’italiano specificatamente rivolto ai docenti e ricco di spunti didattici, che sarà pubblicato negli Atti del Convegno “A scuola con Giovanni Verga”, Catania, 28-29 marzo 2022, ospitati negli «Annali della Fondazione Verga». Si ringrazia l’autore per aver consentito una lettura del contributo in anticipo.

[xii]   https://voyant-tools.org/http://projects.dharc.unibo.it/philoeditor/

Quest’ultimo progetto, coordinato dall’Università di Bologna e pensato anche per le scuole, permette di leggere I promessi sposi attraverso le due edizioni e di rilevarne automaticamente le varianti, classificandole secondo categorie predefinite.

[xiii] P. Spezzani, I manzonismi nei “Malavoglia”, in I Malavoglia. Atti del Congresso internazionale di studi (Catania, 26-28 novembre 1981), Catania 1981, pp. 739-769.

[xiv] Li ha raccolti Andrea Fenu nella sua tesi di laurea (con l’integrazione di qualche caso), disponibile on line (portale Academia.edu), dal titolo: “Come diceva Manzoni, Lui che la sapeva più lunga di tutti”. I Promessi Sposi nei Malavoglia. Le locuzioni di Spezzani sono state integrate con alcune occorrenze da Feno; e sono qui riportate per esigenze didattiche: con programmi di interrogazioni di testi on line è possibile condurre in classe ricerche mirate e confronti tra passi. Più in generale si veda la voce «Manzonismi» a cura di I. Bonomi, nell’Enciclopedia dell’ italiano, Treccani, 2011, consultabile qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/manzonismi_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/

[xv] Ritmicamente e fonicamente evoca il «Per una di queste stradicciole, tornava bel bello» di PS I.

[xvi] G. Verga, I Malavoglia, Einaudi, Torino 1995.

[xvii] In generale l’intero passo dell’Addio di Alfio Mosca è modellato sui P.S.: «Chi lo sa quando tornerò? Io vado dove mi porta il mio asino. Finché dura il lavoro vi starò; ma vorrei tornar presto qui, se c’è da buscarmi il pane. […]Alfio si mise a ridere, anche questa volta a malincuore, come quando era andato a dirle addio. - O bella! perché ci vado? e voi perché vi maritate con Brasi Cipolla? Si fa quel che si può, comare Mena. Se avessi potuto fare quel che volevo io, lo sapete cosa avrei fatto!… - Ella lo guardava e lo guardava, cogli occhi lucenti. - Sarei rimasto qui, che fino i muri mi conoscono, e so dove metter le mani, tanto che potrei andar a governare l’asino di notte, anche al buio; e vi avrei sposata io, comare Mena, ché in cuore vi ci ho da un pezzo, e vi porto meco alla Bicocca, e dappertutto ove andrò» (M. VIII).

[xviii] G. Verga, Lettere sparse a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Bulzoni, Roma 1979, pp. 107-108.

[xix] G. Contini, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 160

[xx] Le riflessioni dei docenti dell’ADI Lombardia, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici (coordinamento del prof. G. Barucci) verteranno, per questo autunno, sui due classici e le loro intersezioni, con approfondimenti scientifici e proposte didattiche di cui si darà conto nei prossimi numeri del portale.

 

 

28 ottobre 2022