Un viaggio letterario / Preferire l’atlante alla nave / In groppa all’Ippogrifo / La camera da letto / La stanza del cucito / L’amore in una stanza / Laboratori estremi / Ripostigli poetici/ Estrema è la poesia
Fu questo un poeta – colui che distilla
un senso sorprendente da ordinari
significati (…)
E. Dickinson
Cos'è l'estremo per il poeta? Non per uno scrittore in senso generico, proprio per il poeta, che ha qualità specifiche tra i letterati. Etimologicamente estremo è ciò che è più fuori di tutti. È un superlativo, cioè di per sé un estremo: di nome e di fatto.
L'estremo comunemente può essere il riposo, cioè la morte; o anche un luogo estremo o un comportamento. L'estremo ha in sé l'idea di sconfinamento e per questo di confine. L'estremo allarga, dilata, fa grande (o piccolo). L'estremo può essere ricercato in paesi estremi, cioè nel viaggio.
Viaggia dunque il poeta? Viaggia, sia pure in modo inusuale.
«Rilke sconsigliava ai giovani poeti la scelta di temi troppo generali, perché sono i più difficili ed esigono una grande maturità di scrittura. Suggeriva di scrivere su ciò che si vede intorno a sé, di cui si vive quotidianamente, che si è perduto, che si è trovato. Consigliava di introdurre nelle poesie le cose che ci circondavano, le immagini dei sogni, gli oggetti della memoria. Se la quotidianità ti sembra povera – scriveva – non incolparla di questo, incolpa te stesso di non essere abbastanza poeta per accorgerti della sua ricchezza [1]».
In effetti il poeta spesso viaggia senza spostarsi affatto. Cominciò Dante rivolgendosi a Guido Cavalcanti:
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;
sì che fortunal od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi [2].
Il suo è il viaggio letterario, non a caso vuole la compagnia dei suoi amici poeti. È il viaggio della giovinezza e dell'amore, vorrebbe avere con sé le fanciulle amate, tra le più belle di Firenze. È dunque il viaggio dell'incantamento. L'incantamento davvero della poesia, dove l'estremo è nell'incanto del verso.
Ma il poeta viaggia anche realmente, spesso è un esule, un ex, deve uscire da, andarsene. Il poeta può essere un estremista (politico, sociale) per il fatto stesso di essere poeta. Allora viene esiliato dalle dittature o ucciso. Sempre un estremo è.
Il poeta viaggia realmente, ma suo malgrado. Come l'Ariosto, che nella Satira III indica un modo di viaggiare sempre più valido, a chilometro zero. Ora più facile con internet. Ma viaggiare così può soprattutto chi, con la poesia e l'immaginazione, riesce ad andare sulla luna! Come fa Ariosto, appunto, attraverso il suo personaggio Astolfo.
E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre.
Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.
Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
quel monte che divide e quel che serra
Italia, e un mare e l'altro che la bagna.
Questo mi basta; il resto de la terra,
senza mai pagar l'oste, andrò cercando
con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;
e tutto il mar, senza far voti quando
lampeggi il ciel, sicuro in su le carte
verrò, più che sui legni, volteggiando [3].
E quell'Astolfo che, grazie all'Ariosto, viaggiò fin sulla luna, non vi è “allunato” da solo: nei secoli quanti l'hanno seguito!
Anche un poeta, un altro poeta che viaggia grazie all'immaginazione, come fanno i fanciulli. Giovanni Pascoli, tornato in Romagna, torna anche fanciullo e ricorda le sue avventure, ricorda appunto Astolfo e l'Ippogrifo. Torna nel suo nido dove «immobilmente/ io galoppava», l’ espressione è resa più incisiva dall'enjambement.
Romagna
a Severino
(...)
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l'imperatore nell'eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l'ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allor allor falciati
da' grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
E lunghi, e interminati, erano quelli
ch'io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d'uccelli,
risa di donne, strepito di mare [4].
E la poetessa polacca Szymborska conferma:
«(...) lo scrittore si forma dall'interno, nel proprio cuore e nella propria testa: attraverso la tendenza innata (INNATA, lo sottolineiamo) a meditare, a reagire con sensibilità anche alle cose di poco conto, a stupirsi di ciò che gli altri ritengono normale. Viaggi all'estero? Glieli auguriamo di tutto cuore, a volte servono. Tuttavia prima di partire per Capri, le consigliamo di fare un viaggetto a Vattelapesca. Se tornerà di là senza impressioni degne di nota, allora neppure la Grotta Azzurra potrà servire a molto [5]».
Dunque il poeta va verso l'estremo partendo da dentro, come dice in modo conciso, direi “estremo”, Fernando Pessoa:
Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere
d'essere niente.
A parte questo, ho in me
tutti i sogni del mondo.
Finestre della mia stanza,
della stanza d'uno dei milioni del mondo che nessuno conosce
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
date sul mistero d'una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente, reale, certa, sconosciutamente certa,
col mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che insinua umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
col Destino che conduce la carretta di tutto per la via del nulla [6].
Avere in sé tutti i sogni del mondo può essere una condizione privilegiata, ma talora l'immaginazione, la solitudine nella propria stanza possono diventare una tortura. La cameretta, da porto che era, diventa troppo piena di pensieri (seguendo i quali il poeta dice: “levommi a volo”). Così per il poeta tormentato da amore è meglio cercare la compagnia della gente. Francesco Petrarca, com'è suo costume, passa da un estremo all'altro.
O cameretta, che giá fosti un porto
a le gravi tempeste mie diurne,
fonte se´or di lagrime notturne
che ´l dí celate per vergogna porto!
O letticciuol, che requie eri e conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor con quelle mani eburne
solo vér´ me crudeli a sí gran torto!
Né pur il mio secreto e ´l mio riposo
fuggo, ma piú me stesso e ´l mio pensiero,
che, seguendol, talor, levommi a volo;
e ´l vulgo, a me nemico et odioso,
(chi ´l pensó mai?), per mio refugio chero:
tal paura ho di ritrovarmi solo [7].
Qualche secolo più tardi un poeta riparte dalla camera da letto, la più intima, giacché la cucina è invece la più comunitaria (o lo era, visti i monolocali odierni) per raccontare la storia della sua famiglia. Un lungo poemetto intitolato proprio “La camera da letto”. La stanza è un punto di osservazione eccentrico e insieme centrale sulla storia, sull'estremo del tempo, della guerra, della nascita e della morte, dell'amore. Ecco Attilio (Bertolucci) infante e la madre nella camera che profuma, che è piena della natura piena di giugno e soprattutto piena di quell'estremo amore, di quell'estremo legame di sopravvivenza che unisce un figlio alla madre. Aldilà di Freud, il poeta si rivede nell'atteggiamento dell'innamorato, mentre, immobile e in silenzio, è incantato a guardare la sua mamma dal lettino d'ottone.
Nella stanza sta l'estremo mistero della nascita e avrà posto nel secondo libro quello della morte della madre, quella stessa Maria che si muove spensierata per la stanza sotto lo sguardo amoroso del poeta, il figlio suo appena nato.
I primi anni di vita passano
veloci: il bambino si sveglia
e mangia e poi dorme e poi si sveglia
ancora, e se è malato muore oppure
guarendo è diverso, i suoi occhi
vedono le persone e le ringraziano
di stargli vicino nella solitudine
d’un giorno di luce calma e di grande
silenzio attorno. Antognano
è fresca, le mattine di giugno,
nell’abbraccio del Cinghio
florido di gaggie, ventilata
dal giardino di magnolie, di muse
e di limoni, di gerani e di rose
il cui profumo si confonde a quello
della mamma che nella stanza aperta
si muove, dimentica di lui, riflessa
in uno specchio lungo che stormisce
di foglie, s’accende al sole caldo,
già vicine le nove, entrata
e uscita un’ape e una breve paura
in Maria che si ricorda di lui
da lungo tempo incantato a guardarla
zitto dal suo lettino d’ottone [8].
Non solo nella stanza da letto entrano gli estremi della vita e della morte, anche la poesia in sé contiene sempre una nascita e una morte. Qualcuno nel mondo muore ancora di poesia, perché vuole scrivere poesie, perché non può reprimere la prepotenza, la dirompenza della poesia che ti sta nella gola e deve uscire...
In Afghanistan le poetesse possono essere uccise dai mariti; possono essere picchiate dai fratelli e decidere poi di darsi la morte. Le donne si trovano clandestinamente a studiare letteratura, a parlare di poesia, in una stanza, la stanza del cucito. Questo accade oggi nelle zone periferiche dell'Afghanistan, solo a Kabul qualcosa è cambiato.
Nadia Anjuman, artista afgana, morì nel 2005 per il brutale pestaggio di suo marito. Aveva 25 anni. Le sue “colpe” erano aver pubblicato poesie ed essere diventata famosa in ragione di ciò.
La maggiore associazione di scrittrici e letterate, nel paese, si chiama Mirman Baheer ed è la versione contemporanea dell’associazione “Ago d’Oro” dell’epoca talebana in cui le donne di Herat, fingendo di cucire, si riunivano per discutere di letteratura.
A Kabul, l’associazione odierna non ha bisogno di nascondersi: ne fanno parte insegnanti universitarie, parlamentari, giornaliste, intellettuali che hanno una vita pubblica e le facce scoperte. Ma per le restanti 300 socie delle province Mirman Baheer funziona come una setta segreta. Al telefono dell’associazione c’è sempre una donna, Ogai Amail, che aspetta in orari concordati le loro chiamate: le socie le recitano le poesie che non è loro permesso creare e la volontaria, anch’ella poeta, le trascrive verso dopo verso.
Zarmina (firmava le sue poesie con lo pseudonimo Rahila) viveva a Gereshk, a circa 600 chilometri da Kabul. Si mise in contatto con il gruppo dopo aver ascoltato alcune sue socie recitare poesie alla radio. A Zarmina, adolescente, non era permesso uscire di casa. La radio era il solo tramite per il mondo esterno e le telefonate doveva farle di nascosto. «Era giovanissima, ma il suo lavoro era già impressionante per ricercatezza, originalità e coraggio» ricorda Ogai Amail:
«E la sua urgenza di creare era assoluta. Per esempio, non sopportava i ritardi o le dilazioni nei nostri colloqui telefonici e a volte mi rimproverava con un landai di questo tipo: “Io sto gridando ma tu non rispondi. / Un giorno mi cercherai e io me ne sarò andata da questo mondo”».
Landai significa “piccolo serpente velenoso” in lingua Pashto: si tratta di poesie popolari, composte da due versi, che perdono la loro origine non appena vengono recitate. Un landai non appartiene neppure a chi lo crea, le persone dicono di ripeterlo o di condividerlo anche quando è nato nella loro mente. Gli uomini possono inventare e recitare queste poesie che però, quasi esclusivamente, hanno per voce narrante una donna. «I landai appartengono alle donne» spiega Safia Siqqidi, poeta ed ex parlamentare afgana: «Nel nostro Paese, la poesia è il movimento delle donne dall’interno». La poesia pashtun ha una lunga storia come forma di ribellione delle donne afgane. E i landai sono di solito micidiali proprio come il morso di un serpente velenoso: diretti, sboccati, concreti, arrabbiati, sensuali, buffi, tragici, vanno diritti al cuore della questione che affrontano. I matrimoni imposti, odiati e derisi tramite dettagli grafici, sono un bersaglio frequente di questo tipo di poesia.
Zarmina usava diversi metri poetici per descrivere «la buia gabbia», cioè le costrizioni che soffocavano la sua vita, e chiedeva ragione a dio e all’umanità di tanta sofferenza:
«Perché non mi trovo in un mondo in cui la gente possa sentire quel che io sento e udire la mia voce? Nell’Islam, Dio amò il Profeta Maometto. Io sto in una società dove l’amore è un crimine. Se siamo musulmani, perché siamo nemici dell’amore?».
Due anni orsono, Zarmina stava leggendo al telefono le sue poesie d’amore quando la cognata la sorprese. «Quanti amanti hai?» le chiese sprezzante. L’intera famiglia sposò questa tesi. Dall’altra parte del filo doveva esserci sicuramente un giovanotto. I fratelli si produssero in un regolare pestaggio della ragazza e fecero a pezzi tutti i suoi quaderni di poesie. Due settimane più tardi, Zarmina si diede fuoco e morì all’ospedale di Kandahar dopo sette lunghi giorni d’agonia. Non aveva che 17 anni.
Zarmina era stata fidanzata dal padre a un cugino coetaneo quando era una bambina, ma il fato era stato generoso e i due si erano innamorati sul serio. Quando però saltò fuori che la famiglia del ragazzo non poteva pagare la dote richiesta dal padre di Zarmina, quest’ultimo sciolse il fidanzamento. Il ragazzo, saputo della morte dell’ex fidanzata, ha tentato di uccidersi lui stesso pugnalandosi al petto più volte. L’anno scorso i familiari gli hanno arrangiato un matrimonio e lo hanno spedito ben distante.
Durante le due settimane trascorse fra il pestaggio e il suicidio, Zarmina non disse ad Amail quanto era disperata. Le recitò però un altro landai: «O giorno del giudizio, dirò a voce alta / Vengo dal mondo con il cuore pieno di speranza [9]».
Spesso gemellato alla morte è l'estremo sentimento dell'amore, tema principe della poesia. Le due poesie che seguono sono particolari: l'amore è nella stanza e insieme ancora non c'è o già non è più. É un amore evocato, di cui si ha nostalgia (Antonia Pozzi in Convegno) o in cui si ha speranza (Ernesto Regazzoni in Ad Orta).
Convegno
Nell'aria della stanza
non te
guardo
ma già il ricordo del tuo viso
come mi nascerà
nel vuoto
ed i tuoi occhi
come si fermarono
ora – in lontani istanti –
sul mio volto [10].
Ad Orta
Ad Orta, in una camera quïeta
che s'apre sopra un verde pergolato,
e dove, a tratti, il vento come un fiato
porta un fruscìo sottil, come di seta,
c'è un pianoforte, cara, che ti aspetta
un pianoforte ove mi suonerai
la musica che ami, e che vorrai:
qualche pagina nostra benedetta.
La nostra grande pagina ove abbiamo
prima sognato tante cose, tante...
E ci risponderanno fuor le piante,
ed un coro d'augelli su ogni ramo.
La casa, intenta all'opere tranquille
risuonerà come una cattedrale,
ed io verrò a leggere il messale,
o mia diletta, nelle tue pupille [11].
L'amore si presenta nelle forme più impalpabili: l'aria della stanza; i suoni del pianoforte...
L'estremo per manifestarsi ha bisogno dell'ostacolo, giacché spesso l'ostacolo, il limite, il muro ci palesa l'infinito: l'estremamente grande. Così almeno credeva Giacomo Leopardi a 20 anni circa.
L'infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare [12].
Passare attraverso limiti e regole sempre più restrittive per stimolare la fantasia poetica e artistica in genere è anche alla base del movimento letterario dell'OULIPO, (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero "officina di letteratura potenziale") nato in Francia ad opera di Queneau, di cui fece parte anche Italo Calvino.
Esistono altri modi per attingere l'infinito, l'estremo in una stanza o su un unico sentiero quotidiano: la ripetizione e la variazione e l'occhio aperto a vederle, inoltre l'emozione vigile a cogliere l'attimo.
«(...) Il poeta invece fa proprio il contrario: in Africa magari non sente neppure il bisogno di andarci, perché ha già tante emozioni stando a casa sua. Lui le emozioni infatti è contento di averle, anzi, la sua lancetta delle emozioni col tempo diventa sempre più sensibile finché è capace di fare balzi grandissimi per emozioni da niente: è una lancetta che registra, per così dire, anche i movimenti dei fili d'erba. Lui, le cose, è come se le vedesse sempre per la prima volta. E questo gli è indispensabile. Senza questo modo di 'vedere le cose' niente, lo sappiamo, può trasformarsi in poesia [13]»
Ricette per viaggiatori dell’infinito
Scegliere un sentiero,
percorrerlo ogni giorno
(le unità di misura
siano puramente immaginarie).
Si vada più volte dall’inizio
alla fine, dalla fine all’inizio
finché il traguardo sia la partenza,
finché si mescolino prima e dopo.
Il sentiero ne risulterà certo
moltiplicato all’infinito: un cerchio,
un perfetto percorso circolare,
un diverso sentiero universale:
la luce obliqua o verticale, il vento
da nord, quello da sud,
le foglie cadute, i fiori ormai nati.
Il sentiero s’eleva ad universo:
i confini si dilatano, gli occhi
scorgono i singoli steli, ogni ramo,
ogni radice. I suoni ricolmano
i pensieri. Sono canti d’uccelli,
stormire di chiome, abbaiare
remoto di cani. Fruscii, bisbigli.
I confini si dilatano, ma io
so che questa meta è l’inizio e ogni
partenza è anche ogni fine.
Si dilatino (oh, per poco) i confini
delle percezioni: nell’istante
eletto viaggerò per l’infinito! [14]
Nella poesia, di là dalla siepe si affaccia, si immagina l'infinitamente grande, ma esiste anche l'estremo opposto: il piccolissimo, l'estremamente piccolo. Ne scrive Guido Gozzano che dedica una raccolta di poesie ai vari tipi di insetti. Tutti (o quasi) rinvenuti nella sua stanza, giacché nella stanza può esserci il cielo, come scrisse Gino Paoli, ma più spesso ci possono essere formiche o ragni... o bruchi, per i più appassionati di entomologia.
Favole entomologiche Farfalle delle crisalidi
Ma già - mentre ch'io parlo - i bruchi tutti
sono vòlti in crisalidi. Al soffitto
agli scaffali al dorso dei volumi
famosi, alle cornici delle stampe,
financo - irriverenza - al naso adunco,
alla mascella scarna del Poeta,
ovunque la mia stanza è un scintillare
di pendule crisalidi sopite.
Guardo e sorrido. E un velo di tristezza
mi tiene già gli alunni ripensando
che più non sono e loro schiera bruna
raccolta intorno alle mie carte quando
rinnovavo la selva agropungente
e m'era caro il crepitìo di lime
dei compagni famelici a seguirne
i moti e l'attitudini e ritrarne
col pennello e col verso il divenire.
Oggi tutto è silenzio di clausura,
digiuno, attesa immobile, sgomento
di necropoli tetra. Alle pareti
ogni defunto è un pendulo monile,
ogni monile un'anima che attende
l'ora certa del volo. Ed io mi sono
quel negromante che nel suo palagio
senza fine, in clessidre senza fine,
custodisce gli spiriti captivi
dei trapassati, degli apparituri.
Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non essere più,
del non essere ancora. E qui la vita
sorride alla sorella inconciliabile
e i loro volti fanno un volto solo.
Un volto solo. Mai la Morte s'ebbe
più delicato simbolo di Psiche:
psiche ad un tempo anima e farfalla
scolpita sulle stele funerarie
da gli antichi pensosi del prodigio.
Un volto solo... [15]
«Veramente la mia stanza modesta/ è la reggia del non essere più/ e del non essere ancora»: tutto in una stanza!
Ma forse solo un poeta nelle crisalidi appese ai suoi libri, cosa invero inusuale, vede l'estremo del possibile divenire, della possibile trasformazione, perché il poeta ha in sé il divenire, la trasformazione: il poeta è di per sé un estremo, così almeno pare pensare Umberto Saba. Nella sua città vorrebbe smettere il peso ingombrante della sua diversità ed essere uno dei tanti. Per fortuna alla fine non ce l'hai fatta!
Il Borgo
Fu nelle vie di questo
Borgo che nuova cosa
m'avvenne.
Fu come un vano
sospiro
il desiderio improvviso d'uscire
di me stesso, di vivere la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
Non ebbi io mai sì grande
gioia, né averla dalla vita spero.
Vent'anni avevo quella volta, ed ero
malato. Per le nuove
strade del Borgo il desiderio vano
come un sospiro
mi fece suo.
Dove nel dolce tempo
d'infanzia
poche vedevo sperse
arrampicate casette sul nudo
della collina,
sorgeva un Borgo fervente d'umano
lavoro. In lui la prima
volta soffersi il desiderio dolce
e vano
d'immettere la mia dentro la calda
vita di tutti,
d'essere come tutti
gli uomini di tutti
i giorni.
La fede avere
di tutti, dire
parole, fare
cose che poi ciascuno intende, e sono,
come il vino ed il pane,
come i bimbi e le donne,
valori
di tutti. Ma un cantuccio,
ahimé, lasciavo al desiderio, azzurro
spiraglio,
per contemplarmi da quello, godere
l'alta gioia ottenuta
di non esser più io,
d'essere questo soltanto: fra gli uomini
un uomo.
Nato d'oscure
vicende,
poco fu il desiderio, appena un breve
sospiro. Lo ritrovo
- eco perduta
di giovinezza - per le vie del Borgo
mutate
più che mutato non sia io. Sui muri
dell'alte case,
sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
è sceso il velo che avvolge le cose
finite.
La chiesa è ancora
gialla, se il prato
che la circonda è meno verde. Il mare,
che scorgo al basso, ha un solo bastimento,
enorme,
che, fermo, piega da una parte. Forme,
colori,
vita onde nacque il mio sospiro dolce
e vile, un mondo
finito. Forme,
colori,
altri ho creati, rimanendo io stesso,
solo con il mio duro
patire. E morte
m'aspetta.
Ritorneranno,
o a questo
Borgo, o sia a un altro come questo, i giorni
del fiore. Un altro
rivivrà la mia vita,
che in un travaglio estremo
di giovinezza, avrà per egli chiesto,
sperato,
d'immettere la sua dentro la vita
di tutti,
d'essere come tutti
gli appariranno gli uomini di un giorno
d'allora. [16]
Vorrebbe essere il poeta come tutti, ma il suo destino è oltre, è creare «mondi altri aldilà dell'impossibile», come disse in una sua lezione il professor G. Barberi Squarotti, infatti così Saba ne “Il borgo” scrive:
«Forme, /colori,/ altri ho creati, rimanendo io stesso, /solo con il mio duro/ patire».
Talvolta accade un fatto miracoloso, una poesia che in sé colga l'estremo, lo riconosca nella quotidianità, nello stupore, in quell'apertura verso ogni possibile orizzonte che sono i due punti, perché solo coi due punti può (non) finire una poesia.
In effetti ogni poesia
In effetti ogni poesia
potrebbe intitolarsi “Attimo”.
Basta una frase
al presente,
al passato o persino al futuro:
basta che qualsiasi cosa
portata dalle parole
stormisca, risplenda,
voli nell'aria, guizzi nell'acqua,
o anche conservi
un'apparente immutabilità,
ma con una mutevole ombra;
basta che si parli
di qualcuno accanto a qualcuno
o di qualcuno accanto a qualcosa,
di Pierino che ha il gatto
o che non ce l'ha più;
o di altri Pierini
di gatti e non gatti
di altri sillabari
sfogliati dal vento;
basta che a portata di sguardo
l'autore metta montagne provvisorie
e valli caduche;
che in tal caso
accenni al cielo
solo in apparenza eterno e stabile;
che appaia sotto la mano che scrive
almeno un'unica cosa
chiamata cosa altrui;
che nero su bianco,
o almeno per supposizione
per una ragione importante o futile,
vengano messi punti interrogativi,
e in risposta -
i due punti: [17]
Grazie a questa sensibilità il poeta nella sua stanza può trovare la cosa più estrema di tutte, una compagna invisibile, ma quasi concreta e ben presente: l'Immortalità. Forse è Dio, come in un'esperienza mistica, non a caso questa poesia di Emily Dickinsonecheggia il racconto che Santa Teresa d'Avila fa della presenza di Dio accanto a lei nelle sue estasi.
Nella mia stanza lo sento,
un amico privo di corpo -
Non un gesto, non una parola -
che provino che è lì -
Non occorre fargli posto -
E' cortesia migliore
il suo essere lì
intuire ed accogliere -
Il suo essere lì - è la sola libertà
che si prenda -
Non un suono, da lui a me o da me a lui
che ci privi della nostra integrità -
Stancarsi di lui, sarebbe strano
come se un atomo
trovasse monotona -
La compagna vasta dello spazio -
Non so se visiti alti -
né se presso altri si trattenga -
Ma l'istinto ne conosce il nome
Immortalità [18].
Nella camera sta dunque il poeta perché lì trova il suo essere estremo, il mistero della poesia. Questo mistero è come una fontana, perpetua. La forma della casa
In una camera
c’è la fontana
dove perpetuamente
scorre l’acqua.
Sorgente di clausura
abitacolo freddo
lacustre
sede settentrionale [19]
L'estremo in una stanza è il mistero del perpetuo fluire della poesia.
Pubblicato il 17/07/2012
Note:
[1]W. Szymborska, Posta letteraria, Scheiwiller, Milano, 2002
[2]D. Alighieri Rime, Garzanti, Milano, 2005
[3]L. Ariosto, Satire, Rizzoli, Milano, 2009
[4]G. Pascoli, Myricae, Mondadori, Milano, 1981
[5]W. Szymborska, Posta letteraria, 2002, Scheiwiller
[6]F. Pessoa , Tabaccheria in L'enigma e le maschere, Mondadori, Milano 1993
[7]F. Petrarca , Canzoniere, Garzanti, Milano 2008
[8]A. Bertolucci, Canto IX, Fola e passeggiata, La camera da letto, Garzanti, Milano 2000
[9]M.G.. Di Rienzo, Morire di poesia, 7 maggio 2012, in
http://lunanuvola.wordpress.com/2012/05/05/morire-di-poesia/.
Vedi anche : A. Vanzan, ll doppio esilio. la poesia delle rifugiate afgane in iran,
http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/id_1-issue_05_22-section_6-index_pos_1.html
[10]A. Pozzi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2009
[11]E. Ragazzoni , Poesie e prose, Scheiwiller, Milano, 1978
[12]G. Leopardi, Canti, Einaudi, Torino 2005
[13]D. Bisutti, La poesia salva la vita, Mondadori, Milano, 2004, p.65
[14]M.R. Panté,, comparsa sulla rivista on line Bibliomanie, …
http://www.bibliomanie.it/quotidiani_infiniti_maria_rosa_pante.htm
[15]G. Gozzano, Poesie e Prose, Feltrinelli, Milano 2011
[16]U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi, Torino 2005
[17]W. Szymborska, La gioia di scrivere, Adelphi, Milano, 2009
[18]E. Dickinson, Poesie e lettere, Bompiani, Milano 2000
[19]V. Magrelli, Nature e venature, Mondadori, Milano 1987