Maria Rusignuolo - La fuga di Vanna in Casa paterna di Maria Messina

 

Nel panorama letterario siciliano di inizio secolo una posizione non secondaria occupa la scrittrice Maria Messina (Palermo, 14 marzo 1887 – Pistoia, 19 gennaio 1944). Già Borgese scorse nella scrittrice «un temperamento tra i più attraenti della nostra letteratura femminile» e Leonardo Sciascia cercò di trarla dall’ombra in cui ingiustamente era stata relegata redigendo una nota critica  a presentazione del volumetto Casa paterna, rimasto inedito e pubblicato postumo da Sellerio nel 1981, definendola una “Mansfield siciliana” che, riprendendo moduli cecoviani, punta il suo sguardo con un’affabulazione dolorosa e disincantata sulla donna in tutte le sue varianti: dalla zitella alla malmaritata, alla nobile decaduta, ecc.

 

In particolare, attraverso il contenuto di Casa paterna, l’autrice ci racconta la condizione della donna di media borghesia, quale lei stessa era, nella Sicilia di quegli anni. La scelta della novella in chiave didattica è dettata non solo dal messaggio socioculturale insito nel testo, ma dalla sapiente costruzione architettonica della narrazione, dalla polisemia del linguaggio e dal ruolo metaforico che i luoghi ed il paesaggio rivestono sulla condizione esistenziale della protagonista. Emblematico a tal fine l’incipit della novella, che si apre con il ritorno alla casa paterna di Vanna, la quale, soffocata da un matrimonio infelice, decide di fuggire da Roma e di abbandonare con un atto di ribellione il marito per tornare in Sicilia, ai luoghi rassicuranti della sua infanzia. L’attende però una grande delusione, che la porterà gradualmente ad una perdita di energia e di prospettive future. La casa idoleggiata e lungo mitizzata non è più la stessa: non solo gli spazi hanno perso la loro connotazione identitaria (nella stanza di Vanna dorme ora la sorella e a lei è stata riservata «la camera del gatto», «uno stanzone immenso»), ma anche le persone non sono più le stesse. Il padre e il fratello la accolgono, sin dal suo arrivo, con imbarazzo e sospetto, rivolgendole con insistenza le domande “perché sei sola?”, “Che idea venir sola!”, «sbalorditi» e «costernati» di ricettare «una donna così giovane fuggita dalla casa del marito».

Viola e Remigia, le cognate, hanno preso il sopravvento nella casa amministrandola, e sin dalla prima volta, quando le vengono presentate, le ispirano un sentimento di soggezione, misto alla consapevolezza che non le avrebbe mai amate.

Ninetta, la sorella, nel timore di rimanere zitella per la condotta di Vanna  «che salta agli occhi»  le si rivolge con toni aspri. Neppure con la madre riesce più ad intendersi, tra loro sembra essersi innalzato un muro invalicabile. Vanna sente che lei non è più come prima, quando accoglieva le sue confidenze di bimba, non sente più ciò che è al di là delle parole dette, non vede ciò che di oscuro, di inesplicabile, di profondo le resta nell’anima. La distanza che le separa sembra riecheggiare il rapporto del personaggio bassaniano di Lida Mantovani con la madre, che si formalizza sul piano narrativo in lunghi silenzi su cui grava un tempo infinito.

Il silenzio che avvolge, come una sorta di nube, la casa paterna, diventa il leitmotiv di tutto il racconto e metafora di una più profonda condizione esistenziale di Vanna, emarginata e guardata con diffidenza per aver varcato un limite invalicabile, uscendo dalla soglia della casa coniugale per un ritorno alla casa della sua infanzia, con la speranza di riacquistare una serenità ed un’identità perdute. Alla verghiana “casa del nespolo” sembra contrapporsi una casa ostile, che la respinge:

 

a tavola tutti tacevano, imbarazzati, Ninetta abbassava gli occhi sul piatto. Ognuno aveva soggezione degli altri perché ognuno si sentiva colpevole di avere permesso la stravaganza di Vanna. La madre si sentiva la più colpevole...

 

Vanna sente che la casa paterna, mutata, trasformata, la respinge da sé, a poco a poco. L’atmosfera che vi si respira la soffoca in una morsa sempre più stretta che la porterà prima ad isolarsi, poi alla drammatica scelta finale. Con le persone Vanna non s’intende, l’unico rapporto che riesce ad instaurare è quello con il paesaggio naturale, che viene quasi antropomorfizzato (si veda questo esempio eloquente: «…non si ritorna indietro! Sussurravano le rose molli e profumate sfiorandole i capelli»). Ciò che vale soprattutto per il mare, con cui la protagonista tesse un dialogo confidenziale, personificandolo («O mare tu solo mi hai fatto festa la notte del mio ritorno!»).  Vanna rivede compiaciuta il «bel mare della [sua] adolescenza», che la saluta «frangendo la spuma perlacea sulla spiaggia deserta» e in cui si specchia brillando la luce del faro, «che sembra riconoscerla». Quel mare che aveva più volte sognato a Roma, come confessa alla cognata Maria, sentendo perfino «l’odore delle alghe» nelle lettere che la cognata le inviava, e al mare affida le sue riflessioni quando, affacciata nella terrazza, la «sua» terrazza, unico spazio sentito come proprio e non ostile della casa paterna, «fissava una vela che passava». Solo in quei momenti Vanna si sentiva appagata ed allora dimenticava la solitudine e l’emarginazione cui era stata relegata suo malgrado, nella casa.

 

Vanna matura l’amara consapevolezza che tutto cambia, che anche i fratelli hanno un’altra voce, che altre donne hanno occupato il suo posto mentre era lontana. Priva però di mezzi economici su cui poter contare per creare le basi della sua emancipazione, s’aggrappa al marito in un ultimo, penoso tentativo di riconciliazione. Fallito anche quest’ultimo, nell’impossibilità di recuperare un rapporto forse mai esistito, decide di porre fine alla sua esistenza ‘ricongiungendosi’ al mare: ricongiungimento da leggere in chiave psicoanalitica, come un ritorno al ventre materno. Notevole importanza, sul piano didattico, riveste l’impianto narrativo del racconto, sapientemente costruito, con uno scarto tra fabula ed intreccio. L’incipit già evidenzia, nel ritmo franto del periodo, l’imbarazzo della famiglia che vede nel comportamento di Vanna il sovvertimento di un codice sociale da tutti seguito e rispettato. Apprendiamo gli eventi precedenti all’arrivo di Vanna alla casa paterna attraverso i flashback memoriali della protagonista.  Lo spazio, poi, gioca nel racconto un ruolo di primo piano. La narrazione, infatti, si snoda tra vere e proprie polarità spaziali: lo spazio limitato della casa, metafora della oppressiva e asfissiante condizione della donna e quello illimitato del mare; lo spazio aperto e spersonalizzante di Roma, rievocato in lunghi flashback, e lo spazio ristretto e chiuso del paese d’origine a cui rimanda per sineddoche la casa in cui viene squadrata dai vicini con curiosità ed aria diffidente.

L’asse centrale del racconto ruota attorno alla figura di Vanna, emblematica di una condizione femminile comune ancor oggi a molte donne, particolarmente del sud e tuttavia abbastanza moderna ed autonoma rispetto all’epoca della vicenda.

 

Il sentimento profondo ed insieme sfumato della propria solitudine e dell’incomprensione di cui è oggetto, anche se fa di Vanna un personaggio simile alla Nora di Casa di bambola di Ibsen, ma più rassegnata e dolente, non le impedisce l’esplicitazione del suo essere in quanto donna  «una povera cosa buttata in un canto, una di quelle pupattole  di cencio che faceva da piccola», «una formica», «“ una palla di pianto» ai piedi del marito, dal quale la sua incultura  borghese la separa impedendole qualsiasi possibilità di dialogo  poiché non si intende «di filosofia, di teatro, di politica». Mentre però Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen, considerata dal padre e dal marito una bambola di lusso da contemplare e proteggere, riesce a rifiutare il ruolo impostole, trovando il coraggio di tagliare il cordone ombelicale che la lega alla rispettabilità oziosa della sua condizione, per assegnarsi una nuova consapevole immagine di autonomia, Vanna, la protagonista di Casa paterna, arriva diversamente alla medesima scelta, l’abbandono della casa del marito prima e alla scelta più radicale e tragica della morte poi.

Anziché puntare su prospettive concrete di realizzazione di sé, Vanna ritorna alla casa paterna, alla provincia, al sud, in una sorta di bovarismo di ritorno, senza più alcuna speranza di salvezza se non nel rapporto, l’unico veramente autentico, con la natura e con la cultura d’origine. Il mare, presenza inquietante e costante nel testo, diventa metafora polisemica da leggere in varie direzioni: la frontiera dell’ignoto, il sogno del diverso, ricco ormai di attrattive per altri ma non più per se stessa («fissava una vela che passava in alto mare contro l’orizzonte roseo»), la sicurezza dell’infanzia perduta. Con le persone Vanna non s’intende, neppure con la cognata che pure sembra avere con lei una qualche affinità, unico interlocutore è il mare che le crea «un torpore benefico, capace di rallentarle i nervi». L’esperienza della città, della grande metropoli, che appare già con tutte le moderne connotazioni della sua problematicità, della sua difficile socialità, ha accresciuto il disagio della solitudine della donna: «esser sola, non conoscere anima viva; passare la giornata aspettando l’unica persona che dovrebbe volerti un po’ di bene». Si rimarca nella distanza dei luoghi e nel ritmo del vivere quotidiano la difficoltà dei rapporti e la lenta disgregazione del nucleo familiare.

 

La tematica enucleata trova una perfetta corrispondenza nel ritmo franto della frase a prevalenza paratattica, per la necessità di formalizzare i pensieri e i sentimenti che, anche attraverso il dialogo e i flashback, chiariscono l’ineluttabile logicità della scelta fatta dalla protagonista, ricomponendo lucidamente e armonicamente i tasselli dell’esperienza vissuta.

L’uso del discorso indiretto libero di tipo verghiano, la puntualità descrittiva rimandano ad una certa narrativa meridionalistica di ascendenza veristica, ma certi abbandoni intimistici e certo scavo psicologico indulgente, nonché l’indagine introspettiva, sono già inquadrabili nella letteratura esistenziale del primo Novecento, caratterizzata dalla centralità assoluta del personaggio. “Soffocata” dentro uno spazio limitato, il limite della casa e della città ignota, Vanna vive soltanto davanti all’illimitate infinità del mare a cui torna – come si è detto - in un gesto che ha il sapore di un solidale ricongiungimento definitivo.

Il sistema dei personaggi ruota tutto attorno alla protagonista femminile. Anche gli altri personaggi di rilievo sono femminili, il maschio antagonista è invece un personaggio minore. Un dato, quest’ultimo, che troviamo anche in un altro romanzo della scrittrice, La casa nel vicolo (edito dai Fratelli Treves nel 1921 – e ristampato da Sellerio nel 1982), dove le protagoniste, Nicolina ed Antonietta, vedono sfiorire le loro vite, nello spazio chiuso della casa e all’ombra del vicolo, asservite a Don Lucio, marito e cognato–padrone. 

L’importanza del racconto esaminato sta nel fatto che, attraverso il personaggio di Vanna emerge l’ottica dell’autrice, che racconta la condizione della donna della media borghesia quale lei era nella Sicilia di quegli anni. La sua modernità sta nell’aver posto l’accento – attraverso la scrittura – su un universo inesplorato e misconosciuto, la condizione di emarginazione culturale inflitta alle donne della sua epoca, in un periodo in cui essere intellettuale–donna era quasi uno scandalo. I suoi personaggi, però, come osserva Sciascia, incarnano una cultura ed un immaginario prevalentemente maschile, che aveva considerato la donna una vittima, una rassegnata, sottomessa all’uomo. La donna raccontata dall’autrice è dunque quella mutuata da un’ottica maschile; pertanto, l’unica ribellione possibile per Vanna è nella fuga e, poi, nella morte. 

 

Il personaggio tuttavia è antesignano, per la scelta coraggiosa compiuta, di molti altri personaggi femminili che di lì a poco popoleranno la letteratura del Novecento. Basti pensare, sempre della stessa autrice, al personaggio femminile della novella Lo Scialle, tratta dalla raccolta Le briciole del destino, che racconta di Mariangelina, una sartina che sperimenta anch’essa una fuga a Palermo, nel tentativo di un riscatto economico e sociale, ma che finisce con l’essere emarginata ed esclusa dagli abitanti del proprio paese. O si pensi anche alla testarda Annuzza, protagonista del romanzo Vecchia storia inverosimile della scrittrice Elvira Mancuso, che lotta per sfuggire ad un destino che la società siciliana di fine Ottocento aveva imposto alla donna come stile di vita. Si pensi ancora al romanzo autobiografico Una donna di Sibilla Aleramo, ritratto vibrante di una donna che lotta per il diritto di vivere con pienezza e libertà la sua vita. In questa seppure esigua campionatura di testi, la fuga delle protagoniste si connota come tentativo di affrancarsi dal paternalismo e dai condizionamenti  della società con l’obiettivo di una conquista di  uno spazio tutto per sé. Interessante dal punto di vista didattico sarebbe operare un confronto tra i personaggi femminili che tentano di ribellarsi agli stereotipi imposti dalla società patriarcale e il diverso ruolo che assume il paesaggio durante i loro tentativi di ribellione e di fuga.  Nella ribellione di Vanna, connotata da desolazione e prostrazione, circola un vento di energia testarda, che non è ancora speranza ma che traccia tuttavia la strada alla speranza di molte scrittrici che di lì a poco daranno voce ai personaggi femminili dei loro romanzi, il cui riscatto si insinua tra le pagine dei romanzi dissolvendone anzi sovvertendone tutti gli abusati stereotipi.

 

 

21 dicembre 2023