Maria Rosa Pantè - Verità o immaginazione? Verità e immaginazione

1. Verità

 

Che cos'è la verità? Secondo Simone Weil la verità è «il bisogno più sacro di tutti».
Il concetto è forte, ma forte ed esigente è tutto il brano sulla verità che Simone Weil inserisce nel libro La prima radice (1943), il suo ultimo libro, un testamento spirituale, ma anche e soprattutto un testo politico, sociale, concreto, di proposta per la ricostruzione di una società. La prima parte si occupa delle esigenze dell'anima. La seconda dello sradicamento e infine del radicamento.
Tra i bisogni dell'anima, per ultimo Simone Weil cita la verità. Scrive di giornali e di radio, ma il discorso vale ancor di più per noi oggi in riferimento alla televisione. Poiché la verità è il bisogno più sacro, secondo lei chiunque la inquini, la ometta o la corrompa deve essere punito. La stampa, la radio dovrebbero informare nel modo più vero possibile.
Il suo discorso è molto attuale, poiché scrive:
«A maggior ragione è vergognoso tollerare l'esistenza di giornali dove un redattore non può lavorare se non consente talvolta ad alterare scientemente la verità, e tutti lo sanno».
Poi aggiunge: «Tutti sanno che quando il giornalismo si confonde con l'organizzazione della menzogna è un delitto».

La Weil suggerisce di istituire tribunali speciali per trattare il reato di oltraggio alla verità, arrivando per i recidivi al carcere. È anche fortemente contraria a che questi mezzi vengano usati per la propaganda, l'informazione dovrebbe infatti essere non tendenziosa.
In questo modo: «…l'esigenza più sacra dell'anima umana, l'esigenza di esser protetta dalla suggestione e dall'errore, verrebbe soddisfatta».
Perché, chi oltraggia la verità, chi la deforma a suo uso, induce le persone nell'errore e nella suggestione (la paura indotta, i bisogni indotti, i sospetti, i sondaggi, le televisioni, le frasi tendenziose, tutto questo suggestiona).
Il punto debole potrebbe essere la formazione di questi tribunali, quale essere umano potrà mai essere in grado di far parte di un tale consesso? La risposta della Weil è articolata, ma la dote fondamentale di chi protegge la verità è amarla.
"Non è possibile soddisfare l'esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità
È ora lecito chiedersi chi ama la verità e quanto questo amore sia facile. Ad esempio amano la verità coloro che se ne ritengono unici custodi?

1.1 In verità…

In realtà a ritenere che esista un'unica, incontestabile Verità (proprio con la maiuscola) sono le religioni e in particolare le religioni dette del Libro, cioè Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo. A testimonianza della loro concezione della Verità bastino queste due citazioni, dal Vangelo secondo Giovanni e dal Corano.
Giovanni 14, 6: «Gli disse Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita"»; Corano Sura 4: «122. (…). La promessa di Allah è verità. Chi mai è più veritiero di Allah, nel parlare?»
Quando Gesù vuol dire qualcosa di veramente fondamentale dice «in verità, in verità vi dico» e nel Corano che per molti aspetti deriva dal Vangelo come il Vangelo dalla Bibbia, nel Corano dunque spesso ricorre questo costrutto: «In verità, Allah (…)».
Colpisce, nel Vangelo di Giovanni, il colloquio tra Gesù e Pilato
Gesù dice di essere venuto a testimonianza della verità, di essere lui stesso la verità. Pilato rimane perplesso e gli chiede, come ogni uomo si chiede molte volte nella vita, cosa sia la verità. La risposta è la scelta della folla, liberare un brigante, Barabba e condannare un innocente, un testimone della verità, cioè Gesù: verità incarnata.
Non è molto consolante, ma nemmeno distante dalla realtà di tutti i giorni. La verità, anche la "piccola" verità quotidiana, spesso viene sacrificata come lo fu Gesù aldilà che egli fosse un semplice uomo innocente o il figlio di Dio.
E dunque chi ama la verità può essere di questo mondo? O, ancora meglio, quale verità esiste nella vita quotidiana?

1.2 Molte verità

Noi, in effetti, viviamo nel mondo delle molte verità. Lo dice magistralmente Luigi Pirandello nel famosissimo dramma Così è se vi pare (prima rappresentazione 1917, ampliata poi nel 1925) e lo conferma, anche se la notizia non è molto diffusa, la scienza degli ultimi due secoli.
La trama di Così è se vi pare è molto nota, si tratta in sintesi di capire chi sia la misteriosa donna velata che vive col Signor Ponza e che pare avere varie identità, ognuna delle quali carica di vita, di gioie e di dolori. La società che vive intorno a questa famiglia un po' singolare si interroga, vuole scoprire la verità. Di questa loro pretesa si fa beffe Laudisi, un personaggio che è l'alter ego di Pirandello, il quale arriva a sostenere che la verità non esiste, o meglio, non esiste una sola verità, ma molte. La conferma viene proprio nella parte finale del dramma, quando la donna interrogata dovrebbe finalmente rivelare chi veramente ella sia, quale sia, insomma, la verità.
«Io sono colei che mi si crede»: quanto cammino è stato fatto, dalle certezze assolute a una verità che si frange in molteplici verità a seconda dei punti di vista.
Così dice a un certo punto Laudisi:
"SIGNORA SIRELLI Ma secondo lei allora non si potrà mai sapere la verità?
SIGNORA CINI Se non dobbiamo più credere neppure a ciò che si vede e si tocca!
LAUDISI Ma sì, ci creda, signora! Perciò le dico: rispetti ciò che vedono e toccano gli altri, anche se sia il contrario di ciò che vede e tocca lei".
Questa frase che pare, ed è, un invito alla tolleranza, all'accettazione di vari punti di vista, di varie e diverse sensibilità, è anche un'intuizione particolarmente interessante che ci porta al mondo della scienza. Infatti Pirandello non dice semplicemente che si possono avere opinioni diverse, ma che persino quello che "si vede e si tocca" può essere diverso ed è diverso a seconda di chi guarda e tocca. Come se ci dicessero che non è vero in modo assoluto che una crostata è dolce o che il cielo è azzurro: inconcepibile.
Ma si sa, la poesia è poesia, invece la scienza....

1.3 Verità scientifica

La scienza a questo punto potrebbe riservarci le sorprese più grandi. Ahimè è finito il bel tempo in cui 1+1 faceva solo 2 (in un diverso sistema di riferimento, ad esempio il sistema binario, 1+1 fa infatti 10), è finito il tempo in cui il metodo sperimentale, glorioso figlio di Galileo Galilei e del 1600, ci diceva che un fenomeno era definibile nello spazio e nel tempo, replicabile e misurabile in modo preciso.
Il Novecento con la Teoria della Relatività di Einstein e le scoperte della Meccanica Quantistica allarga le sue ricerche all'infinitamente grande e all'infinitamente piccolo.
Noi viviamo nella media misura: lo spazio euclideo. Siamo ancora nella fisica galileiana, anche se sia Euclide che Galileo, due geni, avevano intuito che aldilà delle loro ricerche c'era ancora molto da scoprire, forse molte verità.
La scienza, prima di tutto la matematica e quindi la fisica, sempre più indagano fenomeni che non cadono sotto i nostri sensi, che sono lontani dal sentire comune: Laudisi/Pirandello aveva davvero ragione.
Nella meccanica quantistica cioè la fisica delle particelle (protoni, elettroni, bosoni, fotoni, quark, insomma i quanti, sino ad ora la particella più piccola mai scoperta) vale un principio, individuato da Heisenberg, detto principio di indeterminazione (1927): «non è possibile conoscere simultaneamente la quantità di moto e la posizione di una particella con certezza».
Cioè? Immaginiamo una particella, diversamente da un aereo, una stella, un essere umano ecc., non posso misurare se non la probabilità che sia in quel momento in un dato punto, o in un altro
o in quel punto, ma in un momento diverso; gli audaci dicono che il quanto non ha la caratteristica della posizione.
In sostanza non posso conoscere e misurare con precisione entrambe le coordinate (per semplicità parliamo di spazio e di tempo), solo la probabilità: la probabilità!
Una verità probabile è ancora vera?
Siamo nell'ambito di una delle interpretazioni della meccanica quantistica, quella di Copenaghen, la più diffusa, ma non universalmente accettata. Il principio di indeterminazione in sostanza ci dice che a «un livello elementare, l'universo fisico non esiste in forma deterministica, ma piuttosto come una collezione di probabilità, o potenziali». C'è da restare di stucco, gli stessi scienziati che si avvicinarono a questo mondo rimasero sconcertati, tanto che Einstein proprio a proposito della meccanica quantistica disse: «Non credo che Dio abbia scelto di giocare a dadi con l'universo». Bohr, che era uno degli autori dell'interpretazione di Copenaghen rispose: «Einstein, smettila di dire a Dio cosa deve fare», a cui Feynman (altro fisico quantistico) aggiunse «Non solo Dio gioca a dadi, ma li lancia dove non possiamo vederli».
E la verità?
«Io sono colei che mi si crede», in questa frase c'è un'altra intuizione poetica e letteraria che si ritroverà in seguito nella meccanica quantistica. Un fondamentale principio della meccanica quantistica è infatti che "un fenomeno esiste solo se viene osservato", ma l'atto di osservare che dovrebbe rivelare la verità in effetti è un atto assolutamente soggettivo dipendente non solo dagli strumenti di osservazione, ma dall'osservatore in sé, umano o macchina che sia. In questo modo l'osservatore finisce con l'influire sul fenomeno osservato modificandolo e dunque se c'è una verità, una risposta da scoprire, questa non sta nell'oggetto ma nell'unione osservatore-osservato. E così la signora Frola è colei che la si crede, a seconda del punto di vista di chi l'osserva, dei suoi pregiudizi, della sua formazione, persino delle sue diottrie!

1.4 Non esiste dunque la verità?

Nel 1931 il logico Kurt Gödel dà un'altra scossa non tanto all'idea di vero, quanto, come in fondo aveva fatto Pirandello già nel 1917, all'idea che il vero si possa conoscere, o meglio che si possa decidere sempre se qualcosa sia vero o falso. Nel 1931 Gödel infatti divulgò una sua scoperta il "teorema di decidibilità e di indecidibilità", cui seguirà la formulazione del "teorema di incompletezza".
Pur senza entrare in interpretazioni filosofiche (che probabilmente esulavano dall'intento dello studioso), anche se manteniamo questi teoremi all'interno dell'ambito da cui scaturirono, cioè quello matematico, essi assumono una portata rivoluzionaria.
Gödel in effetti si riferisce a un sistema formale, ad esempio quello matematico e dice: «Per ogni sistema formale di regole ed assiomi è possibile arrivare a proposizioni indecidibili, usando gli assiomi dello stesso sistema formale», cioè si arriva a proposizioni per cui non è possibile dire se siano vere o false; talvolta semplicemente perché la conferma della verità di un'affermazione richiederebbe calcoli così lunghi che si potrebbero estendere ben aldilà della vita di uno studioso!.
Un esempio più "semplice". Se io dico "questa frase è falsa" all'interno di un sistema formale propongo una proposizione indecidibile perché se la frase è vera allora è vero che è falsa e, quindi, non può essere vera; se, invece, la frase è falsa allora è falso che la frase è falsa e quindi deve essere vera. La frase è dunque indecidibile, ovvero è sia falsa che vera e sia non-falsa che non-vera.
Ci scoppia la testa? Siamo arrivati al limite tra vero e falso, siamo all'indecidibilità. Gödel si riferisce, come abbiamo già detto, a un sistema formale, ma la vita, la nostra vita è così, in bilico tra vero e falso? Esiste per noi una possibilità di raggiungere una qualsiasi verità, sia pur soggettiva o parziale?
Credo proprio di sì, perché già sapere che esiste un principio di indeterminazione, che esiste un teorema di indecidibilità, arricchiscono le nostre conoscenze di altre verità.
La verità non è scomparsa, dalla crisi rinasce il nostro bisogno sacro di verità, come diceva appunto Simone Weil.
Le manifestazioni per la libertà di informazione, la lotta per il controllo dei mezzi di comunicazione, ad esempio, non sono altro che un tentativo di preservare o manipolare una sia pur limitata verità: della politica, della cronaca, del nostro essere al mondo. Limitata ma di cui abbiamo disperatamente bisogno.

 

2. Immaginazione

 

Eppure, eppure, secondo Leopardi quasi sempre la verità (l'arido vero) non è da preferirsi all'immaginazione. Nello Zibaldone scrive infatti:
(139) «Insomma questa vita è una carnificina senza l'immaginazione, e la sventura più estrema diventa anche peggiore e somiglia a un vero inferno quando sei spogliato di quell'ombra d'illusione, che la natura ci suol sempre lasciare».(26 giugno 1820)
(167) «Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni». (12-13 luglio 1820)
Nel pensiero, nella poesia di Leopardi l'immaginazione non si contrappone alla verità, piuttosto ha il compito di rendere la vita vivibile, di avvicinare l'uomo al suo gran desiderio di piacere infinito. La verità non lascia spazio all'immaginazione, al territorio dell'illusione, persino dell'autoinganno (ma non è forse l'autoinganno una delle principali tecniche di sopravvivenza della nostra psiche? Già l'aveva esplicitato con ironia e somma efficacia Svevo nella Coscienza di Zeno).
Però, nonostante tutto, già Leopardi pare intuire che l'illusione è anche qualcos'altro:
(168) «E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l'immaginazione non fosse considerata dall'uomo come tale, cioè non ha voluto che l'uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell'immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall'immaginario come dal vero (…)». (12-13 luglio 1820)
Se credere alla propria immaginazione confondendola con la verità può essere salvezza (come per don Chisciotte con la sua dama, Dulcinea del Toboso), spesso diventa un vero pericolo (come sente lo stesso don Chisciotte quando viene sconfitto dai mulini a vento che egli immagina spaventosi cavalieri nemici). L'Hidalgo è lo specchio di questo duplice potere dell'immaginazione: taumaturgico e letale.

2.1 Immaginazione ingannatrice

Fuor di letteratura, immaginare un bosco e sentirne il profumo quando si è imbottigliati in un'autostrada è certo una salvezza; ma immaginare che, chiunque abbia un colore della pelle diverso dal nostro, sia un nemico rende invivibile la vita, è quell'alterazione della verità che, come s'è visto, la Weil considera un vero e proprio delitto.
E così l'immaginazione può essere inganno, soprattutto se non amplia la verità, ma la altera, la sostituisce.
Nel castello di Atlante, trappola "immaginifica" al centro dell'Orlando Furioso dell'Ariosto, l'immaginazione abbrutisce, ipnotizza, perché attrae a sé dame e cavalieri mostrando loro ciò che bramano:

Inoltre fa loro credere che sia a portata di mano, mentre altro non è che pura apparenza, un incantamento: pare di essere in un grande centro commerciale, in un grande show televisivo. La casa del Grande Fratello?
L'incanto si rompe solo quando Angelica, che un anello rende immune dalle arti magiche, si accorge della verità: dunque la verità spezza gli inganni, le immaginazioni pericolose (ma purtroppo anche quelle salvifiche).
«Quivi entra, che veder non la può il mago,
e cerca il tutto, ascosa dal suo annello;
e trova Orlando e Sacripante vago
di lei cercare invan per quello ostello.
Vede come, fingendo la sua immago,
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor, molto rivolve
nel suo pensier, né ben se ne risolve».
(Canto XII, ottava 26)

L'Ariosto nel primo canto (ottava 56) aveva però già formulato un'altra importante qualità dell'immaginazione che inganna:
«(…) Questo creduto fu; che 'l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole»
È pur vero che talvolta ci si stupisce della credulità, della facilità con cui ci si lascia ingannare, dalla facilità con cui l'immaginazione prende il sopravvento sulla realtà. Però l'Ariosto aveva visto giusto nella nostra psiche (come sempre accade ai poeti): tanto più chi ci inganna intercetta i nostri desideri, i nostri bisogni, tanto più l'inganno è efficace e allontana la verità sostituendola con l'illusione (così fa Atlante, ma a nulla gli vale! La storia ci fa capire che molto spesso la verità viene a galla).
L'artificio di Atlante che sostituisce la verità con l'immaginazione, facendo leva sui desideri degli uomini, può essere molto efficace anche se invece di sollecitare i desideri si sollecitano le paure.
La paura può divenire una grande corruttrice della verità; da sempre lo sanno i potenti, lo ribadisce anche Machiavelli nel Principe, quando dice che è meglio esser temuto che amato:
Cap. 17 «Nasce da questo una disputa: s'elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell'uno de' dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano».[1] (cap. 17)
Poi aggiunge che il principe deve saper simulare e dissimulare, dunque ingannare, far immaginare qualcosa che non è, certo non deve dire la verità.
«Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare» (cap. 18)

2.2 Immaginazione, simulazione, sofismi

La questione centrale, però, è come posso convincere a tal punto qualcuno, come posso far passare per verità l'immaginazione? Certo non con la forza, né con la paura perché chi è vinto o impaurito si rende pur sempre conto di cosa sia la verità e cosa l'immaginazione. Io devo simulare e dissimulare, far passare per vero ciò che vero non è. L'arma fondamentale in questo caso è antica, antica come la politica, come il primo discorso, l'arma è la retorica: arte del discorso e ormai anche arte dell'uso delle immagini.
Io posso dire e contraddire, posso deviare il pensiero su ciò che voglio e indurre tutti a seguirmi grazie alla retorica, l'arte della persuasione (che poi è anche l'uso psicanalitico della parola, l'uso religioso e poetico).
Citerò come insuperato studioso di queste tecniche non un giornalista o un politico contemporaneo, ma ancora una volta un antico, un antichissimo anzi, e cioè Gorgia da Lentini, filosofo sofista greco che visse nel V secolo dopo Cristo. I sofisti erano filosofi che, lasciate le cure e le analisi relative alle problematiche del cosmo, della vita e della morte, si dedicavano a temi sociali, politici e soprattutto all'educazione. Furono i primi a farsi pagare per i loro insegnamenti. Furono maestri di retorica, teorizzarono una interessante idea secondo cui: «Intorno a ogni cosa ci sono due discorsi contrapposti» (non viene forse in mente Gödel, la meccanica quantistica, la signora Frola?).
Idea che ha ispirato una delle più belle commedie di Aristofane, Le Nuvole, in cui si scontrano, a proposito dell'educazione dei giovani, il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto ed è proprio quest'ultimo a vincere!
Gorgia resta famoso per il suo Encomio di Elena, sì proprio quella che fece scoppiare la guerra di Troia, "che tanti lutti ecc.". Insomma Gorgia fece l'avvocato del diavolo, ma scientemente.
Infatti poter elogiare Elena e quindi assolverla significa avvalorare la sua tesi sull'importanza della parola e della persuasione. Scrive nell'Encomio: «la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà. (…)». Gorgia sostiene che Elena è stata convinta dalle parole a seguire Paride e: «Così si constaterebbe l'imperio della persuasione, la quale pur non avendo l'apparenza dell'ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza» che si esplica negli ambiti più diversi, continua Gorgia, fino a quello politico: «i dibattiti oratorii di pubblica necessità nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suol dilettare e persuadere la folla»[2].
Parola, persuasione, contaminazione della verità, immaginazione… E dunque nulla di buono e bello resta dell'immaginare all'uomo?
Forse solo ai poeti, o forse no.
Già Leopardi (Zibaldone, 1377) aveva scritto: «E l'immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici.»
Ma ancor più rilevante è quanto si dice affermasse Einstein che non fu poeta, ma fisico e scienziato (il più famoso scienziato del nostro immaginario): «L'immaginazione è più importante della conoscenza.» E ancora «La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo». La conoscenza non è la verità, ma certo fa sensazione che uno scienziato, anzi lo scienziato per antonomasia, sia così poeticamente e leopardianamente ben disposto verso l'immaginazione. In realtà spesso per matematici e fisici le scoperte più importanti sono frutto dell'attimo, dell'intuizione e forse dell'immaginazione.
Ad esempio proprio Einstein a 16 anni a spasso sulle alpi liguri immaginava come sarebbe stato viaggiare a cavallo di un raggio di luce. Dieci anni dopo la sua immaginazione divenne la teoria della relatività.

 

3. Verità e immaginazione

 

Dice Giovanni: (8, 32) "La verità vi farà liberi": usa il verbo al futuro, forse perché la verità è un lungo cammino, forse perché la verità non è di questo mondo, ma le varie verità sì, sono il nostro pane quotidiano. Certo è però che nelle verità ha parte importante l'immaginazione come dimostra anche la matematica che, per risolvere certi problemi e per spiegare certi fenomeni (elettrotecnica, elettronica, meccanica quantistica), si serve dei cosiddetti numeri complessi cioè la somma di un numero reale e di un coefficiente reale moltiplicato per la parte immaginaria a+bi.
In altre parole, con l'espressione "numero complesso" si intende la somma di un numero reale e di un numero immaginario, cioè un multiplo reale dell'unità immaginaria, indicata con la lettera i che rappresenta la radice quadrata di –1. Poiché non esiste radice quadrata di un numero negativo è chiaro che questo numero non può essere nell'insieme dei numeri reali. Fu Gauss intorno alla prima metà del 1800 a codificarne l'uso, ma già se ne trova traccia nei lavori di Tartaglia e di Cardano (entrambi vissuti nel 1500)..
I numeri immaginari! Pare proprio un ossimoro, una contraddizione. Ma come! Nella verità matematica si insinua l'immaginazione? Lo scrittore austriaco Musil è tanto colpito dai numeri immaginari che costruisce un suo romanzo I turbamenti del giovane Törless proprio intorno a questi numeri.

Numeri reali come verità che sostengono la nostra vita, ponti percorsi anche grazie ai numeri immaginari, alla immaginazione, quando non sia falsità, inganno, simulazione o dissimulazione, ma volo dell'animo. Volo caro a scienziati e poeti come scrive Saramago nel suo romanzo Cecità[3]: «Uno scrittore è una persona come un'altra, non può sapere tutto né vivere tutto, deve domandare e immaginare»
Nella matematica dunque un numero immaginario si somma a un numero reale e forma un numero complesso.
Complesso come la realtà…