Maria Rosa Pantè - Se penso a un gioco, penso alla palla

Il gioco della palla è alle origini della nostra esistenza, di solito una palla ce l’hanno tutti, anche i bambini più poveri. Così scrive il poeta e cantautore cileno (ucciso dalla dittatura di Pinochet) Victor Jara (1832-1973) nella canzone Luchin:

Fragile come un aquilone
Per le strade di Barrancas
Giocava il piccolo Luchin
Con le manine livide,
con il pallone di stracci,
con il gatto e con il cane,
il cavallo li guardava...

Un pallone, magari di stracci, e degli amici e un bambino può giocare, ma la palla è anche alle origini della nostra cultura occidentale, la palla c’è nell’Odissea di Omero (VIII sec. a. C.) e vi ha un ruolo importantissimo, potremmo azzardare che aiuterà Odisseo a tornare in patria più di molti altri personaggi.

Infatti la fanciulla Nausicaa, figlia del re dei Feaci, gioca a palla sulla spiaggia, la palla rotola via e fa urlare le ancelle come accade sempre quando una palla rotola chissà dove; le urla, guarda caso, svegliano il naufrago Odisseo, mezzo morto di fatica, che si mostra alle ragazze.

La palla determina un incontro che risolverà la vicenda dell’eroe, per Nausicaa la palla sarà strumento di crescita, dopo questo incontro si farà donna e abbandonerà i giochi. Speriamo non del tutto, il terzetto, ragazze, palla e spiaggia è stato infatti ispiratore nella pittura, forse per la grazia delle fanciulle, la levità della palla e l’imprevedibilità del mare: vediamo ragazze in bikini giocare a palla nei mosaici romani di Piazza Armerina, giocano a palla una snella ragazza di Lichtestein e una fanciulla di Picasso, già abbastanza cubista, cosa che par fare a pugni con la palla che è sfera e invece no, ci sta benissimo.

Omero, Odissea, libro VI:

Quando furon sazie di cibo, ella e le ancelle

giocarono a palla (sfairh), gettando via i veli dal capo; (100)

…..

La palla dunque lanciò la regina a un’ancella, (115)

fallì l’ancella, scagliò la palla nel gorgo profondo.

Quelle un grido lungo gettarono: e si svegliò Odisseo luminoso.

Già in Omero dunque la palla ha la sua duplice connotazione: è strumento reale di giochi e attività sportive, ma, in quanto oggetto tondo, rotolante e imprevedibile simbolicamente rappresenta niente di meno che il fato, il destino.

Lo dice papale papale Giambattista Marino (Napoli, 1569 – 1625) nell’Adone, canto I, ottava 49, dove appunto descrive la Fortuna come una fanciulla che:

Nel’ampio grembo ha della copia il corno

e nella destra una volubil palla;

E ben prima in un’altra tradizione culturale, in un’altra lingua, così scriveva il poeta persiano Omar Kayyam (1048-1131):

E tu, sei come una palla

con la quale gioca il destino

e con la quale da mille anni

un dio si trastulla

tirandola svogliatamente

dentro un canestro.

Forse un antenato del basket? Quello che stupisce del gioco della palla è che, come forse ogni sport, il gioco deriva da un gesto naturale, la palla sembra un’appendice del nostro corpo.

La differenza fra lo sguardo di Marino e di Kayyam è interessante: nel Marino è la palla a essere simbolo del destino ed è volubile; nel poeta persiano noi stessi, esseri viventi, siamo palle con cui gioca il destino o un Dio.

Dunque anche noi rotoliamo dietro a questa palla, oppure rotoliamo come palle, tracciando un campo da gioco i cui confini, dobbiamo però saperlo, la palla (e noi con lei) varcherà spesso e in modo imprevedibile.

 

Il poeta è un pallone gonfiato?


Che domanda impertinente, ma l’osservazione non è casuale.

La palla è una grande metafora, perché è tonda, in natura tondo come la palla è il seno della madre, la prima palla che l’essere umano incontra e lo nutre. Gli astri sono palle, la terra è una palla. Siamo circondati da palle che rotolano e, anche se cerchiamo di governarle, basta un guizzo provocato dal vento, da un sassolino e ci sfuggono e allora sono guai: sfugge la terra al controllo, sfuggono gli astri e soprattutto i seni tondi della mamma. Il nostro primo Dio.

La palla in questa visione metaforica è presente in alcune liriche della poetessa americana Emily Dickinson (1830-1886), che nelle sue poesie metafisiche, inserisce oggetti quotidiani, come sempre fanno per spiegarsi meglio tutti i mistici e soprattutto le mistiche.

In una lirica, mentre sta per morire o almeno lei così crede, la sensazione è di essere sbattuta dalle onde (annegamento?) come una palla.

Palla/onde, e in modo forse irriverente, per un rotolare inaspettato di palla, mi è venuta in mente una striscia dei Peanuts, in cui Sally dice al fratello grande Charlie Brown che la sua palla finalmente si è presa la libertà di andarsene alle Hawaii (insomma Sally se l’è persa nel mare).

j598

Tre volte al mio respiro dissi addio.
E per tre volte non mi volle lasciare
(...)

Per tre volte le onde mi sospinsero in alto,
mi ripresero poi come una palla

Ma per lo più nella Dickinson la palla è un pallone, un palloncino forse lo diremmo noi, dunque non rotola, ma vola, come volesse essere lui a decidere di sé. Quando atterra, sulla terra o nell’acqua del mare, si buca e muore: forse l’anima è un pallone? O meglio l’anima, l’intima natura del poeta, quando non riesce a volare, muore?

j700 (1863) / F730 (1863)

Avrete visto dei Palloni andare - No?
Così solenni ascendono -
Sono come Cigni - che Vi snobbano,
Per Compiti di Diamante -

I loro Fluidi Piedi se ne vanno morbidamente
Su un Mare di Biondo -
Disprezzano l'Aria, come fosse troppo mediocre
Per Creature così rinomate -

I loro Nastri appena fuori vista -
Essi lottano - un po' - per Respirare -
Eppure la Folla applaude, di sotto -
Non chiederebbero bis - alla Morte -

La Dorata Creatura si tende - e ruota -
Inciampa affannata in un Albero -
Che squarcia le sue vene imperiali -
E precipita in Mare -

La Folla - si ritira con un'Imprecazione -
La Polvere nelle Strade - vien giù -
E i Contabili negli Uffici
Osservano - "Era solo un Pallone"

Il pallone è il destino, la parte bella, forse giocosa del proprio destino. E un fatto qualsiasi della vita in ogni istante lo può bucare. Un’esperienza che tutti viviamo quasi ogni giorno, perché i fatti sono tanti. Per fortuna anche i palloni.

J1215 (1872) / F1167 (1870)

Scommettevo su ogni soffio di Vento
Finché la Natura in collera
Mandò un Fatto a farmi visita
E a bucare il mio Pallone –

Il Pallone spirito, qui è esplicitato dalla similitudine. E il pallone vola spesso nel limite fra la vita e la morte.

J1630 (1884) / F1651 (1884)

Come dalla Terra il leggero Pallone
Non chiede che di essere sciolto -
L'ascensione per cui era fatto,
Sua innalzante, Residenza.
Lo spirito guarda alla Polvere
Che lo trattenne così a lungo
Con indignazione,
Come un Uccello
Defraudato del suo Canto.

Non è solo del poeta il tema dello scorrere del tempo e infatti la palla che rotola ci porta a una poesia sul tempo che passa, dove c’è un poeta che invecchia, ma resta coi sogni, i giochi del bambino, la palla che ha lanciato infatti è ancora in aria, il tempo è fermo, si può ancora sognare. Non è solo dei poeti il problema del tempo, ma questa immagine del tempo racchiuso in una palla lanciata da un bambino e mai caduta è solo di un poeta: il britannico Dylan Thomas (1914-1953).

Se vi viene in mente un Dylan più famoso, Bob Dylan, cantautore americano, va benissimo, perché Robert Zimmerman, vero nome del cantante, prese lo pseudonimo Dylan proprio in onore del poeta.

Splendessero lanterne, il sacro volto,

(…) Ho udito molti anni di parole, e molti anni

Dovrebbero portare un mutamento.

La palla che lanciai giocando nel parco

Non è ancora scesa al suolo.

E questa palla, lanciata da un bambino, ci porta su un altro campo di gioco.

 

Palle e bambini: un destino

 

Sedotto da un palla anzi da palline colorate persino il bambino Vittorio Alfieri (Asti 1749-Firenze 1803) che per delle palline un po’ si vende! Così racconta nella Vita:

In quegli spessi e lunghi intervalli in cui per via di salute io non poteva andare alla scuola con gli altri, un mio compagno, maggiore di età, e di forze, e di asinità ancor piú, si faceva fare di quando in quando il suo componimento da me, che era o traduzione, o amplificazione, o versi ecc.; ed egli mi ci costringeva con questo bellissimo argomento. Se tu mi vuoi fare il componimento, io ti do due palle da giuocare; e me le mostrava, belline, di quattro colori, di un bel panno, ben cucite, ed ottimamente rimbalzanti; se tu non me lo vuoi fare, ti do due scappellotti, ed alzava in ciò dire la  prepotente sua mano, lasciandomela pendente sul capo. Io pigliava le due palle, e gli faceva il componimento. (…)

Umberto Saba (Trieste 1883-1957), Ritratto della mia bambina:

La mia bambina con la palla in mano,
con gli occhi grandi colore del cielo
e dell’estiva vesticciola: "Babbo
-mi disse – voglio uscire oggi con te"

La palla accompagna la bimba, unico gioco che cita il poeta, come cosa leggera e vagante perché la palla si accosta non solo alla terra su cui rotola, ma, come abbiamo visto, al volo e al nuotare. E poi la palla è tonda come un volto di bambina, così sembra dire il poeta e noi vediamo queste due rotondità e poi gli occhi. Color del cielo.

Eugenio Montale (Genova 1896-Milano 1981), Felicità raggiunta:

Felicità raggiunta, si cammina

per te sul fil di lama.

(….)

Ma nulla paga il pianto del bambino

a cui fugge il pallone tra le case

Qui il correlativo oggettivo, tipico di Montale, è tra la palla e la felicità che rotola via, come la palla, il bambino pensa di averla conquistata per sempre e invece lei fugge. Simbolismo o meno, noi intuiamo la corsa di questa palla, vediamo il bambino smarrito e sentiamo distintamente il suo pianto. Ciò che è rotondo, come la felicità, inganna: è bello, allegro e sfuggente.

Mario Luzi (Firenze 1914-2005), Incontro:

(...)

Il vento che disvia di rovo in rovo
la palla e imbroglia i giuochi del bambino,
le braci sparse; e tu che ora parlavi
taci… è un istante della nostra vita.

Ancora un bambino e una palla capricciosa, spinta dal vento… l’infanzia, il tempo, le ombre… come ombra è il poeta ora, ombra di quel bambino cui il vento spinge la palla (il destino?) pericolosamente di rovo in rovo. E’ la vita stessa allora forse che imbroglia i giuochi del bambino.

Imbroglia anche i nostri giuochi, questa palla che corre via, dalla parte opposta al nostro volere:

Io ormai vecchia

come una palla spenta, sospinta via da ogni

religione, buttata nella spazzatura di

tutti i tempi, io smemorata e sudicia

donna che non vede gli argini dell’amore,

si vieta le carezze e i tormenti e

continua a cantare l’alleluia di una cosa

che non ha mai avuto principio.

Così Alda Merini (Milano 1931-2009) attua un ribaltamento dell’idea di palla giocosa e bambina. La palla legata alla vecchiaia è spenta, immagine molto bella, sinestetica. Una palla spenta non balza, non rotola nemmeno è sospinta via da altri, è passiva. Forse un po’ sgonfia, appunto spenta come dice la Merini.

Quando la palla torna bambina può volare, diventa un mondo. Ma un mondo triste, alla fine della corsa. Come contrasta questa tristezza con la intima giocosità tonda della palla! Una palla spenta anche il mondo potremmo immaginare. È questa palla che vogliamo lasciare ai nostri figli? No, dice la poetessa Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951):

Bambina mia,

Per te avrei dato tutti i giardini

del mio regno, se fossi stata regina,

fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.

Tutto il regno per te.

E invece ti lascio baracche e spine,

polveri pesanti su tutto lo scenario

(…) Ma tu non credere a chi dipinge l’umano

come una bestia zoppa e questo mondo

come una palla alla fine.

Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e

di sangue. Lo fa perché è facile farlo.

Noi siamo solo confusi, credi.

Ma sentiamo. Sentiamo ancora.

Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci

di amare qualcosa.

 

Il gomitolo è il mondo e il gatto lo sa


La palla: gioco, sorte, tempo, felicità, destino. La palla è un mondo! Che appunto è tondo.

Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno 1749- Weimar 1832), Faust:

MEFISTOFELE

O, quanto la bertuccia si stimerebbe beata, sol che potesse mettere al lotto. (I gattimammoncini stanno intanto giuocando con una grossa palla, e rotolandolasi innanzi.)

IL GATTO

Quest'è il mondo

Che va ratto

Ratto a tondo;

Ognor tratto

Nanzi e 'ndietro,

Scende e sale;

E risona come vetro.

Che è sì frale!

Di colori,

Di splendori

È di fuori

Luculento,

Ma di drento

Pien di vento,

Bugio e cieco

Come speco,

Muccin bello,

Ti ritrai;

Che se in ello

Oimè, intoppi, tu morrai.

Tutto gajo

È a vedello;

Ma d'argiglia

Lo fe' il sommo pentolajo,

E va in cocci qual stoviglia.

 Altro accostamento quasi topico, la palla e il gatto.

Goethe affida al gatto, un gatto però mammone, cioè diabolico e magico, una efficace descrizione del mondo, come una palla è tondo e rotola, è fragile, e se fuori è piacevole, dentro è pieno d’aria…

Il gatto che gioca con la palla, piena d’aria, ricorda la famosissima scena del film Il grande dittatore, in cui Chaplin, vestiti i panni di Hitler, gioca con quel pallone gonfiato che è la terra… o lui stesso, come ogni dittatore. Alla fine il pallone gli scoppia fra le mani, simbolo di un potere che non dura, ma che provoca danni incommensurabili e infinita infelicità agli altri.

Donatella Bisutti (Milano, 1948) Gatto e gomitolo:

Fra gli animali
che hanno scelto di vivere con noi
unico il gatto
offre la presenza
come dovrebbe essere l'amore
perciò visitato dalla Grazia.
E la dura palla del vaticinio accorre
al filo delle galoppanti zampe.

Ancor più domestica è l’immagine del gatto che gioca con il gomitolo, che come la palla, rotola e chissà dove va. Questa palla è dura, dice Donatella Bisutti, perché il vaticinio è duro; la palla è dunque il saper vedere e dire qualcosa prima degli altri, il vaticinare è poesia? La palla da metafora del destino diventa qui la chiave di lettura del futuro. Solo un animale misterico come il gatto ci può giocare, cioè può accorrere e sciogliere il vaticinio. Il gatto scioglie il vaticinio perché il suo è il vero modo di amare, visitato dalla Grazia e dunque quasi divino.

E meno male che stiamo parlando di palle! Vola la palla verso un argomento più leggero del destino. O forse no?

 

L’Amore che palla!

 

Guido Catalano (Torino, 1971), Ed io che credevo che l’amore fosse un gatto che viene dal Paradiso:

(...)

L’amore non è quella cosa che mi avete detto.
Mi spiace per tutti i poeti
che fin dall’inizio
ci hanno provato.

L’amore è
una palla da bowling
scagliata da diecimila metri d’altezza
che sfonda il tetto del tuo condominio
e ti prende in pieno cranio
mentre stai facendo delle facce buffe
davanti allo specchio
lavandoti i denti
alle sette e un quarto del mattino
nel tuo cesso dalle piastrelle rosse. (...)

Ma un filo (del gomitolo) percorre questo discorso, la palla, l’amore e per iniziare un gatto.

Per Guido Catalano dunque l’amore non è un gatto, ma una palla, e non i palloncini o i palloni gonfiati di cui sino a ora si è detto, ma una pesante palla da bowling. Della palla questo amore ha l’imprevedibilità, la forza del colpo e una potenza distruttiva, se non del tetto certo della vita tranquilla e ignara di ogni giorno.

Wislawa Szymborska (Polonia 1923-2012) Amore a prima vista:

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
È bella una tale certezza
ma l'incertezza è più bella.

(…)

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
in qualche porta girevole?
(…) Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.

Non ancora pronto del tutto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
tagliava loro la strada
e soffocando una risata
con un salto si scansava.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
(…) Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell'infanzia?

(…) Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Il tema della sorte, del caso (diversa nella poesia dal destino perché la sorte è un destino che deve compiersi, ancora in preparazione), di qualcosa che è andato così, ma avrebbe potuto andare diversamente e il dilemma di come sarebbe stato in un altro modo, o luogo o tempo, è uno dei temi della Szymborska. In questa poesia c’è quasi un compendio dei valori simbolici della palla: c’è la sorte, il gioco, l’infanzia, la palla fra i cespugli che fa venire in mente Nausicaa; e la descrizione stessa del caso che avvicina e allontana i due non ancora amanti, taglia loro la strada e si scansa con un salto, non è forse una efficace e icastica descrizione di cosa fa una palla che sia davvero una palla?

Insomma la palla reale diventa simbolo e il simbolo si comporta come una vera palla! Potenza della poesia.

 

La palla del calcio

 

La palla finalmente rientra nel campo da gioco che ora è quello del calcio, il campo da gioco più famoso, amato e odiato. E chi la fa rotolare proprio lì questa palla? Ma un gatto!

Il giorno in cui sono nato c’era un gatto che aspettava dall’altro lato della porta. Mio padre fumava in cortile, a Mar del Plata. Mia madre dice che è stato un parto difficile, alle quattro e venti di pomeriggio di un giorno d’estate. Il sole spaccava le pietre, i giovani Borges e Byoi Casares se ne stavano da quelle parti a Los Troncos, impegnati a creare le storie allucinate di don Isidoro Parodi. A Borges i gatti gli andavano dietro… A me, un gatto ha portato la soluzione per Triste, solitario y final.

Chi scrive così della sua nascita, sotto il buon auspicio di un gatto, è uno dei più grandi scrittori di calcio ed è stato anche un giornalista sportivo: Osvaldo Soriano, si chiamava (Argentina 1943-1997). Nel suo libro Fùtbol le storie del calcio e della palla sono poetiche e surreali, come la vicenda narrata nel racconto Il rigore più lungo del mondo, con quel portiere che, guarda caso si chiama El Gato, che per un portiere è un bel nome. El Gato prima di tutto ci dice che una partita di calcio non finisce mai e che bisogna studiare la tattica, l’avversario e ancora non basta. Un gioco che diventa psicologia o vaticinio come già si è detto.

(...) El Gato Diaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all'indietro i capelli bianchi e duri finché, dopo mangiato, si infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:

“Constante li tira a destra.”
“Sempre.”, disse il presidente della squadra.
“Ma lui sa che io so.”
“Allora siamo fottuti.”
“Sì, ma io so che lui sa.”
“Allora buttati subito a sinistra!”, disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
“No, lui sa che io so che lui sa.”, disse El Gato Diaz, e si alzò per andare a dormire.

Il calcio è molto presente negli scritti di autori sudamericani, perché è molto presente nella società, tra le persone: un altro che se ne occupò è stato l’uruguayano Eduardo Galeano (1940-2015) nel suo libro Splendori e miserie del calcio.

Nel libro Galeano ci dice come questo sport, questo gioco sia stato anche un modo, un’occasione per contrastare le dittature militari che insanguinarono l’America del Sud per tanti anni (i campi di concentramento, i torturati, i desaparecidos cileni e argentini e salvadoregni e uruguayani, brasiliani e… nessun paese fu indenne).

Galeano così denuncia riguardo la Coppa del mondo che si giocò in Argentina nel 1978, nel pieno della dittatura militare del generale Videla:

Parteciparono dieci paesi europei, quattro americani, Iran e Tunisia. Il Papa inviò la sua benedizione. Al suono di una marcia militare, il generale Videla decorò Havelange durante la cerimonia di inaugurazione nello stadio Monumental di Buenos Aires. A pochi passi da lì era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e di sterminio della Scuola di meccanica dell’esercito. E alcuni chilometri più in là, gli aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare.

Il calcio è stato uno strumento di dissenso, ma anche un sogno di emancipazione sociale. E lo è ancora, adesso soprattutto nel continente africano. Fuggire su un barcone e diventare un campione di calcio… dalla disperazione al sogno, alla gloria e chi non lo vorrebbe?

Anche uno dei più grandi giocatori del mondo, per alcuni il più grande, Diego Armando Maradona  è stato un ragazzo povero, in una terra povera; così ne scrive Galeano nel suo libro:

Accadde nel 1973. Si misuravano le formazioni dei ragazzi dell’Argentinos Junior e del River Plate a Buenos Aires. Il numero 10 dell’Argentinos ricevette il pallone dal suo portiere, scartò il centravanti del River e iniziò la sua corsa. Vari giocatori gli si fecero incontro. A uno fece passare il pallone di lato, all’altro tra le gambe, l’altro ancora lo ingannò di tacco. Poi, senza fermarsi, lasciò paralizzati i terzini e il portiere caduto a terra e camminò con il pallone ai piedi fin dentro la porta avversaria. In mezzo al campo erano rimasti sette ragazzini fritti e quattro che non riuscivano a chiudere la bocca. Quella squadra di ragazzini, le Cebolittas, era imbattuta da cento partite e aveva già richiamato l’attenzione dei giornalisti. Uno dei giocatori, el Veneno (il Veleno), che aveva tredici anni dichiarò: «Noi giochiamo per divertirci. Non giocheremo mai per i soldi. Quando comincia a esserci di mezzo il danaro, tutti si ammazzano per poter essere delle stelle e allora arrivano l’invidia e l’egoismo». Parlò abbracciato al giocatore più amato di tutti, che era il più allegro e il più piccoletto: Diego Armando Maradona, che aveva dodici anni e aveva appena segnato quel gol incredibile. Maradona aveva l’abitudine di cacciare fuori la lingua quando era in piena spinta. Tutti i suoi gol erano stati fatti con la lingua di fuori. Di notte dormiva abbracciato alla palla e di giorno con lei faceva prodigi. Viveva in una casa povera di un quartiere povero e voleva diventare un perito industriale.

Invece è diventato Maradona, un eroe, genio calcistico e sregolatezza.

Restiamo fra gli eroi della palla, ma facciamo un piccolo fuori gioco, fuori campo del fùtbol per finire nel campo di Macerata, lo sferisterio, nel 1821, dove si gioca a palla, a braccio non a calcio, un gioco però allora seguito quasi come ora il calcio. Fra i tifosi ne spicca ai nostri occhi uno inaspettato… Giacomo Leopardi! Il serioso e studioso poeta (così ce lo dipingono a scuola, ma non credeteci del tutto, basta guardare i sorrisini ironici che sfodera nei quadri) che a 23 anni non scrive solo Canzoni a Dante, all’Italia, al maestro Angelo Mai, ma anche a un giocatore famoso, quasi suo coetaneo, Carlo Didimi, che gioca appunto alla palla a braccio. Leopardi dunque assiste a una partita e scrive una lirica, non tra le sue più belle, un po’ troppo retorica (forse non pare così a un tifoso, il linguaggio dello sport infatti talvolta è epico, ma più spesso retorico); però è curioso che tra gli eroi e i grandi temi delle poesie del giovane Giacomo trovi tanto posto un giocatore di palla e uno sport. Ma, come per gli scrittori sudamericani, scrivere del giocatore e della palla per Leopardi è anche parlare della sua patria, dell’Italia e dei suoi amori: il mondo classico degli eroi. E infatti la lirica è insieme un accostamento delle imprese del giocatore a quelle degli sportivi antichi, ma anche occasione per celebrare la patria: il giocatore di palla è un eroe, che può unire una nazione divisa e invasa, come appunto l’Italia.

Giacomo Leopardi (Recanati 1798- Napoli 1837), A un vincitore nel pallone:

Di gloria il viso e la gioconda voce,

Garzon bennato, apprendi,

E quanto al femminile ozio sovrasti

La sudata virtude. Attendi attendi,

Magnanimo campion (s'alla veloce

Piena degli anni il tuo valor contrasti

La spoglia di tuo nome), attendi e il core

Movi ad alto desio. Te l'echeggiante

Arena e il circo, e te fremendo appella

Ai fatti illustri il popolar favore;

Te rigoglioso dell'età novella

Oggi la patria cara

Gli antichi esempi a rinnovar prepara.

(...)

Dal rimembrar delle passate imprese.

Alla patria infelice, o buon garzone,

Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,

Nostra colpa e fatal. Passò stagione;

Che nullo di tal madre oggi s'onora:

Ma per te stesso al polo ergi la mente.

Nostra vita a che val? solo a spregiarla:

Beata allor che ne' perigli avvolta,

Se stessa obblia, né delle putri e lente

Ore il danno misura e il flutto ascolta;

Beata allor che il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede.

E così, poiché il giocatore è un eroe popolare, alziamo lo sguardo e seguiamo il tiro di Didimi che vola nello spazio e nel tempo, vola, mentre invece un aereo precipita al suolo a Superga, nel 1949, un disastro in cui scompare intera la squadra del Torino. La fine dell’intera squadra ha scosso per molti anni (fino a oggi) tante persone (persino mia madre che era una juventina acritica e sfegatata), fra queste il poeta Mario Luzi, i cui versi sembrano molto lontani dal gioco della palla.

Nella sua commossa poesia Luzi appare incredulo per una morte così assurda di tanti eroi, che il poeta evoca per nome alla fine. L’incredulità, il desiderio di cambiare il destino, si esprime attraverso i punti interrogativi, che sembrano voler cancellare, anzi correggere in questo caso l’ineluttabilità della morte. Eppure la squadra entra nel mito proprio perché resta squadra anche nella morte (squadra / anche contro la morte, ancora squadra).

Del gioco Luzi mette in luce qui non la forza, ma la tattica, la scienza fine, la grazia. Però la parola ricorrente della lirica è niente, angosciosamente ripetuta:

Qui, a questa rupe nera, qui piegava

la manovra leggera delle ali,

i triangoli in fuga coniugati,

il guizzo breve, il fulmine leggiadro?

Mai la morte fu veramente morte

così, mai corse rapida all’essenza

come questa che vi abolisce, squadra

anche contro la morte, ancora squadra.

Niente c’è più, né grazia trascorrente

né scienza fine e rapida sull’erba,

niente che vi protegga e vi distingua

dal tutto grigio e vile in cui rientraste?

Niente, né ritmo celere né piano

che vi separi più dal moto oscuro,

tempo rubato al tempo non c’è più

che vi salvi dal tempo che v’invade?

Niente c’è più, niente c’è più, o un barbaglio?

niente, niente, non c’è più niente, piove

qui dove noi diciamo Rigamonti,

Castigliano, Maroso, Ballarin.

Come in ogni universo però anche il mondo del gioco della palla ha eroi e antieroi, ne canta un poeta italiano Fernando Acitelli, (Roma, 1957) nel suo libro La solitudine dell'ala destra, una raccolta di quasi 200 poesie dedicate a giocatori, dai più famosi alle promesse mai mantenute, come un calciatore che ci riporta per un attimo in Sudamerica, in Brasile: si tratta di Luis Silvio Danuello che disputò nove partite nella Pistoiese senza segnare neanche un gol. Si dice in racconti leggendari che venne acquistato per errore. Pare sia divenuto barista dalle parti di Campinas, nello Stato di San Paolo:

A Bahia fu la spiaggia a tradirti.
Vistoti palleggiare al ritmo di samba,
lo stolto talent-scout - raggirato
da goleador balneari - abusò in parole solenni
portandoti in Italia.
Furon avanzati paragoni incredibili,
da avanspettacolo, e quasi fosti accostato
a Garrincha.
I pochi minuti di serie A
ebbero la maglia arancione
della Pistoiese. In Italia, per difenderti,
visto che non giocavi mai, presero
a dire che eri troppo giovane.

La palla ci conduce fra eroi e antieroi in modo quasi inaspettato, ci conduce nel mondo della poesia e persino, se a parlare di calcio è uno scrittore come Pasolini, nel campo del sacro.

Pasolini (Bologna, 1922 – Ostia 1975) in un’intervista diceva infatti:

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro.

Per Pasolini:

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. (…) Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico. Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. E’ un sogno.

Pasolini non conobbe però mai Maradona!                                                    

Come per il sacro, e ce lo dice sempre Pasolini, e per il poetico, la mercificazione diventa anche per il calcio una corruzione che può portare alla fine di ogni sacralità. E anche di ogni gioco. Dunque può fermare del tutto la volubile palla? Chi lo sa.

Così scrive ancora Galeano:

La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi. La tecnocrazia dello sport professionistico ha imposto un calcio di pura velocità e forza, che rinuncia all’allegria, che atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio. Per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia contro l’avventura proibita della libertà.

Si notino i temi già colpiti dalla nostra palla: l’infanzia, il gomitolo, il gatto, la fantasia, l’allegria o felicità… Galeano aggiunge:

Per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo        manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia.

 

La palla, l’imprevisto, la salvezza.

 

La palla poesia, il goal gesto poetico, dice Pasolini; e avrà forse avuto presente la poesia Goal di Umberto Saba, che però ha un punto di vista opposto a quello del goleador; nel parlare di calcio e di goal si parla di solitudine, la solitudine del portiere, figura ibrida del gioco di squadra: singolo, ma dentro una squadra. Quasi in dialogo più con la porta dietro di sé che con gli altri giocatori, il portiere ha un punto di vista diverso.

E anche i portieri sono due e la lirica si apre con l’immagine del portiere che non ha parato e dunque sta con la faccia a terra (quando qualcuno lo consola e alza gli occhi mostra di star piangendo); e si conclude con la gioia dell’altro, quello della squadra che ha fatto goal, lui discosto dalla festa, lui singolo, ma in una squadra, gioisce lo stesso da solo e fa capriole davvero nell’anima, e manda baci lontano, là dove tutti gli altri stanno. Poesia della sconfitta e della vittoria, di “pochi momenti come questo belli…”:

GOAL

Il portiere caduto alla difesa

ultima vana, contro terra cela

la faccia, a non veder l’amara luce.

Il compagno in ginocchio che l’induce

con parole e con mano, a rilevarsi,

scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla- unita ebrezza - per trabocchi

nel campo. Intorno al vincitore stanno,

al suo collo si gettano i fratelli.

Pochi momenti come questo belli,

a quanti l’odio consuma e l’amore,

è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere

- l’altro - è rimasto. Ma non la sua anima,

con la persona vi è rimasta sola.

La sua gioia si fa una capriola,

si fa baci che manda di lontano.

Della festa - egli dice - anch’io son parte.

Alla palla, forse, come agli scrittori piacciono i portieri e per un momento lasciamo Saba che riprenderemo per vedere la storia di un altro portiere, con Alfonso Gatto (Salerno 1909 – Orbetello 1976) e la sua La partita di calcio:

Boccaccio era il portiere,

il gran portiere giallo

della squadra del quartiere.

Stava all’erta come un gallo

sulla porta del campetto

alla periferia.

Diceva: "Qua sul petto,

ed ogni palla è mia".

Ma quel giorno, chi lo sa,

sbuca di qua sbuca di là

- Boccaccio attento! - pa pa

la palla è in rete. "Ma va,

ma va, Boccaccio, è uno".

Attento, di qua di là,

passa non passa, tira.

Boccaccio si rigira;

si tuffa - passerà?-

"Qui non passa nessuno",

ma la palla è nel sacco.

E son due. Lo smacco,

i fischi, e poi sotto...

"Salta a pugno, Boccaccio,

ma non la vedi dov’è,

salta, salta"... E son tre.

E quattro e cinque e sei.

- Boccaccio dove sei?-

E sette e otto e nove

e piove e piove e piove

con grandine e con tuoni.

Quattordici palloni

nella rete di Boccaccio

poveretto poveraccio,

bianco come uno straccio

col berretto da fantino

ubriaco senza vino.

Quanti fischi! e poi "cretino",

"pastafrolla", "posapiano",

"tappabuchi", "moscardino!"

Oh, quel povero Boccaccio

nella furia del baccano

si strappava i suoi capelli

e la folla dai cancelli

gli gridava: "Ancora, ancora".

Tutti tutti, ad uno ad uno

si strappò capelli e baffi

e poi schiaffi sopra schiaffi

si ridette per lezione.

Restò lì con la sua testa

tonda, liscia come palla.

"Oh, son quindici con questa

- gli gridò dietro la folla -

tappabuchi, pastafrolla

vai a guardia d’un portone!"

E difatti il buon Boccaccio

col berretto e col gallone,

mani pronte e spazzolone,

oggi è a guardia d’un portone

dove passano persone

che fermare egli non può,

dieci venti cento e più.

Qui il portiere è davvero un “brocco” e infatti finirà a fare il portiere in un albergo, dove non dovrà fermare nessuno anzi lasciar passare, e questa pare essere la sua specialità. Del calcio nella poesia c’è anche la crudeltà della tifoseria (parliamo di gioco e non di tragedia per questo degli ultras, della violenza negli stadi non facciamo menzione, quelli le palle le bucano tutt’al più), c’è anche la palla che rotola, la testa, la sua testa sconfitta liscia e tonda come una palla. Il tutto nello stile ridente della filastrocca, con quelle rime e quei versi scivolosi, rotolanti come gli ottonari.

Torniamo a Saba perché è stato uno dei poeti del calcio: ha scritto infatti un intero ciclo di poesie su questo sport, ha cantato sia squadre famose che squadre di paese:

Squadra paesana

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-alabardati,
sputati dalla terra natia,

da tutto un popolo amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angosce
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane!

La gloria vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

La poesia e il calcio sono comunque un modo per dire un tema caro a Saba: la sua diversità di poeta e il suo bisogno di appartenenza, il suo essere conscio della particolarità della sua natura e la nostalgia di essere come tutti.

Della squadra di paese (che riecheggia un po’ la descrizione di Galeano) si mettono in luce la giovinezza, la bella spensieratezza e il plauso del pubblico, la commozione:

II - Tre momenti

Di corsa usciti a mezzo il campo, date

prima il saluto alle tribune.

Poi, quello che nasce poi,

che all’altra parte rivolgete, a quella

che più nera si accalca, non è cosa

da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come sentinella.

Il pericolo lontano è ancora.

Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora

una giovane fiera si accovaccia

e all’erta spia.

Festa è nell’aria, festa in ogni via.

Se per poco, che importa?

Nessuna offesa varcava la porta,

s’incrociavano grida ch’eran razzi.

La vostra gloria, undici ragazzi,

come un fiume d’amore orna Trieste.

III - Tredicesima partita

Sui gradini un manipolo sparuto

si riscaldava di se stesso.

E quando

- smisurata raggiera - il sole spense

dietro una casa il suo barbaglio, il campo

schiarì il presentimento della notte.

Correvano sue e giù le maglie rosse,

le maglie bianche, in una luce d’una

strana iridata trasparenza. Il vento

deviava il pallone, la Fortuna

si rimetteva agli occhi la benda.

Piaceva

essere così pochi intirizziti

uniti,

come ultimi uomini su un monte,

a guardare di là l’ultima gara.

IV - Fanciulli allo stadio

Galletto

è alla voce il fanciullo; estrosi amori

con quella, e crucci, acutamente incide.

Ai confini del campo una bandiera

sventola solitaria su un muretto.

Su quello alzati, nei riposi, a gara

cari nomi lanciavano i fanciulli,

ad uno ad uno, come frecce. Vive

in me l’immagine lieta; a un ricordo

si sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.

Odiosi di tanto eran superbi

passavano là sotto i calciatori.

Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

Nelle poesie di Saba sul calcio si intrecciano sempre il gioco, il campo verde del gioco, la visione un po’ discosta, laterale, quella del portiere o del ragazzino tifoso o dello spettatore della tredicesima crepuscolare partita, e poi compare la sorte, insieme alla bravura, e la festa, soprattutto la festa che il calcio può portare con sé.

La domenica era un tempo la giornata della messa, della festa, del campionato di calcio, della “Domenica sportiva” (ora non più, si gioca sempre, a uso e consumo della televisione e dell’ingordigia nostra e forse della globalizzazione):

Vittorio Sereni (Luino 1913-Milano 1983), Domenica sportiva

Il verde è sommerso in neroazzurri.

Ma le zebre venute di Piemonte

sormontano riscosse a un hallalì

squillato dietro barriere di folla.

Ne fanno un reame bianconero.

la passione fiorisce fazzoletti

di colore sui petti delle donne.

Giro di meriggio canoro,

ti spezza un trillo estremo.

A porte chiuse sei silenzio d’echi

nella pioggia che tutto cancella.

Così Sereni fa della sconfitta della sua squadra, l’Inter (che perde contro la Juventus), un racconto che dice molto delle illusioni e delusioni umane: la partita, la festa, la domenica appunto sportiva; compaiono qui anche le tifose con la grazia femminile del fazzoletto che fiorisce sul petto delle donne, e poi la sconfitta e la fine del gioco e la riflessione sulla fine della festa, sull’effimera gioia di chi ha vinto e sull’effimero dolore di chi ha perso, che sono lavati via dalla pioggia che tutto cancella.

In un’altra poesia sulla domenica e il calcio Sereni descrive il vuoto che lascia il calcio in Italia, in tutta l’Italia d’estate (la sterminata domenica), quando il campionato è sospeso. Il poeta stesso non sa che fare, il poeta è uno dei tanti, abbandonati dalla partita di pallone:

L’Italia, una sterminata domenica

le motorette portano l’estate

il malumore della festa finita

sfrecciò invano, ora è poco,

l’ultimo pallone

e si perde

ma già sfavilla la ruota vittoriosa

e dopo, che fare della domeniche?

aizzare il cane, provocare il matto

non lo amo il mio tempo, non lo amo

l’Italia dormirà con me

in un giardino d’Emilia o Lombardia

sempre c’è uno come me

in sospetti e pensieri di colpa

tra il canto di un usignolo

e una spalliera di rose.

Come si è detto il linguaggio con cui si parla di calcio è spesso enfatico, preso dalla letteratura, e parecchio dal linguaggio epico (bellico), ma talvolta è la letteratura e il linguaggio comune a prendere spunto dal mondo del calcio, come in questa poesia di Giovanni Raboni (Milano 1932-2004), dedicata alla zona Cesarini, che prende il nome dal giocatore della Juventus, Renato Cesarini, che negli anni ʼ30 divenne famoso per avere segnato diversi goal nell’ultima parte della partita, addirittura agli ultimi minuti. Si parla di zona Cesarini per dire qualcosa che avviene di sorpresa, all’ultimo minuto: e la parola zona fornisce una connotazione di spazio oltre che di tempo, in perfetta quarta dimensione, come lo spazio-tempo di Einstein.

Raboni usa una tecnica e un ritmo convulsi che sono quelli tipici delle ultime battute confuse del gioco, quando il risultato è incerto e la posta è grossa: vincere o perdere. Allora il gioco si dimentica delle tattiche studiate il giorno prima; si ribatte la palla come si può con qualsiasi parte del corpo (non la mano certo) e talvolta nel caos della zona Cesarini qualcuno decide le sorti di una partita. E si dilata lo spazio-tempo, la confusione diventa quasi un ralenti, in cui il giocatore corre, ma lento, e spalanca la bocca in un urlo di vittoria:

Il tiro, maledizione, ribattuto
sulla linea nell’ultima convulsa
mischia a portiere
nettamente fuori casa, fuori causa, col dito
mignolo, con la spalla, con l’occipite, con
la radice del naso
dell’avversario accorso, guarda caso,
da metà campo – o forse (chi capiva
più niente con quel buio) dal compagno
che va in cerca di gloria
a scapito evidente degli schemi
non più tardi di ieri ribaditi
nella fantastica pace del ritiro
dal mister quando ancora
tutto, anche vincere, anche
azzeccare questo tiro teso, radente, tra decine
di gambe e lentamente
spalancando la bocca
correre verso il centro, rotolarsi
nell’erba, in lenta muta sfida stendere
le braccia al cielo era possibile…

Lasciamo il calcio con Valerio Magrelli (Roma, 1957) perché proprio lui ha scritto un libro di riflessioni poetiche sul mondo del calcio. Il libro è organizzato come una partita di calcio, con due parti di 45 minuti, una riflessione per ogni minuto di partita: 90 racconti dunque, per dire addio al calcio, alla palla di questo campo da gioco.

Del libro riportiamo due brani legati dal fatto che trattano dell’iniziazione di un bambino al gioco del calcio; nel primo caso è Magrelli stesso che dice di come è nata la sua passione per il calcio e, forse, proprio da questa passione la sua attitudine alla poesia; il secondo dedicato all’iniziazione del gioco del calcio del figlio di Magrelli. Quindi palla e bambini, palla e poesia, palla e costruzione di un rapporto fra genitori e figli. Quante cose ci dice il calcio! Ma Magrelli dice addio al calcio per l’età raggiunta o chissà per quale altra pressione della vita e così racconta questo addio: “Non mi era mai capitato di pensarci, ma qualche anno fa ho smesso per sempre di giocare a pallone. E come se avessi cambiato sistema respiratorio (...)”: questo addio dimostra l’importanza vitale del calcio, lasciare il pallone è come cambiare la propria natura. Addirittura una cosa vitale come il sistema respiratorio. Insomma vuol dire diventare altro:

Palleggi, palleggi in un pomeriggio d’estate. Quel bambino concentrato, solo col suo pallone, era capace di passare ore, pur di superare il numero di tocchi che si era prefissato. Non allegro, ma assorto, pienamente consacrato al mio compito. Una buona approssimazione alla felicità. Forse per questo ho cominciato a scrivere poesie.

1’

Mio figlio è un tifoso! E dire che aveva paura del pallone … Paura: paura. Allora, per guarirlo da quella brutta malattia, me lo mettevo davanti, sull’attenti, e cominciavo con i cataplasmi. Si trattava di colpirlo leggermente, col pallone sul petto, da neanche mezzo metro di distanza. Era una serie di piccolissimi urti, e lui, irrigidito, teso allo spasimo, cercava di resistere fino al numero stabilito. Facciamo dieci? Venti? Avrà avuto cinque anni, e usciva da quello sforzo provato e insieme felice. Erano gocce, medicamenti per prepararlo al gioco del calcio, e agivano pian piano come vitamine, come integratori minerali. Poi basta, correva via, sollevato fino alla seduta successiva. Ma intanto Ronaldo scorrazzava sui nostri prati, e in mezza Italia una generazione di bambini cambiava squadra. Era la classe dell’89, destinata ad essere arruolata praticamente per intero nelle sterminate file di quel pifferaio magico.

Padri e figli, bambini, e le donne? Siamo ancora a cantare con Rita Pavone “perché perché la domenica mi lasci sempre sola per andare a vedere la partita di pallone” oppure c’è stata una evoluzione?

 

La palla rotola salta si lancia si batte si prende e ribatte

 

La palla ha un buon successo letterario quando si gioca sui campi di tennis, fin da Shakespeare (Stratford upon Avon 1564-1616) che ne scriveva nell’Enrico V:

AMBASCIATORE

Allora, in breve, ecco qui:

Vostra Altezza ha, or non è molto, inviato in Francia emissari,

rivendicando taluni ducati, in forza del diritto

del vostro grande predecessore, Re Edoardo Terzo.

In risposta a tale pretesa, il principe nostro signore

dice che voi tirate un po’ troppo in lungo la giovinezza,

e vi consiglia di metter la testa a partito; nessuna conquista

farete in Francia con un’agile gagliarda:

laggiù i ducati non si ottengono a suon di baldorie.

Egli vi manda pertanto qualcosa a voi più congeniale,

un barile di preziosi; e, come contropartita,

vi prega di lasciarli perdere, i ducati che pretendete:

che essi non sentan più parlare di voi. Questo dice il Delfino.

ENRICO

Quali preziosi, zio?

EXETER

Palle da tennis, mio sire.

ENRICO

Siami assai grati al Delfino per le sue amabili uscite.

Vi ringraziamo per il suo dono e pel vostro disturbo.

Quando opporremo a queste palle le nostre racchette

ci giocheremo in Francia, a Dio piacendo, una tale partita

che la corona di suo padre finirà fuori gioco.

Ditegli che ha scelto di cimentarsi con un avversario

che metterà sottosopra tutti i campi di Francia

con i suoi tiri.

Grande metafora politica, la partita di tennis diventa qui un gioco di guerra e di conquista fra Inghilterra e Francia; il testo è giocato fra sport, ironia e serissima minaccia. Al re inglese il Delfino di Francia regala palle da tennis, invece dei ducati: quelle palle sono simbolo dell’immaturità di Enrico V e date in risposta a sue pretese economiche ritenute assurde. Ma alle palle da tennis risponderanno le racchette inglesi, dice Edoardo.

Tra l’altro fra Inghilterra e Francia si inserisce il mondo arabo giacché la parola racchetta viene proprio dall’arabo e vuol dire “mano”, perché il gioco del tennis ha antenati antichissimi e prima della racchetta era la mano a ribattere la palla, come accade ancora oggi nella palla a pugno giocata soprattutto in Piemonte nelle Langhe: sport cantato da Pavese e Fenoglio, entrambi scrittori langaroli. E mai come in questo caso il verbo cantare è pertinente, per descrivere la palla a pugno come si presenta a un giocatore mancato, la cui vicenda viene narrata da Fenoglio per il cinema, in un film che mai si è fatto perché Fenoglio è morto troppo presto: un film poi rifatto, seppur non girato, da Mauro Carrera, cantautore delle Laghe, che ha appunto messo in musica la sceneggiatura di Fenoglio (il cd che ne è uscito a cura della Fondazione Ferrero di Alba è davvero una operazione culturale importante), il film avrebbe dovuto intitolarsi forse Jose e Davide, i nomi di due fratelli che vivono nella povertà e nella angustia delle Langhe nel dopoguerra…

Il più piccolo, che sente troppo stretta la tutela avara del fratello, un giorno va in città e viene chiamato a giocare, perché è bravo, ma lui sa che chi perde ha una penale e così dice che non può giocare, perché lui i soldi non li ha, il fratello lo schiavizza. Riportiamo la prima parte della sceneggiatura del film: Fenoglio dedica infatti una scena intera al gioco del pallone, e dalle indicazioni dell’autore si vede che il gioco era davvero “di casa” (ancora si gioca nelle piazze dei paesi langaroli):

Prime ore del pomeriggio festivo. Il gioco del pallone, adiacente alla chiesa e all’osteria di Placido. La partita è già combinata, ma ancora volano nell’aria proteste e recriminazioni per la composizione delle due quadriglie. Alcuni partitanti, per i quali la partita, così com’è stata combinata, è accettabile, si allenano a battere e a ricacciare il pallone (ma cpn prudenza per non mandarlo perduto oltre i tetti e quindi nel sottostante vallone, profondo e ripidissimo). Ma ancora si intrecciano le proteste dei partitanti insoddisfatti. Alla rinfusa…

(…)

PARTITANTE: Ecco Jose! Con Jose sì che la partita è equilibrata!

JOSE (in fretta) Io non gioco!

Così ha cantato la vicenda Mauro Carrero, in Giocare non giocare:

https://www.youtube.com/watch?v=IC7mcngObHw&list=PLxP1gA6oF0CGtSLiTE69c1h1udO8yVcAg&index=2

Dalla povertà delle Langhe a una villa raffinata, a Ferrara, in una famiglia ricca ed ebrea, ebrea nel momento sbagliato, cioè durante le persecuzioni razziali fasciste. Molto del romanzo di Giorgio Bassani (Bologna 1916-Roma 2000) Il giardino dei Finzi Contini ha a che fare col tennis, e anche Bassani fu un buon giocatore. Per tutta la vita seguì il tennis, ne scrisse anche, oltre che nel romanzo, in alcune poesie, quella che segue ha una metrica che pare proprio riprodurre una partita di tennis:

Negli spogliatoi del tennis

Quest'oggi_borbotta invisibile_è meglio di

no mi

riposo

Ma domani gioco però e

con

coso

Il tennis, dunque, anzi il campo da tennis, nel romanzo ha vari ruoli: a tennis gioca il protagonista ebreo di famiglia benestante, in cui c’è molto del Bassani ragazzo, a tennis giocano i ragazzi della famiglia ebrea ricchissima e infatti hanno un loro campo da tennis, separato dagli altri, nella villa, separata dal resto del mondo da un muro altissimo.

Questo muro verrà valicato, quando, curiosamente, si alzerà un muro ben più terribile a separare gli ebrei dagli italiani, cioè le leggi razziali del 1938.

Infatti la famiglia Finzi Contini apre le porte della sua casa, proprio in virtù del tennis, per accogliere tutti gli amici ebrei esclusi dalle società sportive a causa del fascismo.

Sboccerà anche l’amore: infatti il protagonista si innamora (non ricambiato) di Micòl, figlia dei Finzi Contini. Quando lui le dichiara il suo amore, lei risponde così, tirando in ballo il tennis, uno sport feroce, mai tuttavia come le schermaglie d’amore:

[...] l'amore (così almeno se lo figurava lei) era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, feroce, ben più crudele e feroce del tennis!, da praticarsi senza esclusioni di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d'animo ed onestà di propositi.

Anche Montale fu sensibile al tennis, secondo quanto scrive a Gianni Brera, scrittore e giornalista sportivo: “Caro Brera, di sport non so nulla, ma potendo vivere una seconda vita come sportivo, credo che avrei privilegiato il tennis, perché ha quel fascino, quell’eleganza, quelle movenze tipiche della danza. E poi non va dimenticato che io sono ligure e il primo club di tennis italiano è nato qui, a Bordighera, nel 1878”. Montale scrive di tennis in un poemetto del 1943, dunque in piena guerra; e la guerra, l’abbandono sono ovunque in questo brano:

Dov’era il tennis...

Dov'era una volta il tennis, nel piccolo rettangolo difeso dalla massicciata su cui dominano i pini selvatici, cresce ora la gramigna e raspano i conigli nelle ore di libera uscita.

Qui vennero un giorno a giocare due sorelle, due bianche farfalle, nelle prime ore del pomeriggio. Verso levante la vista era (è ancora) libera e le umide rocce del Corone maturano sempre l'uva forte per lo 'sciacchetrà'. E' curioso pensare che ognuno di noi ha un un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio, immutabile; è curioso che l'ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a scancellarsi. Ma quanto al resto? a conti fatti, chiedersi il come e perché della partita interrotta è come chiederselo della nubecola di valore che esce dal cargo arrembato, laggiù sulla linea della Palmaria. Fra poco s'accenderanno nel golfo le prime lampare. (…)

Nel 1975 torna nell’opera di Montale un campo, questa volta di ping pong: la poesia è Sul lago d’Orta; anche qui il campo segnala l’abbandono, la partita mai terminata, la partita deserta. La palla senza nessuno che la giochi che senso ha? Angoscia, solo angoscia.

Ma il tennis in sé è la bella testimonianza di qualcosa che fu e mai più sarà: così forse è stato per il campo della famiglia dei Finzi Contini. E insieme al campo da tennis Montale rivede le due ragazze che giocano a tennis, come bianche farfalle. Tanti oggetti abbandonati, un paesaggio che decade e due ragazze, solo nel ricordo.

Qui le ragazze giocano a tennis; anche in Guido Gozzano (Torino 1883-1916) ci sono due ragazze, si chiamano Speranza e Carlotta, e il poeta le fa giocare a volano.

Così il cerchio un po’ si chiude: da Nausicaa alla nonna di Gozzano, ragazze, una palla che rotola e sfugge al controllo, si porta via i giochi fanciulli, il futuro appare vicino e nel futuro appare l’amore.

La palla-destino, la palla-sogno:

Guido Gozzano, L’amica di nonna Speranza.

I.

Loreto impagliato ed il busto d’Alfieri, di Napoleone
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto),

il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col monito salve, ricordo, le noci di cocco,

(…)

Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta, è giunta in vacanza
la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta!

Ha diciassett’anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso:
da poco hanno avuto il permesso d’aggiungere un cerchio alla gonna,

il cerchio ampissimo increspa la gonna a rose turchine.
Più snella da la crinoline emerge la vita di vespa.

(…)

«Speranza!» (chinavansi piano, in tono un po’ sibillino)
«Carlotta! Scendete in giardino: andate a giocare al volano.»

Allora le amiche serene lasciavano con un perfetto
inchino di molto rispetto gli Zii molto dabbene.


IV.

Oimè! che giocando un volano, troppo respinto all’assalto,
non più ridiscese dall’alto dei rami d’un ippocastano!

S’inchinano sui balaustri le amiche e guardano il lago,
sognando l’amore presago nei loro bei sogni trilustri.

 

Il croquet, un esempio di palla da colpire

 

Louisa May Alcott (Filadelfia 1832-Boston 1888), Piccole donne

Alcuni ragazzi e ragazze inglesi vengono domani a vedermi e, come è naturale, tengo a farli divertire. Se il tempo è bello desidero piantare le mie tende a Pratolungo e trasportare la carovana lassù, in barca: giuocheremo al croquet, faremo colazione, accenderemo fuochi di gioia, faremo insomma tutto quel che si può immaginare di meglio per divertirci. (...)

— Oh che bellezza! — gridò Jo scendendo le scale a precipizio per annunziare la gran notizia a Meg (...)

La traversata non durò gran tempo ma, quando giunsero a Pratolungo, un bel prato verde con tre enormi querele nel mezzo ed una striscia di terra ben levigata per giuocare al «croquet», trovarono che la tenda era già stata impiantata ed i cerchi pel «croquet» messi già a posto.

(…) Ora, vogliamo fare una partita a «croquet» prima che faccia troppo caldo? Penseremo poi al pranzo. (…) Jo e Federico ebbero parecchi e piccole baruffe ed una volta furono sul punto d’inquietarsi davvero. Jo aveva passato l’ultimo cerchio ed aveva sbagliato il colpo, cosa che l’aveva alquanto seccata. Federico era quasi allo stesso punto e giuocava prima di lei: egli fece il suo tiro, la palla urtò contro il cerchio e si fermò un centimetro troppo indietro; nessuno era vicino, e, cogliendo la buona occasione, Federico dette col piede una piccola spinta alla palla in modo da mandarla un centimetro più avanti e farle passare il cerchio.

— Sono passato! Ora, signorina Jo, l’accomodo io, e vincerò la partita, — disse il signorino, preparandosi a tirare un altro colpo.

— Nossignore! Lei ha spinto la palla, l’ho visto io! Sta a me ora! — disse Jo con forza.

— Sul mio onore non l’ho mossa; può essere ruzzolata un tantino; ma è permesso: si tiri da parte, mi faccia il piacere, e mi lasci giuocare.

— In America non è uso di ingannare, ma mi accorgo che lei, da questo lato, non è americano! — disse Jo furiosa.

— Tutti sanno che gli Americani sono molto più furbi ed ingannatori! A lei! — rispose Federico crochettando la palla di Jo e mandandola a ruzzolare il più lontano possibile.

(...) Jo andò in cerca della sua palla, stette un bel pezzo tra le piante a cercarla, ma quando ritornò era quieta e tranquilla ed attese con pazienza il suo turno.

(...)

— Per Bacco! Siamo fritti! Addio Caterina! La signorina Jo mi deve una rivincita; siamo bell’e andati! — gridò Federico con grande eccitamento mentre tutti si avvicinavano per vedere la fine.

— Gli Americani hanno il dono di essere generosi con i loro avversarî — disse Jo, con uno sguardo che fece arrossire Federico specialmente quando li vincono, — aggiunse e, lasciando intatta la palla di Caterina, vinse il giuoco con un magnifico colpo.

E la ragazza Jo vince: sulla frode (spesso si bara nel gioco), su stessa e sul proprio carattere, sul pregiudizio altrui perché è femmina e perché è un maschiaccio, vince perché è brava. Vince perché è una lezione che gli Stati Uniti danno all’Inghilterra. Il gioco si fa patriottico, la palla quasi sempre lo è, anche se il croquet gli americani lo hanno importato dall’Inghilterra.

Insomma una palla che rotola di chi è davvero? Appartiene a qualcuno più che ad altri?

 

A proposito di palle da colpire e con cui colpire: le bocce

 

Finiamo il nostro rotolare con una palla lenta e greve, l’opposto dell’idea lieve di palla, anche se pur sempre di un tipo di palla si tratta: parliamo di bocce, e lo facciamo con Giorgio Caproni (Livorno 1912 -Roma 1990) che spesso nelle sue poesie evoca gare di bocce, campi vicini a osterie e “vecchi e tetri giocatori di bocce:

Forse qui è l’urto… Ma no!

allo Zerbino
alto sopra le carceri, nel grigio
fiato di tramontana ora un bambino
corre ancora di piume – porta il viso
ad un palmo dai vetri, e se scompare
nel colpo che di tenebra riannera
l’aria, fra le rovine d’aria appare
dei genovesi in raduno la nera
mutria – la gara a bocce che il fragore
ai lentissimi passi placa, e in rima
i colpi delle bocce col nitore
entro l’arca di colpe chiude.

Con questa palla che rallenta, ma non si ferma chiudiamo e ci scusiamo con pallacanestro, pallavolo, pallanuoto, pallamano, biliardo, rugby ecc. per non averli mai citati. In futuro forse, chissà.

Resta una domanda: come è possibile che tanta letteratura, tanta poesia siano state dedicate a una cosa come la palla e il gioco con la palla?

Facciamo rispondere al poeta francese François Rabelais (1494- 1553); così scrive nel capitolo LVIII del suo vasto romanzo Gargantua e Pantagruel; capitolo che riportiamo per intero, invitando chi legge a risolvere l’enigma, la temibile profezia che contiene:

Enigma trovato nei fondamenti dell'abbazia dei Telemiti.

Poveri umani, che felicità aspettate,

In alto i cuori, le mie parole ascoltate.

Se è permesso di credere fermamente

Che dagli astri del ciel l'umana mente

Possa congetturar cose venture,

O se è possibil per divinazione

Aver conoscenza della sorte futura,

Tanto da poter annunciare con discorso certo

Il destino e il corso degli anni lontani,

Io fo sapere a chi lo vuole intendere

Che il prossimo inverno senza oltre attendere

E anche prima, qui, dove siamo,

Uscirà una maniera d'uomini

Stanchi di riposo, insofferenti di quiete

Che andranno francamente, di pieno giorno

A subornare gente d'ogni qualità

Incitandola alle fazioni e al parteggiare.

E chi presterà loro fede e ascolto,

(Checché ne segua o costi)

Indurranno a liti manifeste:

Persino gli amici tra loro e i prossimi parenti:

Il figlio, ardito, non temerà lo scandalo

Di schierarsi contro il suo stesso padre;

Anche i grandi di nobile lignaggio

Si vedranno assaliti dai loro sudditi

E il dovere d'onore e riverenza

Non terrà più conto di distinzioni e differenze di grado,

Poiché diranno che ciascuno a sua volta

Deve salire in alto e poi discendere.

E per questa vicenda vi saranno tante mischie,

Tante discordie e andate e venute,

Che nessuna istoria, dove sono le grandi meraviglie,

Ha raccontato simili commovimenti.

Allora si vedranno molti uomini valorosi

Per stimolo e calor di giovinezza,

Per troppo abbandonarsi alle fervide brame,

Morire in fiore e vivere ben poco.

E nessuno potrà lasciar l'impresa,

Una volta che l'abbia presa a cuore,

Senza aver riempito, per dispute e contese,

Di grida il cielo, di passi la terra.

Allora uomini senza fede non avranno

Minore autorità di quelli che professano verità,

Poiché tutti seguiranno l'avviso e le passioni

Dell'ignorante e sciocca moltitudine,

E il più balordo sarà assunto giudice.

Oh dannoso e penoso diluvio!

Diluvio, dico, a buon diritto,

Poiché questo travaglio non cesserà

E non ne sarà liberata la terra.

Fintanto che non sgorghino rapide

Acque improvvise, onde anche i più tardi

Nel combattere, saranno colti e inzuppati;

E giustamente, giacché il loro cuore,

Assorto in questo combattimento, non avrà risparmiato

Neanche i greggi delle bestie innocue;

E i nervi loro e le loro vili budelle

Saranno usate non già pel sacrificio degli Dei,

Ma pei comuni servigi dei mortali.

Ora io vi lascio pensare intanto

Come procederà tutto questo parapiglia

E qual riposo, in lotta sì profonda,

Avrà il corpo della macchina rotonda.

I più fortunati, quelli che più la terranno,

Meno degli altri si asterranno dal guastarla e rovinarla

E in mille modi procureranno

Di asservirsela e tenerla prigioniera

In luogo tale, che la poveretta, disfatta,

Non troverà riparo se non da colui che l'ha fatta.

E, ciò ch'è peggio, nella sua disgrazia

Il chiaro sole, anche prima di giungere all'occaso

Lascierà cadere l'oscurità su lei

Più che di ecclissi o di notte naturale,

Onde perderà a un tratto e libertà

E il favore e la luce dell'alto cielo,

O per lo meno resterà abbandonata.

Ma prima di questa rovina

Essa avrà subito a lungo, ostensibilmente,

Un violento e sì grande sussulto

Che non più agitato fu l'Etna quando

Fu lanciato sopra un figlio di Titano

Né più improvviso dev'essere stimato

Il movimento che fece Inarime

Quando Tifeo sì forte s'irritò

Che i monti in mar precipitò.

Così sarà in breve ridotta

In triste stato e sì spesso cambiata,

Che anche quelli che la tenevano,

La lasceranno occupare ai sopraggiunti

S'avvicinerà allora il momento buono e propizio

Di por fine a sì lungo esercizio,

Che le grandi acque di che udiste parlare,

Fanno sì che ciascuno pensi alla ritirata.

Ma tuttavia prima di partirsi

Si potrà veder nell'aria apertamente

L'aspro calor di una gran fiamma accesa

Per metter fine all'acque ed all'impresa

Al termine di tutte queste peripezie

Resterà che gli eletti, lietamente ristorati

Di tutti i beni e di celeste manna,

Saranno per giunta arricchiti d'onesta ricompensa,

E gli altri alla fine saranno immiseriti.

Così è giusto sia, affinché cessato il travaglio

Tocchi a ciascuno la sua sorte predestinata

Tale era l'accordo. Oh quanto è da onorare

Colui che fino all'ultimo poté perseverare!

 

Finita la lettura del documento, Gargantua sospirò profondamente e disse ai presenti:

— Non è da ora che i seguaci della credenza evangelica sono perseguitati; ma ben felice colui che non sarà scandalizzato e tenderà sempre al fine che Dio,mediante il suo caro Figliuolo, ci ha prefisso, senza essere distratto, né deviato da passioni carnali.

— Che cosa pensate voi nel vostro intelletto, disse il monaco, che indichi e significhi questo enigma?

— Che significa? disse Gargantua: il corso e il trionfo della verità divina.

— Per San Goderano! disse iI monaco, la mia interpretazione non corrisponde alla vostra: questo è lo stile di Merlino il Profeta. Trovateci le allegorie e le gravi significazioni che vi piaccia e scervellatevi voi e tutto il mondo fin che vorrete. Per mio conto non ci vedo altro senso che una descrizione, sotto oscure parole, del gioco del pallone.

I subornati non sono che i giocatori delle partite che sono generalmente amici; dopo fatte le due cacce esce dal gioco colui che c'era e vi entra un altro; colui che primo dice se la palla è sopra o sotto la corda è creduto. Le acque sono il sudore, le corde delle rachette sono fatte di budelle di pecora o di capra; la macchina rotonda è la palla o pallone. Dopo il gioco si ristorano davanti a un bel fuoco, si cambiano la camicia e si banchetta volentieri; ma più allegramente quelli che hanno vinto.

E allegria!

Così finisce il primo volume del romanzo.

La palla è il mondo, il gioco simula la vita, addirittura la spiega. La palla è la vita.

Fine del percorso o forse no: purché nessuno abbia poi esclamato “e che palle!”: detto che attiene più all’anatomia che al gioco.

 

Pubblicato il 14/02/2019

 

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Pubblicato il 26 febbraio 2019