Sebbene nei primi anni del Novecento le donne non avevano “uno spazio tutto per sé” e tanti pregiudizi gravavano sulla figura dell’intellettuale–donna, alcune di esse sfidarono l’ipocrisia borghese e l’opinione pubblica assumendo un atteggiamento ribelle e coraggioso per realizzare il loro sogno di scrittura e di libertà. I criteri cui ci si è attenuti per la scelta delle scrittrici che si esamineranno sono due: il loro impegno culturale e politico e il loro amore per una terra, la Sicilia, che si traduce nell’incanto delle loro scritture che pur con connotazioni diversificate ammaliano il lettore.
Tra queste letterate un posto non secondario occupa Maria Occhipinti che, nel suo romanzo autobiografico Una donna di Ragusa, racconta la sua vita di donna anticonformista nella Sicilia dei primi anni del XX sec. e della sua lotta contro i pregiudizi e gli stereotipi sulle donne. Pubblicato una prima volta nel 1957 da Landi, fu solo dopo la pubblicazione presso Feltrinelli, nel 1976, che il libro attirò su di sé l’attenzione del mondo intellettuale, vincendo il premio Brancati per la letteratura. Nel romanzo l’autrice ripercorre attraverso il ricordo la propria vita, descrivendo l’ambiente incolto e statico nel quale visse sin dall’infanzia, sentendosi inadeguata e vivendo le proprie giornate in uno stato costante di ansia, che solo successivamente avrebbe compreso essere sete di sapere, di musica, di arte, di poesia. Lei che aveva frequentato la scuola fino alla terza elementare, dopo la delusione di un matrimonio voluto soltanto per fuggire dal clima oppressivo della famiglia, decide di riprendere gli studi. Le risulterà illuminante la lettura de I miserabili di Victor Hugo, un libro che le farà acquisire una piena consapevolezza di sé e dei propri bisogni reali. È il testo che la induce a più profonde riflessioni, capace di renderla consapevole delle innumerevoli ingiustizie che da sempre i potenti perpetrano nei confronti degli umili.
Una donna di Ragusa, a ben guardare, è un romanzo di formazione, oltre che un affresco della Sicilia durante il regime fascista. L’autrice vi denuncia la corruzione delle istituzioni, il delirio di potenza del Regime, l’inutilità di una guerra che stronca tante giovani vite; ma anche racconta i suoi dubbi sulla religione, la sua ribellione alla proscrizione obbligatoria indetta tra il 1944 e il ‘45. È appunto in tale occasione che, incinta di pochi mesi, l’autrice si sdraiò sull’asfalto per bloccare il passaggio di un mezzo che avrebbe portato al fronte tanti giovani uomini, tra cui suo marito. Il testo è dunque la testimonianza di una rivolta popolare avvenuta a Ragusa nel gennaio del ‘45 contro il richiamo alle armi di giovani dai 20 ai 30 anni. Di questa insurrezione Maria Occhipinti fu promotrice e attiva protagonista e la sua ricostruzione dei fatti ha permesso di gettare nuova luce su una delle più controverse pagine di storia del dopoguerra. Condannata al confino, resterà cinque mesi ad Ustica, dove nascerà la sua bambina. Maria sarà poi trasferita nel carcere palermitano delle Benedettine, dove sconterà altri diciannove mesi. Sono anni difficili, durante i quali conosce ladre, assassine, prostitute, donne spesso colpevoli perché spinte dalla miseria o perché vittime dell’ignoranza e della mentalità arcaica nella quale erano cresciute. Nel romanzo affiorano riflessioni sui diritti negati e sull’arretratezza e inadeguatezza della società siciliana nel suo complesso. Uscita dal carcere, data l’ostilità che incontra sia nella società di Ragusa che all’interno della famiglia, decide di trasferirsi all’estero; matura intanto l’idea di scrivere il romanzo sui fatti di Ragusa, per contribuire a ristabilire la verità storica su di essi. La rivolta non era stata interpretata come una ribellione popolare, ma come un ultimo colpo di coda del fascismo, alleato al movimento separatista siciliano.
Esposto in una lingua spontanea e fresca, con una prosa semplice e inframezzata da detti siciliani, Una donna di Ragusa è stato accomunato, per il messaggio sociale che contiene, alle opere di Danilo Dolci e di Ernesto De Martino.
Un altro importante romanzo è L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, una delle più interessanti e influenti scrittrici del Novecento che, ignorato per lungo tempo dalle case editrici, fu pubblicato postumo per interesse del marito di Goliarda, Angelo Pellegrino, nel 1998, a trentadue anni dalla stesura. L’incontro di Goliarda con la scrittura avvenne non per caso, ma consapevolmente. Lei, che era stata attrice teatrale e cinematografica recitando con successo in opere e film di grande interesse, quali Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello e Senso di Luchino Visconti, abbandonata dopo una depressione la carriera teatrale e cinematografica, esordisce come scrittrice con il romanzo Lettera aperta, seguito da Il filo di mezzogiorno, che tuttavia interrompe per scrivere il suo testo capolavoro, L’arte della gioia. L’asse narrativo del romanzo ruota intorno al personaggio di Modesta, uno dei più vivaci della letteratura del Novecento. Scampata, giovanissima, all’incendio della sua casupola nella Chiana del bove, Modesta trova ricovero in un convento di suore e viene accolta e protetta dalla madre superiora Leonora, che la educa al sapere e la indirizza al noviziato: ma Modesta, ormai quasi donna, individua qualcosa di più in quell’affetto. È l’inizio di un’epopea che vede il personaggio approdare, dopo la morte della madre superiora Leonora, alla villa della Principessa Gaia Brandiforti, madre di Leonora, dove si renderà indispensabile, ottenendo sempre più potere nel palazzo. Pur non essendo un romanzo autobiografico, il personaggio è caratterizzato dalla irrequietezza, dal coraggio, dalla determinazione di Goliarda. Ma, a ben guardare, nel caleidoscopio dei numerosi personaggi che ruotano intorno a Modesta, si riflettono altri aspetti caratteriali dell’autrice. Modesta è un personaggio anticonformista, determinato e volitivo che finisce con l’esaudire la sua sete di ascesa sociale e culturale. In questa sua caratterizzazione sembrano rivivere echi di tante eroine coraggiose, create dalle penne di vari autori e autrici, come il personaggio di Vanna in Casa paterna di Maria Messina, che sfida la morale comune pur di sfuggire alla monotonia di una vita coniugale infelice e repressiva, o la Nora di Ibsen in Casa di bambola, o ancora Tatiana, la protagonista anticonformista e intelligente, dell’Evgenij Onegin di Puskin.
Ambientato tra il 1909 e il primissimo dopoguerra, con l’arrivo della febbre spagnola, L’arte della gioia è un romanzo di grande respiro, denso, pieno di chiaroscuri, animato da un ritmo variabile, scandaloso. Si tratta di un lungo ed impervio coming of age che porterà Modesta ad elevarsi dalla famiglia delle sue umilissime origini fino al rango di principessa. Nel romanzo che può, senza dubbio, connotarsi come romanzo di formazione, le storie personali si intrecciano con gli eventi storici. Le pulsioni più disparate convivono nell’animo della protagonista: esemplare il rapporto della protagonista con madre Leonora, oscillante tra eterea sensualità e ambiguità; o quello con Beatrice, la più giovane della casata Brandiforti; o quello con Carmine, il soprastante che gestisce le terre adiacenti la villa, finendo infine sposa del figlio deforme della principessa Gaia, unico erede della casata.
E’ dunque sfruttando le dinamiche più convenzionali della società patriarcale che Modesta persegue il suo disegno di libertà, per sottrarsi al destino di solitudine della vita conventuale che altri avevano deciso per lei. Questo inarrestabile processo di emancipazione va di pari passo con un percorso di crescita personale e di risveglio sessuale che la porterà a scoprire e rivendicare il diritto, di matrice nietzschiana, al piacere e alla felicità. Il romanzo, che si connota per una tenera sicilianità e per un linguaggio ricco, fastoso, tendente ad un lirismo barocco intriso di sensualità, viene oggi considerato uno dei più importanti del Novecento letterario.
Tra queste scrittrici non si può non menzionare Giuliana Saladino, giornalista e scrittrice definita “ribelle, ironica, sorridente” dal tocco rigoroso e temprato, che ha fatto la storia della cultura siciliana e che si è distinta per un impegno costante, in difesa dei diritti delle donne, contro gli abusi edilizi e il danneggiamento continuo del paesaggio, contro la mafia. Nel suo Romanzo civile pubblicato postumo, nel 1999, per volere delle figlie, c’è tutta la vita dell’autrice, la sua adesione al PCI, la militanza politica che investiva ogni ambito dell’esistenza, compresi i legami familiari, l’amore, la passione, le amicizie. Il romanzo è anche un omaggio all’amicizia strettissima che legò l’autrice a Calogero Roxas, giornalista e scrittore: un rapporto, scrive, che le “rimandava guizzi e bagliori” del meglio di sé, all’interno di un legame pieno di calore, dedizione, scontri e tenerezza. Il libro prende le mosse dalla condivisione con l’amico, per la politica e la cultura che si condensava in una serie di incontri con tanti intellettuali di Palermo. La città diventa così il fulcro e lo snodo di una vita impegnata su più fronti, attraverso i suoi articoli essenziali, reali, veritieri. Soprattutto è il complesso centro storico di Palermo, soggetto a troppi cambiamenti e insieme a troppa staticità, amato e non capito, che diventa l’ossessione di Giuliana. Attraverso una prosa efficace e singolare, a tratti lirica, le parole si snodano, nel romanzo, con un ritratto nostalgico dell’amico, un uomo elegante, spericolato e scanzonato che l’aveva supportata in tante situazioni e che era stato per lei “uno specchio luminoso”. Appena riceve la diagnosi della sua malattia Rocchi (questo il nome con cui Calogero veniva chiamato nella cerchia di amici), si accinge al commiato con ironia garbata e stoicismo. Accurata l’aderenza delle parole alla sensibilità dell’autrice e alla sua capacità di lucida e acuta analisi del momento doloroso, narrato, tuttavia, con quelle doti di leggerezza, esattezza, rapidità tanto raccomandate da Calvino nelle sue Lezioni americane e che è uno dei tratti seduttivi della scrittura della Saladino.
Terra di rapina si intitola un altro romanzo, pubblicato come reportage nel 1977, ma oggi leggibile come un’altra prova della grande abilità narrativa di Giuliana Saladino, le cui storie non erano frutto della sua fantasia e creatività immaginativa, ma dell’osservazione attenta della propria terra, la Sicilia, e delle sue criticità. Il libro è di fatto un’altra pagina epica della Sicilia. Figura centrale del romanzo è Giuseppe Di Maria, di Cianciana, nella provincia di Agrigento, che nel 1972 si rese protagonista di un clamoroso fatto criminale, un colpo in banca fallito, e conclusosi col linciaggio del rapinatore. Giuliana, a pretesto di questo episodio, scese nei luoghi di origine del criminale, nel cuore più antico della Sicilia del latifondo, dello zolfo e della mafia, dove si incontrano le province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta, a spiegarsi come si diventa banditi siciliani a Torino. Si rende conto delle condizioni difficilissime in cui versava il comune di Cianciana, cantato da Alessio Di Giovanni, poeta nativo del apese, come “sito di un aere purissimo e di un magnifico e delizioso panorama”. Lo trova invece un luogo dove “il tempo sembra essersi fermato”, un paese “in coma”, privo di strade percorribili, di scuole, di servizi sanitari efficienti. L’autrice intervista i contadini, delusi dalla riforma agraria ed estende il suo sguardo ai solfatari, figure macilente e deformate dal duro lavoro che, dopo la chiusura definitiva delle solfare, ritenute non redditizie in seguito alla scoperta americana di estrazione dello zolfo, più economica e rapida, scelsero un'altra via di civiltà, dolorosa e vitale, dando luogo al più grande processo migratorio della storia. Giuliana si rende conto, con amarezza che “La Sicilia si è spopolata perché è povera” e che “La Sicilia è povera perché si è spopolata”. Sulla sconfitta e sul coraggio degli esuli, le terre impoverite di intelligenze e di cultura civica, perversamente costruivano una loro modernità che è poi stata la nostra. Cianciana – afferma l’autrice - non è che “una molecola oscura” di uno sfascio che investe tutta l’isola. “Gli immensi spazi all’interno dell’isola««, i paesi, testimoniano una meticolosa rapina economica, politica, culturale” opera di una errata politica agraria democristiana . Così, questo romanzo conduce alla scoperta della verità sul bandito di Cianciana: il bandito altro non è che lo sfogo di una terra bandita. Il rapinatore è il figlio di una terra rapinatrice e rapinata di cui i banditi sono escrescenze e frutti che gli intellettuali hanno il dovere di raccontare. L’autrice, che ha sempre messo la Sicilia e Palermo al centro di ogni sua interrogazione nel riportare i fatti non li ha ammorbiditi né trasfigurati. Caustica ed ironica, nelle sue pagine mette a nudo la verità e il sud è giudicato ma non condannato, è aspro sebbene sembra circolarvi un vento di benefica speranza.
Inseriamo tra queste scrittrici anche Maria Teresa Di Lascia che fa parte delle numerose scrittrici non siciliane che, con sicuro possesso della scrittura, affondano la penna nei sentieri della memoria, soprattutto autobiografica, per ricostruire con tenera nostalgia e amabile leggerezza un patrimonio di ricordi corrispondenti , da un punto di vista socio- antropologico, al nostro sud. In una recensione del marzo 1995 Goffredo Fofi definì Passaggio in ombra “un ritratto della società meridionale” perché nel romanzo il Meridione, anche se non viene mai citato alcun luogo, è fortemente radicato nei pregiudizi, nelle tradizioni talmente vissute da apparire credenze religiose. Il romanzo è un caso eccezionale ed unico nel panorama letterario del Novecento, che nasce da un’esperienza dolorosa, la malattia in cui Maria Teresa si imbatte e che non le consentirà di ritirare il Premio Strega che le sarà conferito nel 1995. Impegnata politicamente ed attivista per il partito radicale, l’autrice si affermò negli ambienti letterari con questo unico romanzo intimo e malinconico. Protagonista è Chiara D’Auria che narra, in prima persona, la storia sua e della sua famiglia in un luogo indefinito dell’assolato meridione nel secondo dopoguerra. Leggendo le pagine del romanzo si sente la stessa vibrazione passionale, lo stesso “incantevole egotismo” di una Anna Maria Ortese o di Elsa Morante. Nel testo coesistono molteplici dicotomie e divergenze che, per incanto della scrittura si saldano in un unicum pluridiscorsivo e coinvolgente.Già la protagonista, Chiara, è antitetica all’ombra del titolo ma, da un’attenta analisi emerge che il romanzo si snoda in due parti, l’una realistica, motore che manda avanti tutta la storia, l’altra di introspezione intellettuale e visionaria. Nella prima parte, intitolata “L’audacia”, si narra, dal punto di vista di una bambina, la storia dei rapporti con un padre che non ha ancora “regolarizzato la sua posizione” e con una giovanissima ed amatissima madre che attenderà invano l’arrivo in chiesa dello sposo e padre ma lui non arriverà perché si rifiuta al matrimonio e alla paternità più per connaturata irresponsabilità che per disamore, più per quell’abulia “che non permette di trasformare un proposito in una cosa vera”. Sempre lei, la bambina, racconta poi la morte della madre sopravvenuta a questa delusione atroce. Nella seconda parte del libro, intitolata “Il silenzio” l’amore assoluto ed impossibile per il cugino diventa il tema ossessivo del romanzo .Anche il cugino però, nel momento decisivo, fuggirà e la lascerà sola. Questo doppio abbandono determinerà in lei una lenta malattia, una dissoluzione dell’anima e del corpo ed è da questa dissoluzione che prende l’avvio Passaggio in ombra e dalla voce di questa sopravvissuta che, sul filo della memoria, racconta la sua vita. Ed ecco che, nell’atto di trasformare in scrittura questo penoso e raggrumato ricordare ci sono dei trasalimenti, dei momenti di rifiuto, dei soprassalti e i tempi si scompongono e si accavallano, il presente si manifesta già intriso di futuro, di consapevolezza presaga. Il personaggio, proiezione di Maria Teresa, ha avuto il coraggio di trasformare il suo silenzio in parola, il coraggio di scrivere il suo canto e la sua ribellione, proprio come l’autrice ha avuto la capacità di trasformare la sua inesperienza letteraria e la sua verginità di fronte all’atto di narrare, in uno straordinario romanzo. Sovrapposto a questo romanzo, ce n’è un altro, quello dell’ombra, che ha la forza visionaria di una Morante o di una Ortese ma una voce inconfondibile che è quella dell’autrice. In questo secondo romanzo la scrittura, nonostante l’eccesso di immaginazione, diventa densa e lucida, di una lacerante originalità espressiva, specie laddove indaga sulla malattia e l’angoscia e sulle cause più profonde del male di vivere . Ne viene fuori un amalgama in cui “il passato s’incarna nella fantasmagoria del sogno e attraversa la sconfinata regione della salvezza” e i cui contenuti sono espressi attraverso un linguaggio che, sebbene assomigli al linguaggio comune, è fatto di parole, pensieri e accostamenti, di sintassi e sensazioni, dove predomina quel raffinato spirito di scelta e quel delicato istinto di selezione “coi quali l’artista” a detta di Wilde “capisce per noi la vita , donandole una passeggera perfezione”. Sembra liberarsi nel romanzo, una specie di energia compressa, una vitalità di fronte all’atto di narrare che rassomiglia tanto nell’autrice ad una rinascita.