Maria Vittoria Sala - La poesia dell'ultimo Montale fra ‘trionfo della spazzatura’ e ritorno del passato

É presente nella poesia dell'ultimo Montale, da Satura (1971) in poi [2], il tema del rifiuto e del 'trionfo della spazzatura' nella moderna società industriale.
Gli anni del 'miracolo economico' (1956-1963) sono quelli del silenzio poetico montaliano: la certezza della inevitabile morte della poesia nella società contemporanea induce il poeta a tacere.
Quando, nel 1964, la rielaborazione del lutto per la morte della moglie Drusilla Tanzi (avvenuta l'anno prima) spinge Montale a scrivere di nuovo versi, questi non hanno più niente di sublime e di elevato, ma si pongono consapevolmente al confine fra poesia e non poesia; la poesia dell'ultimo Montale è caratterizzata, dunque, da un'evidente svolta in senso prosastico: per reagire al vuoto della parola consumata e banalizzata, al 'trionfo della spazzatura' che caratterizza la realtà travolta nel vortice dello sviluppo industriale, il poeta abbandona lo stile alto e concentrato che caratterizzava la sua poesia precedente da Ossi di seppia alla Bufera e altro, per una comunicazione più diretta, nella quale domina la parodia e l'ironia, lo scambio e la miscela tra livelli diversi.
Nel presente si apre, dunque, ormai appieno dinanzi agli occhi dell'anziano poeta «quel mare / infinito, di creta e di mondiglia» di cui Montale già aveva parlato in una poesia della quinta sezione della Bufera e altro: Proda di Versilia; già in questo testo del 1946, dopo un confronto fra il mare versiliese e le sue spiagge ed il mare ligure della sua infanzia e giovinezza, il poeta descrive un terzo mare viscido, argilloso e senza confini che è immagine della civiltà contemporanea «dove tutto – sono parole di un articolo del '65 – "è ipotetico, tutto è vero finché è vendibile ed è falso tutto ciò che non fa gola all'uomo economico"; "di mondiglia": indecifrabile luogo di raccolta dove "le idee [...] scomparse" sono sostituite da scorie, residui, relitti [...]» [3]; e proprio Satura – come sottolinea Enrico Testa – è interpretata da Andrea Zanzotto, in un suo articolo, «come un "grande testamento", imperniato sull'idea della vita come "detrito"» [4]: la stessa poesia, nell'epoca della massificazione, è assimilata dal poeta al mondo sotterraneo degli scarti e dei residui («la poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti» [5]).
Dal momento che «adattarsi al "trionfo della spazzatura" significa anche riconoscere la fine della poesia [6], o almeno di una poesia come l'aveva concepita Montale sino allora» [7], in questo presente che tutto sommerge e confonde, il poeta inizia una rivisitazione della propria opera attraverso il recupero di situazioni, figure, temi delle sue raccolte poetiche precedenti, che vengono ora rovesciati e abbassati.
La poesia dell'ultimo Montale da Satura in poi è infatti caratterizzata dalla parodia, con la quale il poeta colpisce non solo la società contemporanea, ma anche la letteratura in senso generale, i suoi rappresentanti più antologici (ad esempio D'Annunzio), ed anche «il monumento stesso della propria stessa poesia» [8]: in uno dei primi testi di Satura, Botta e risposta I, del 1961, l'autore, rappresentando la propria storia poetica, definisce la condizione storica in cui è vissuto come un'immersione nelle mitiche stalle di Augìa (che secondo il mito furono ripulite da Ercole), in una prigione fecale da cui è stato liberato solo attraverso l'immersione in una «nuova / palta» in un «vorticare sopra zattere / di sterco», in una nuova condizione infernale; il vero carattere del mondo contemporaneo e delle società industriali avanzate si manifesta così nel dominio degli escrementi, in una lotta insensata con il loro montare. Se c'è stato un pur durissimo tempo, quello della Seconda Guerra Mondiale, in cui esisteva un'opposizione ben netta fra luce e tenebre, fra alto e basso, fra bene e male, il presente è l'epoca dell'abbraccio mostruoso tra innocenza e contaminazione (l'epoca dell'«ossimoro permanente» come afferma Montale in un testo del Diario del '71, intitolato Lettera a Malvolio), il momento in cui è impossibile «sospendere / l'epoché» [9], perché la sospensione del giudizio (l'epoché) risulta ormai l'unica possibilità di sopravvivenza per il soggetto.
È proprio in questa nuova situazione che la corrosione parodica del mondo contemporaneo induce Montale a fare delle citazioni abbassate della propria storia poetica, a radunare alcuni dei grandi personaggi femminili della sua poesia (Gerti, Liuba, Clizia) come francobolli del passato in un catalogo da collezionista: «un ricciolo / di Gerti, un grillo in gabbia, ultima traccia / del transito di Liuba, il microfilm / d'un sonetto eufuista scivolato / dalle dita di Clizia addormentata» [10].
Eppure, in un universo dominato dagli aspetti più banali della quotidianità, solo il ricordo del passato illumina, per squarci improvvisi, la mente dell'autore; è così che luoghi e figure care tornano a visitare il vecchio poeta: dai personaggi meno centrali della sua poesia – come «il Carubba con l'organino / a manovella / e il cieco che vendeva il bollettino del lotto» di Corso Dogali [11], o «il figlio del fattore» ed il «cagnetto Galiffa» del «viale dei Pitòsfori» [12], o ancora «la vecchia serva analfabeta / e barbuta» di Quel che resta (se resta) [13] – ai personaggi più significativi come la moglie Mosca (che ritorna negli Xenia ma non solo); o come Annetta (Anna degli Uberti, la mitica compagna delle favolose estati trascorse dal giovane Montale a Monterosso); e soprattutto Clizia, Irma Brandeis, sicuramente «la protagonista in senso assoluto [...] della poesia montaliana» [14], colei alla quale sono dedicate Le occasioni a partire dall'edizione mondadoriana del 1949 (la dedica è affidata alla sigla «a I. B.»). Montale conobbe Irma a Firenze nella primavera (o forse nell'estate) del 1933, allorché questa intraprendente giovane americana (secondogenita di un'agiata famiglia ebrea di origine austriaca), instructor di lingua e letteratura italiana presso il Sarah Lawrence College di New York, si presentò alla biblioteca del Gabinetto Vieusseux per conoscere il poeta degli Ossi, un sorprendentemente giovane direttore di biblioteca.
Da quell'incontro nacque una frequentazione più privata e segreta che con alterne vicende (ritorni di Irma a Firenze, scambi epistolari con l'oltreoceano) durò fino al 1938: di questo importante momento della vita di Montale offrono utili informazioni le lettere scritte dal poeta a Irma Brandeis, recentemente pubblicate col titolo Lettere a Clizia [15].
Tale raccolta contiene 156 lettere di Montale a Irma Brandeis scritte per lo più fra il 1933 e il 1939; fra queste vi è però anche un biglietto – contrassegnato nella raccolta col numero 156 – che il poeta scrisse, con scrittura tremolante e quasi indecifrabile, nel giugno del 1981, pochi mesi prima di morire: testimonianza, quest'ultima, del fatto che il sentimento che legava Montale ad Irma durò ben oltre il '38-'39; d'altra parte sono presenti anche in Altri versi – l'ultima raccolta di poesie pubblicata dall'autore nel 1980 – alcuni testi dedicati a Clizia. In un presente che coincide con «quell'immenso cascame in cui viviamo»[16], pieno di rottami e trabocchetti, il ricordo di questo personaggio femminile si riaffaccia più potente ed incantevole che mai alla memoria dell'anziano poeta: è così che la rivede volgersi indietro «dall'imbarcadero / del transatlantico» che la riporta «alla Nuova Inghilterra», oppure insieme a lui "nella veranda / di 'Annalena'» – la pensione nella quale risiedeva la Brandeis durante i suoi soggiorni a Firenze – «a spulciare le rime del venerabile / pruriginoso John Donne / messi da parte i deliranti abissi / di Meister Eckart o simili» [17], oppure «sempre allungata / sulla chaise longue / della veranda» (sempre della pensione Annalena) mentre legge «vite di santi semisconosciuti / e poeti barocchi di scarsa reputazione» [18]; e la visione del volto di Irma «incredibile, / meraviglioso», impresso in una foto «giallo sudicia, / quasi in pezzi» [19] scattata a Siena subito dopo il palio del 16 Agosto 1938, induce il poeta ad ammettere che quello per lei non era amore ma era una vera e propria fede, e ancora, nel presente e sempre, una «venerazione».