Di cosa ha paura il poeta?/ Perché il poeta fa paura?/
“Poiché io sono a favore della paura. O meglio, certe paure – quelle non meschine e radicate così a fondo da essere inestirpabili – hanno costituito la mia più incomprensibile realtà. L'illogicità delle mie paure mi ha incantata, mi conferisce un'aura che addirittura mi imbarazza. A malapena riesco a nascondere, sotto una sorridente modestia, la mia grande capacità di sprofondare nelle paure”
(Clarice Lispector)
Il titolo del percorso è volutamente ambiguo, con la preposizione “del” polisemica, e la polisemia è tratto tipico della poesia, forse anche un tratto che può far paura.
Il poeta ha paura, ha delle paure. Ma il poeta, anche se pare strano, fa paura. Qualcuno ha paura del poeta.
Queste sono le due parti del percorso, che si snoda attraverso la poesia dal Novecento a oggi, con due sole eccezioni (Giacomo Leopardi ed Emily Dickinson), che anticipano alcuni temi legati alla paura che prova il poeta. I poeti citati sono maschi, femmine, sono di tutti i paesi del mondo, di tutte le lingue e religioni. Il loro tratto comune è appunto essere poeti. Non c'è limite geografico a questo viaggio.
Di cosa ha paura il poeta?
È del tutto ovvio che il poeta ha le paure di tutti, paure umane, generali.
Il punto è chiedersi se ci sono paure tipiche del poeta e dell'artista. Paure cioè legate all'essere poeta, un po' come il pianista che ha paura per le sue mani (e fors'anche il chirurgo). Ma la situazione del poeta è ancora più sottile; più difficile, infatti, è individuare paure proprie del fare poesia. Eppure ci sono.
Come s'è scritto il poeta ha le paure di tutti: eccole elencate da Raymond Carver, in una sorta di giaculatoria, di lamentazione, che fa dell'anafora la chiave portante stilistica. Immagino che ognuno di noi vi si ritrovi; la sorpresa, tutta poetica, è nella ripetizione di una paura. E forse dirla due volte ci fa capire che proprio quella è la paura per eccellenza, la vera paura, la madre e la sorgente di ogni nostra paura. È giusto che questo viaggio si apra così.
Paura
Paura di vedere la macchina della polizia fermarsi davanti casa.
Paura di addormentarsi la notte.
Paura di non addormentarsi.
Paura del ritorno del passato.
Paura del presente che fugge.
Paura del telefono che squilla nel cuore della notte.
Paura delle tempeste elettriche.
Paura della signora delle pulizie con un neo sul viso!
Paura dei cani che mi hanno detto che non mordono.
Paura dell'ansia!
Paura di dover identificare il cadavere di un amico.
Paura di finire i soldi.
Paura di averne troppi, anche se a questo non ci crederanno mai.
Paura dei risultati dei test psicologici.
Paura di essere in ritardo e paura di arrivare prima degli altri.
Paura della calligrafia dei miei figli sulle buste.
Paura che muoiano prima di me e che mi sentirò in colpa.
Paura di dover vivere con mia madre anziana, anziano anch'io.
Paura della confusione.
Paura che questo giorno finisca su una brutta nota.
Paura di svegliarmi e scoprire che te ne sei andata.
Paura di non amare o di non amare abbastanza.
Paura che quel che amo risulterà letale per quelli che amo.
Paura della morte.
Paura di vivere troppo.
Paura della morte.
L'ho già detta.
Forse la paura più tipica del poeta è l'incubo che ci racconta la poetessa polacca Wislawa Szymborska.
L'orribile sogno del poeta
Immagina un po' che cosa ho sognato.
All'apparenza tutto è propriamente come da noi.
La terra sotto i piedi, acqua, fuoco, aria, verticale, orizzontale, triangolo, cerchio, lato sinistro e destro.
Tempo passabile, paesaggi non male e parecchi esseri dotati di linguaggio.
Però il loro linguaggio non è quello della Terra.
Nelle frasi domina il modo incondizionale.
I nomi aderiscono strettamente alle cose.
Nulla da aggiungere, togliere, cambiare e spostare.
Il tempo è sempre quello dell'orologio.
Passato e futuro hanno un ambito stretto.
Per i ricordi il singolo secondo passato, per le previsioni un altro, che sta appunto cominciando.
Parole quante è necessario. Mai una di troppo, e questo significa che non c'è poesia, e non c'è filosofia, e
non c'è religione.
Là simili trastulli sono inammissibili.
Niente che si possa anche solo pensare o vedere a occhi chiusi.
Se si cerca, è quel che già si vede lì accanto.
Se si chiede, è quello a cui c'è risposta.
Si stupirebbero molto, se sapessero stupirsi dell'esistenza chissà dove di motivi di stupore.
Il vocabolo "inquietudine", da loro ritenuto triviale,
non avrebbe il coraggio di comparire nel dizionario.
Il mondo si presenta in modo chiaro anche nel buio profondo.
A ciascuno egli si dà a un prezzo accessibile.
E nessuno pretende il resto alla cassa.
Dei sentimenti - la soddisfazione. E niente parentesi.
La vita con un punto al piede. E il rombo delle galassie.
Ammetti che nulla di peggio può capitare al poeta.
E poi nulla di meglio che svegliarsi in fretta.
É la paura di finire in un mondo senza immaginazione. Un mondo senza ambiguità (e l'opacità del linguaggio è una caratteristica della poesia), un mondo dove non ci sia spazio per la metafora, per tutte le figure retoriche che danno vita alla poesia. Un mondo dove la parola coincida sempre perfettamente con la cosa.
Forse appunto questa è la più grande e profonda paura del poeta: un mondo dove la parola sia sempre e solo quello che dice, null'altro. La parola senza sfumature, il mondo senza sfumature. La morte della poesia.
Un mondo in cui unico sentimento sia la soddisfazione, cioè la sazietà, cioè l'assenza di desiderio e dunque di stupore.
Nel dire l'incubo del poeta la Szymborska traccia un manifesto di poetica, anzi indica alcune delle caratteristiche intrinseche di ogni poesia. La poesia non è soddisfazione, mai! È piuttosto fame.
Nel mondo “altro” che è la poesia, altro rispetto al mondo “ordinario” e quotidiano, qualcuno, come la Szymborska vuole tornare, svegliandosi dall'incubo, qualcuno invece fatica a stare senza sentirsi in conflitto rispetto all'esistenza di tutti gli altri. Il poeta è sempre stato percepito come diverso dall'uomo “normale”, per questa sua diversità è stato ammirato e onorato nei secoli passati, ma tra Ottocento e Novecento subisce un mutamento di status. Essere diversi crea molti problemi. Si determinano così, di fronte alla paura dell'essere inadeguati alla vita, due atteggiamenti.
Uno è la ribellione, se il poeta viene deriso, il poeta si ribella alla mediocrità crudele di chi non lo comprende, si ribella alle convenzioni, vive una vita sull'orlo, al limite delle regole scritte e non scritte di ogni “buona” società.
L'Albatros
Spesso, per divertirsi, uomini d’equipaggio
catturano degli albatri, vasti uccelli dei mari,
che seguono, compagni indolenti di viaggio,
il solco della nave sopra gli abissi amari.
Li hanno appena posati sopra i legni dei ponti,
ed ecco quei sovrani dell’azzurro, impacciati,
le bianche e grandi ali ora penosamente
come fossero remi strascinare affannati.
L’alato viaggiatore com’è maldestro e fiacco,
lui prima così bello com’è ridicolo ora!
C’è uno che gli afferra con una pipa il becco,
c’è un altro che mima lo storpio che non vola.
Al principe dei nembi il Poeta somiglia.
Abita la tempesta e dell’arciere ride,
esule sulla terra, in mezzo a ostili grida,
con l’ali da gigante nel cammino s’impiglia.
Albatros
Souvent pour s'amuser, les hommes d'équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.
À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d'eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!
L'un agace son bec avec un brûle-gueule,
L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!
Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l'empêchent de marcher.
L'Albatros di Charles Baudelaire è l'emblema del poeta. La poesia è famosissima, non resta che leggerla. Letta, se possibile, in francese mantiene un suono particolare grazie anche alle rime alternate. Si può notare l'uso di un ritmo spezzato, coi punti esclamativi, quasi un singhiozzo sul povero uccello deriso in contrasto col ritmo alato, ampio dei versi in cui l'albatros è descritto librarsi nel cielo.
La chiave è nella similitudine esplicita che Baudelaire fa alla fine fra la figura del poeta e l'albatros, magnifico nel cielo della poesia, anzi nella tempesta che è il suo ambiente naturale, dato che ci “abita”, e ridicolo sulla terra. Non più un passero solitario, con cui il poeta si confronta e si consola, ma un povero uccello di cui la ciurma si fa beffe. Il poeta sulla terra, che somiglia all'incubo della Szymborska, è un esule. Importante è il tema dell'esilio che tornerà nella seconda parte di questo percorso.
L'esilio... infatti qualcuno non si ribella se non andandosene via e scegliendo di non essere più.
Accade dunque, e spesso si tratta di donne, che l'inadeguatezza a certi modelli: di madre o di moglie, porti il poeta alla morte. Le poetesse si suicidano, come ha fatto Sylvia Plath.
L'ha fatto per essere perfetta, per essere una madre degna, una degna moglie, una donna “convenzionale”. Compiuta. L'ha fatto perché la sua intima natura di poeta le impediva il conformismo e lei non ha retto questo conflitto.
Tutto questo lei l'ha detto e messo per iscritto sei giorni prima di morire, nella poesia “Edge”, “Limite”.
Limite
La donna ora è perfetta.
Il suo corpo
morto indossa il sorriso della compiutezza,
l'illusione di una necessità greca
fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi
nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.
I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,
presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti
di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino
s'irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.
La luna, spettatrice nel suo cappuccio d'osso,
non ha motivo di essere triste.
È abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.
Edge
The woman is perfected.
Her dead
Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity
Flows in the scrolls of her toga,
Her bare
Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.
Each dead child coiled, a white serpent,
One at each little
Pitcher of milk, now empty.
She has folded
Them back into her body as petals
Of a rose close when the garden
Stiffens and odors bleed
From the sweet, deep throats of the night flower.
The moon has nothing to be sad about,
Staring from her hood of bone.
She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag.
Sulla donna morta “Il sorriso della compiutezza” (the smile of accomplishment) è terribile, i figli sono bianchi serpenti, la donna non ha più nutrimento né per sé né per loro e la luna, la romantica luna dei poeti, figura femminile per eccellenza, indossa un cappuccio d'osso.
Anche in questo caso, se possibile, conviene leggere il testo in inglese. In particolare si noterebbero le assonanze dure e lo stridere dell'ultimo verso: Her blacks crackle and drag. Forse l'ultimo verso scritto dalla Plath.
Il poeta, è opinione comune, oltre a essere strano, ha una sensibilità anomala. Troppa, troppo mal riposta? Di questa sensibilità, che certo è particolare, talvolta il poeta ha paura. Teme di sentire troppo e vorrebbe non sentire; come scrive Fernando Pessoa:
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E ancora:
Ho sentito troppo per poter continuare a sentire.
Mi si è esaurita l’anima. È rimasta solo l'eco dentro di me.
Eppure forse anche per Pessoa la grande paura è di sentire meno o, orrore!, di sentire come tutti gli altri. E molto bene lo dice un poeta davvero considerato scandaloso, e dunque diverso dagli altri, Charles Bukowski.
Auto-invitati
E va bene, mettimi le mutande al contrario, telefona in Cina,
fai volar via gli uccelli,
compra un quadro di una colomba rossa e ricordati
di Herbert Hoover.
quel che cerco di dire è che 6 delle ultime
8 sere abbiamo avuto ospiti, tutti auto-invitati,
e come dice mia moglie:"non vogliamo farli restar male".
sicchè ci sediamo e li ascoltiamo, certuni famosi
e certuni mica tanto, certuni piuttosto svegli
e divertenti, certuni mica tanto
ma finisce tutto in chiacchiera, chiacchiera, chiacchiera,
parole, parole, parole, un garbato mulinello di suoni
che rivela innanzi tutto solitudine: in un modo o nell'altro
chiedono tutti di essere accettati,
di essere ascoltati, e ciò è comprensibile,
ma io sono uno di quelli che preferirebbe
starsene tranquillo a casa con la moglie e i suoi 6 gatti
(o di sopra da solo a fare niente).
l'impressione è che sia un egoista
e mi senta sminuito dalla gente
ma non ho l'impressione che loro
si sentano vuoti, ho l'impressione
che li diletti il movimento
delle loro bocche.
e quando se ne vanno quasi tutti accennano
a un'altra visitina.
mia moglie è carina, li saluta con calore,
ha un cuore d'oro, così d'oro che quando, che so,
andiamo al ristorante e scegliamo un tavolo
lei prende il posto da cui si può "veder la gente"
e io quello da cui non è possibile.
d'accordo, sono un figlio del demonio;
l'intera umanità mi annoia e no, non è
paura, sebbene qualcosa in loro mi spaventi,
e non è invidia perché non voglio nulla
di ciò che loro vogliono, è solo che
in tutte quelle ore di
parole parole parole
non sento niente di davvero buono coraggioso o nobile,
e che valga un briciolo del tempo in cui mi hanno impallinato
le cervella.
Te lo ricordi quando avevi l'abitudine di buttarli fuori
dalla porta invece di fargli scaricar le batterie
sui tuoi divani,
quei tipi malinconici sempre a caccia di compagnia,
e ti vergogni di te stesso per esserti arreso
alle loro insane fesserie
ma altrimenti tua moglie direbbe:
"pensi di essere forse l'unico essere umano
sulla terra?"
Vedete, ecco come il diavolo
mi acchiappa.
Perciò io ascolto e loro si sentiranno
realizzati.
Sì, ho sentito la paura, la paura di diventare come loro.
La paura di essere e sentire come tutti, non impedisce al poeta di aver paura proprio di se stesso, delle sue pulsioni, fino ad aver paura anche della sua stessa paura.
La paura di essere tutto, perché si sente di poter essere tutto, può portare a temere la follia, l'assenza di confini si sente anche fisicamente. L'esito del panico talvolta è proprio l'incontro con Dio. La poesia sconfina nella mistica. Così scrivevo in una mia poesia, senza sapere altro in quel momento se non la mia paura.
Paura fine a se stessa, paura
da coltivare: fiore velenoso.
Paura che difende dalla paura.
Paura della follia. Cedono
i contorni così non si può vivere.
Così io non posso vivere.
Essere vento, notte, cielo, terra,
tutto e tutti senza confini. Entrare
nella paura per incontrare
le viscere, convulse dal terrore.
Terrore delle viscere: essere sparse
senza pareti, senza vasi sanguigni,
senza le ossa, la pelle che le contenga.
Entrare nella paura
per incontrarvi Dio.
Con quale sfrontatezza
divina mi dirai:
non avere paura?
Anche in Antonia Pozzi torna il tema della follia. Ma la Pozzi nella poesia che si intitola proprio “Paura”, scritta nel 1932, raccoglie ed elenca tutti i miti, tutti i simboli della paura: il colore scuro, la follia, appunto, e poi la notte abitata dagli spettri e il peso dei cieli e gli agguati. In mezzo, la poetessa, la sua paura e un fiore, un colchico, che però è velenoso e non conosce antidoto. Come il fiore della paura.
Paura
Nuda come uno sterpo
nella piana notturna
con occhi di folle scavi l'ombra
per contare gli agguati.
Come un colchico lungo
con la tua corolla violacea di spettri
tremi
sotto il peso nero dei cieli.
La paura di se stessi, di essere come si è, si accompagna a una paura opposta: quella di perdersi, di non essere più se stessi, come scrive la poetessa Donatella Bisutti. Anche la sua poesia si intitola “Paura”.
Non della morte, ma
della metamorfosi
- accettare di privarsi di sé
come acqua che si lasci versare
e prende forma da ciò che la contiene
e corre via - e l'assorbe la terra
ed è e non è più - senza pena, forse
eppure non va persa.
Lenta, arrischiata
ogni cosa matura
per un attimo
di colma beatitudine
poi trabocca
come l'acqua di un vaso
fugge la pienezza.
Nell'acqua che sfugge la pienezza c'è un'eco della “soddisfazione”, unico sentimento nel mondo-incubo di cui scriveva la Szymborska.
Il ritmo della poesia spezzato e al tempo stesso liquido (grazie ai numerosi enjambement), nella seconda parte arriva al climax della colma beatitudine, che però fa paura, perché la poesia non esiste dove c'è pienezza e sazietà.
Proprio per sfuggire a categorie predefinite, Aldo Palazzeschi rivendica la paura di essere preso troppo sul serio. Nella sua poesia, la follia acquista un significato liberatorio. La paura qui è di essere troppo seri, non il contrario.
Anche in questo caso Palazzeschi ci dice cosa è per lui la poesia: follia, ma anche malinconia e nostalgia. Il poeta non si prende sul serio, ma seria è la poesia che tratta di un tema non da poco: l'anima del poeta.
Chi sono?
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell'anima mia:
"follia".
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell'anima mia:
"malinconia".
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c'è che una nota
nella tastiera dell'anima mia:
"nostalgia".
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell'anima mia.
Anche Umberto Saba scrive una poesia che si intitola
Paura.
Nel mio cuor dubitoso
sento bene una voce che mi dice:
“Veramente potresti essere felice.”
Lo potrei, ma non oso.
Il poeta esprime una paura che, forse, tutti ci attraversa, la paura di essere felici, ci vuole coraggio a essere felici. La metrica e la rima sono importanti: l'assenza di coraggio sta nei settenari, che rimano fra loro. Il pensiero ampio della felicità invece ha la misura dell'endecasillabo.
Ci vuole coraggio anche a essere fragili e a esporsi all'amore. Speculare alla paura di Saba quindi ecco il coraggio, l'invito a non aver paura di Nicoletta Bidoia.
Non aver paura
Non aver paura
di essere un fiore fragile
– lo siamo tutti
prima che smetta
la tempesta.
Tu non lo sai
ma quando ami
regali brividi alla terra.
Queste due poesie apparentemente piccole, semplici ci portano invece direttamente alla paura indefinita, la paura di non si sa cosa, la paura dell'infinito sentire e vedere e comprendere. Ha aperto la strada a questa paura il brivido dell'infinito (ove per poco il cor non si spaura) di Giacomo Leopardi, che resta imprescindibile.
L'infinito
(...)
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura.
Ecco le parole di Pablo Neruda, che fin dal titolo confessa:
Ho paura.
Ho paura. La sera è grigia e la tristezza
del cielo si apre come una bocca di morto.
Il mio cuore ha un pianto di principessa
dimenticata nel fondo di un palazzo deserto.
Ho paura. E mi sento cosi piccolo e stanco
che rifletto la sera senza meditare su lei.
(Nella mia testa malata non deve entrare un sogno
cosi come nel cielo non è entrata una stella).
Tuttavia nei miei occhi una domanda esiste
e c’è un grido nella mia bocca che la mia bocca non grida.
Non v’è orecchio sulla terra che oda il mio lamento triste
abbandonato in mezzo alla terra infinita!
L’universo muore d’una calma agonia
senza la festa del sole o il crepuscolo verde.
Agonizza Saturno come una pena mia,
la terra è un frutto nero che il cielo morde.
Per la vastità del vuoto vanno cieche
le nubi della sera, come barche perdute
che nascondessero stelle spezzate nelle loro stive.
E la morte del mondo cade sopra la mia vita.
La paura dell'infinito è nel poeta l'essere lui stesso questo infinito: “Agonizza Saturno come una pena mia”, ”E la morte del mondo cade sopra la mia vita”.
È la bella paura dell'infinito che fa unico il poeta.
Compare anche in Eugenio Montale, perché il poeta vede, coglie i segreti dell'esistenza, vede il vuoto, il nulla, lo sente con “terrore da ubriaco”. Lui e lui solo sa queste cose, va oltre l'apparenza, l'inganno consueto. La paura squarcia il velo e il poeta, che pure sa, se ne va zitto. Ma fino a un certo punto, perché poi scrive una poesia...
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
“Tra gli uomini che non si voltano” mentre il poeta si volge e forse qui c'è un'eco del primo poeta che s'è girato (perdendo così la sua amata Euridice, ma non la poesia): Orfeo!
Se la poesia apre a questi segreti, anche la poesia stessa fa paura, e chissà se non è sempre un po' così per tutti coloro che scrivono versi. Certo lo è per Alda Merini.
O poesia, non venirmi addosso
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
poesia, non schiacciarmi
l'insetto è alacre e insonne,
scalpita dentro la rete,
poesia, ho tanta paura,
non saltarmi addosso, ti prego.
La paura della poesia è insieme la paura di essere poeti, di avere questo peso e questo privilegio.
Bene lo anticipa già nel 1800 Emily Dickinson.
Non conosciamo mai la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
Arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
Sarebbe quotidiano, se noi stessi
Non c’incurvassimo di cubiti
Per la paura di essere dei re
La paura di essere re, forse la Dickinson non si riferiva solo al poeta, ma lei è un poeta, l'eroismo è anche il suo. L'essere re del poeta è nel vedere le cose in un modo diverso. Qualcuno continua a sapere che chi scrive poesie ha questo potere ed è per questo motivo che il poeta incute paura.
Perché la parola fa paura. Si ha paura del poeta perché ha il coraggio della parola: un coraggio innato, quasi fatale non cercato. Lo dice bene Patrizia Cavalli.
Io so qual è la parola giusta
Io lo so e tu non lo sai
non lo sai perché hai paura
io lo so perché ho il coraggio.
Non è mio questo coraggio
però è mio quando ce l'ho.
Che un essere disarmato, inoffensivo come il poeta faccia paura al potere può parere strano solo a chi non legge la poesia. Ma la storia ci dice che da Garcìa Lorca, ucciso nel 1936 durante la Guerra di Spagna dai fascisti del dittatore Francisco Franco, in poi, il Novecento fino ai nostri giorni è costellato da poeti uccisi, imprigionati, esiliati dalle dittature. E per le donne è anche peggio, perché si aggiunge spesso l'oppressione familiare.
Un esempio terribile di questa condizione è la storia di Nadia Anjuman, una poetessa afgana massacrata di botte dal marito, quando aveva appena 25 anni, una bimba di 6 mesi e un libro finalmente pubblicato.
Nadia non è l'unico caso, sotto il regime dei Talebani, le donne non potevano fare nulla, se non cucire. E così Nadia entra a far parte del “Circolo di cucito Ago d'Oro” di Herat, dove non si tessevano però abiti, ma discorsi letterari e versi e poesie. Se fossero state scoperte queste donne avrebbero rischiato la morte per impiccagione.
Una delle scrittrici che frequentava il circolo, disse: "La vita delle donne sotto i Talebani era la vita di mucche nella stalla. Avevo paura di diventarlo sul serio".
Nadia sentiva l'imperio della poesia, non poteva fare a meno di scrivere versi, così diceva parlando di sé: “Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia”. Dopo essere sopravvissuta con la sua poesia ai Talebani, nel 2005 è stata uccisa dal marito, un professore subito riabilitato.
Le sue poesie fanno paura al potere, politico e familiare, tribale anzi, perché dicono la condizione delle donne e la forza che comunque emana da loro e dalla poesia. La poesia da la forza di resistere e il coraggio di ribellarsi.
Infatti nella lirica che segue c'è già la condanna di Nadia, il motivo per cui è stata uccisa:
“Perché ogni istante bisbiglio le/canzoni del mio cuore/Ricordando a me stessa il giorno in/cui romperò la gabbia”.
Nessun desiderio per aprire la mia bocca
Nessun desiderio per aprire la mia
bocca.
Che cosa dovrei cantare?
Io, che sono odiata dalla vita.
Non c’è nessuna differenza
tra cantare e non cantare.
Perché dovrei parlare di dolcezza?
Quando sento l’amarezza.
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Non c’è nessuna differenza tra
parlare, ridere,
morire, esistere.
Soltanto io e la mia forzata solitudine
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
La mia bocca dovrebbe essere
sigillata.
Oh, il mio cuore, lo sapete, è la
sorgente.
E il tempo per celebrare.
Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?
Che non mi permette di volare.
Sono stata silenziosa troppo a lungo.
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché ogni istante bisbiglio le
canzoni del mio cuore
Ricordando a me stessa il giorno in
cui romperò la gabbia
Per volare via da questa solitudine
e cantare come una persona
malinconica.
Io non sono un debole pioppo
scosso dal vento.
Io sono una donna afgana.
E la sensibilità mi porta a
lamentarmi.
Interessanti per capire che armi abbia a disposizione il poeta sono i motivi per cui viene incarcerato o condannato a morte o esiliato.
Un motivo è la sua “inutilità”, rivendicata tra l'altro da Eugenio Montale nel suo discorso quando gli diedero il Nobel: “In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”.
Un esempio dello scandalo del poeta inutile, un vero parassita della società è il Premio Nobel per la poesia Josif Brodskj.
Prima di leggere qualcuno dei suoi versi è interessante conoscere alcuni passi del suo processo. Siamo nel 1964 nella Russia sovietica , nel periodo della Guerra fredda.
La paura che incute il poeta è infatti trasversale: colpisce ogni totalitarismo e ogni fanatismo! Anzi anche ogni conformismo.
Il breve interrogatorio di Brodskij in udienza divenne famoso grazie agli appunti, trascritti dalla Vigdorova amica del poeta, esportati di contrabbando e stampati su parecchi giornali in Occidente:
GIUDICE: Di che cosa si occupa?
BRODSKIJ: Scrivo poesia. Traduco. Suppongo…
GIUDICE: Niente “suppongo”. Si alzi dritto in piedi! Non si appoggi alla parete! Guardi la corte! Risponda alla corte correttamente! Ha un lavoro fisso?
BRODSKIJ: Pensavo che fosse un lavoro fisso.
GIUDICE: Risponda precisamente!
BRODSKIJ: Scrivevo poesia. E pensavo che fosse stata stampata. Suppongo…
GIUDICE: Non siamo interessati in quello che “suppone”. Risponda per quale ragione non ha lavorato.
BRODSKIJ: Ho lavorato. Ho scritto poesia.
GIUDICE: Per quanto tempo ha lavorato?
BRODSKIJ: Approssimativamente…
GIUDICE: Non siamo interessati all’approssimativamente!
BRODSKIJ: Cinque anni.
GIUDICE: Dove ha lavorato?
BRODSKIJ: In una fabbrica. Con un gruppo geologico…
GIUDICE: Quanto tempo ha lavorato nella fabbrica?
BRODSKIJ :Un anno.
GIUDICE: Facendo che cosa?
BRODSKIJ: Ero fresatore.
GIUDICE: Ma in genere quale è la sua specialità?
BRODSKIJ: Sono un poeta, un poeta-traduttore.
GIUDICE: E chi le ha detto che lei è un poeta? Chi l’ha incluso nell’ordine dei poeti?
BRODSKIJ: Nessuno. (Non sollecitato) E chi mi ha incluso nell’ordine della razza umana?
GIUDICE: Lo ha studiato?
BRODSKIJ: Che cosa?
GIUDICE: Essere un poeta? Non ha finito la scuola dove preparano… dove insegnano…
BRODSKIJ: Penso che non si può ottenere dalla scuola.
GIUDICE: Come allora?
BRODSKIJ: Penso che… (disorientato) venga da Dio…
GIUDICE: Аvete richieste?
BRODSKIJ: Vorrei sapere perché mi hanno arrestato
GIUDICE: Questa è una domanda non una richiesta
BRODSKIJ: Allora non ho richieste
Brodskij fu condannato al massimo della pena prevista per il reato di parassitismo: 5 anni di lavori forzati in esilio. Ma l'esilio, luogo d'elezione del poeta come Baudelaire scrive nell'Albatros, per Brodskji è il periodo più felice della sua vita, quello in cui può dedicarsi a studiare e scrivere.
La farfalla
VIII
Non mi risponderai,
e non per timidezza
o per ostilità
nei miei confronti
e non perché sei morta.
Viva, morta... ma
a tutte le creature del Signore
in segno di affinità
per conversare, per cantare
la voce è data in dono:
per prolungare l'attimo,
ed il minuto, il giorno.
IX
E invece tu,
tu non hai questo pegno.
A rigore però
così è meglio:
meglio che con i cieli
essere in debito.
Non affliggerti, se
la tua vita, il tuo peso
son privi di parola:
è un fardello anche il suono.
Sei più incarnale
del tempo tu, più muta.
XI
Così la penna va
sopra la carta liscia
di un quaderno, e non sa
come finisce
ogni sua riga,
dove si mescolano
saggezza e idiozia
ma si fida dei moti della mano,
nelle cui dita batte la parola
del tutto muta,
senza togliere polline dai fiori,
ma facendo più lieve il cuore.
XII
Tanta bellezza
per così breve tempo,
spinge a una congettura
che fa storcer la bocca:
dire con più chiarezza
che il mondo per davvero
creato è senza scopo, o invece,
se scopo esiste mai,
non siamo noi.
Entomologo-amico, per la luce
non ci sono spilli
né per il buio.
Nella poesia “La farfalla”, scritta nel 1972, c'è una parte dedicata alla voce, alla parola, che è appunto, l'arma in mano al poeta, insieme al suo desiderio irrefrenabile di cantare. Il canto, che è anche un fardello, è un modo per prolungare l'attimo, per vincere il Nulla, che forse è però la nostra realtà. La voce è come la farfalla: da forma al nulla, a un mondo senza scopo, o forse un mondo in cui lo scopo “non siamo noi”, gli esseri umani.
E scrivere una cosa così, in effetti, diventa eversivo, pericoloso, rivoluzionario.
Il poeta dunque fa paura perché è eversivo, cioè non è ancorato a valori tradizionali, assoluti, dati una volta per sempre, il suo mondo è fluido come la poesia stessa. Per cui può essere accusato di apostasia, di offesa alla religione e insieme di portare i capelli lunghi. Che poi alla fin fine possono essere motivi strettamente connessi.
Potremmo sorridere, ma c'è adesso, proprio adesso, un giovane poeta che rischia la morte in Arabia Saudita per questi motivi, si chiama Ashraf Fayadh, è un poeta di origine palestinese.
Nelle sue poesie c'è un altro tratto che fa molta paura ed è l'ironia.
Equità
(traduzione dall’arabo di Jolanda Guardi)
Si dice che la gente sia come i denti di un pettine
Ma non è così… mi raderò la testa in ogni caso
Per non essere obbligato al confronto!
E poi quella capacità di vedere il mondo da ottiche diverse, dal punto di vista dei passeri, che in ogni fanatismo e regime è insopportabile.
Saggezza
(traduzione dall’arabo di Jolanda Guardi)
L’amore non è essere un passerotto nella mano di chi ami
Per lui è meglio che dieci sulla pianta.
Un passero sulla pianta è meglio di dieci nella mano…
Dal punto di vista dei passeri!
Un poeta ucciso nel 2010 dalle forze paramilitari serbe, che gli hanno sparato a bruciapelo, in un luogo, vicino all'Italia, cioè il Kosovo, si chiama Din Mehmeti e scrive sulla parola, sul coraggio del canto e sulla forza liberatoria del ridere, che prepara il futuro.
Gli sforzi della parola: primo sforzo
L’amore sgorga
dalla fulgida luce
La felicità è l’inganno
Inutili sono le lacrime
Al cospetto della grazia
Col volo dell’uccello
inizia il canto della caduta e del risveglio
Perisca bruciato
colui che non ha cantato mai
A chi sa ridere quando è il tempo di farlo
Appartiene l’avvenire del mondo
Il 10 febbraio 2012, duemiladodici, Zhu Yufu, poeta cinese che ha sessant'anni, è stato condannato a sette anni di carcere con l'accusa di sovversione. Finalmente, possiamo ben dirlo, un'accusa seria: sovversione. Questa è la poesia, diffusa online, altra gravissima colpa, per cui è stato condannato: attenzione sembrano solo poche, pochissime parole.
È ora
"È ora popolo cinese!
La piazza appartiene a tutti
i piedi sono vostri
è ora di usare i vostri piedi e andare in piazza per fare una scelta"
“Usare i vostri piedi” è un'incitazione davvero potente e l'immagine delle persone che camminano libere e invadono la piazza, perché questa è libertà, è così vivida che si può capire perché il poeta sia stato condannato.
E poi, rivolgersi al popolo! Il poeta cinese recupera quel valore del poeta come coscienza del popolo che è sempre stato uno degli elementi fondanti della poesia.
E così tutta questa ultima parte del percorso si basa proprio su questo recupero del valore della poesia, come voce fuori del coro eppure voce di tutti: miracolosamente anfibia.
Victor Jara, cantautore, fu una delle prima vittime della dittatura fascista del generale Pinochet in Cile. Gli spaccarono le mani, perché le usava per suonare la chitarra e cantare le sue poesie. Fu ucciso subito nel 1973. Era voce del popolo, voce libera.
Canto libero (1970)
Il verso è una colomba
che cerca dove annidarsi,
salta su e apre le ali
per volare e volare.
Il mio canto è un canto libero
che vuole donarsi
a chi stringerà la mano,
a chi vorrà sparare.
Il mio canto è una catena
senza inizio né fine,
e in ogni anello si trova
il canto dei più.
Continuiamo a cantare insieme
a tutta l'umanità,
che il canto è una colomba
che vola per raggiungere una meta,
salta su e apre le ali
per volare e volare.
Il mio canto è un canto libero.
A questo link si può sentire Victor Jara che canta la sua poesia: https://www.youtube.com/watch?v=6k7_OXY-eaw
Il poeta dunque è voce fuori del coro come è sempre stato Pier Paolo Pasolini. Nella poesia ”Gli Italiani” tratta dalla raccolta “Poesia in forma di rosa”, non solo il poeta descrive il suo popolo, il popolo italiano, ma anche sembra prevedere quale sarà la sua terribile fine, in quanto uomo e in quanto poeta. Gli ultimi versi alla luce della sua morte sono davvero impressionanti. Pasolini parla degli Italiani e li condanna, ma soffre di questa condanna perché lui è italiano. Forse per questa identità sofferta usa la terzina dantesca, cioè di Dante, il padre della lingua italiana, il poeta italiano per eccellenza, ma anche fustigatore e osservatore pietoso e insieme implacabile dell'italianità.
L'intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza -
alzare la mia sola puerile voce -
non ha più senso: la viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce
gli altri, nella più strana indifferenza.
Io muoio, ed anche questo mi nuoce.
Ma il motivo per cui si ha più paura del poeta è che il poeta è la voce del popolo, ha le parole per dire le emozioni, le domande, le rivendicazioni della gente. Il poeta sa dare alle persone le parole e insieme a queste la consapevolezza. In questo, temibile è davvero il poeta.
Esemplare è la figura della poetessa russa Anna Achmatova.
Nel 1938 in pieno stalinismo fu arrestato suo figlio e lei si trovò a cercare sue notizie davanti al carcere dove era tenuto, faceva la fila disperata, in mezzo a tanta, tantissima gente. Da questa terribile esperienza nasce la raccolta Requiem scritta tra il 1935 e il 1940.
In luogo di prefazione
(…) Ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado.
Una volta un tale mi "riconobbe". Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): - Ma lei può descrivere questo? E io dissi: - Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.
Requiem
No, non sotto un estraneo cielo,
Non al riparo d’ali estranee:
Ero allora col mio popolo,
Là dove il mio popolo, per sventura, era.
“Ero allora col mio popolo”. Impaurita e tremenda. Separata e confusa con tutti. Disarmata e potente: ero un poeta!
Bibliografia
Clarice Lispector, La scoperta del mondo 1967-1973, Baldini & Castoldi, Milano, 2001
Raymond Carver, Paura https://cantierepoesia.wordpress.com/category/x-sogni-dautore-x/raymond-carver/ (Con testo in italiano e in inglese)
Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere, Adelphi, Milano, 2009
Charles Baudelaire, I fiori del male, Feltrinelli, Milano, 2014
Sylvia Plath, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2013
Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, Adelphi, Milano, 1979
Charles Bukowski, http://www.babelmatrix.org/works/en/Bukowski,_Charles-1920/self-invited/it/33590-Auto-invitati (testo anche in inglese)
Maria Rosa Panté, Entrare nella paura, poesia pubblicata nella rivista “Poesia e Conoscenza” 2015. Direttore Donatella Bisutti
Antonia Pozzi, Tutte le opere, Garzanti, Milano, 2009
Donatella Bisutti, Inganno ottico, ed. Società di poesia, Milano, 1985
Aldo Palazzeschi, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2002
Umberto Saba, Il canzoniere, Einaudi, Torino 2014
Nicoletta Bidoia, Verso il tuo nome, LietoColle, Como, 2005
Giacomo Leopardi, Canti, Garzanti, Milano, 2007
Pablo Neruda, Crepuscolario, Passigli, Firenze, 2004
Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2004
Alda Merini, Vuoto d'amore, Torino, Einaudi 1991
Emily Dickinson, Poesie, Garzanti, Milano, 2008
Patrizia Cavalli, Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, Torino, 2006
Contilli, Scarparolo, Elegia per Nadia Anjuman, Carta e Penna, Torino, 2006
Iosif Brodskij, Poesie (1972-1985), Adelphi, Milano, 1986
Ashraf Fayadh, https://editoriaraba.wordpress.com/2015/01/15/liberta-per-il-poeta-palestinese-ashraf-fayadh-in-carcere-in-arabia-saudita-da-un-anno/
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Zhu Yufu, http://it.gariwo.net/persecuzioni/totalitarismi/cina-la-poesia-dietro-le-sbarre-4448.html
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Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano, 2015
Anna Achmatova, Poema senza eroe e altre poesie, Einaudi, Torino 1993
Pubblicato il 08/02/2016