Maria Raffaella Cornacchia - Marco Santagata, Il copista. Un venerdì di Francesco Petrarca

Guanda, Milano 2020

 

Classe di riferimento: 3° anno di scuola secondaria superiore

 

Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!

Sinossi: Marco Santagata delinea un ritratto di Francesco Petrarca estremamente diverso da quello che ognuno di noi si aspetterebbe: il poeta, ormai molto anziano, affetto da una malattia all'intestino che gli provoca atroci dolori, completamente solo salvo la presenza pressoché muta della governante Francescona, trascorre le giornate nella casa di Arquà che tuttavia non sembra amare molto, tant'è che spesso rievoca i momenti in cui poteva viaggiare senza problemi.

Solo la memoria e il rimpianto degli affetti perduti – a cui non seppe dimostrare adeguatamente il suo affetto – riempiono il tempo e il cuore del vecchio poeta: in una galleria di flashback che illuminano scorci della sua vita passata, conosciamo l’amatissimo nipote Franceschino, in cui Petrarca riponeva tutte le speranze di lasciare un’eredità morale, ma che morì precocemente; il figlio Giovannino che, frustrato dall’incapacità di corrispondere alle aspettative paterne, si allontanò da casa per morire appena venticinquenne di peste a Firenze, nella più disperata solitudine; il fedele copista e futuro grande umanista Giovanni Malpighini, forse figlio illegittimo, da cui lo separarono vanità ed arroganza; la stessa Laura, ormai morta da anni, che divenne però ben presto nei suoi versi la pura idea della bellezza femminile e dell’amore, lontanissima dalla realtà di una donna invecchiata e infine disponibile.

In questa desolazione spirituale germina in Petrarca una violenta crisi religiosa, che trapela dalla sofferta stesura della canzone “Standomi un giorno solo a la fenestra” (Canzoniere, 323).

 

Un progetto di lettura

Far leggere nella mia terza liceo di scienze umane questo libro, molto prima di cominciare lo studio “scolastico” di Petrarca – anzi, mentre eravamo ancora immersi nella lettura “creativa” del Decameron, valorizzando l’aspetto gioioso, ludico e formativo della narrazione,  improvvisandoci (e parlo col “noi” della classe) addirittura novelli narratori di un “venti-novelle” autoctone – non nego sia stato un grosso azzardo. Ne sarebbe saltata fuori un’antitesi violentissima tra un Boccaccio aedo della voglia di (tornare a) vivere e della lotta umana per far fronte alla fortuna con intelligenza, amore ed energia, e un Petrarca vecchio e svuotato, che lima e rilima i suoi scritti, lontanissimo dalla fantasia e dall’interesse dei sedicenni. Era uno scherzo crudele rivolto al grande poeta?

D’altra parte, la pubblicazione nel 2020 dell’edizione definitiva del Copista, dopo quella del 2007 tra i racconti del Salto degli Orlandi, a sua volta rimaneggiamento della prima versione pubblicata nel 2000, offriva il destro per avvicinare le alunne (la classe è tutta femminile)  alla scrittura del grande critico appena scomparso (9 novembre 2020), per tentare più avanti il confronto contrastivo con qualche brano critico dello stesso, in genere ben rappresentato anche nelle antologie scolastiche.

I risultati sono stati davvero inattesi: le ragazze – cui ho richiesto, dopo la lettura, di selezionare un brano significativo e di delineare il ritratto di Petrarca che ne avevano ricavato – si sono mostrate colpite non dallo squallore esistenziale che trapela dal racconto, ma dal dramma dell’uomo vecchio e solo, che hanno addirittura associato alle solitudini contemporanee che la pandemia ha fatto emergere. Non solo: hanno in generale dimostrato di aver compreso il significato di alcune sconcertanti scelte narrative di Santagata, come il soffermarsi iniziale su dettagli osceni e ripugnanti della fisicità del poeta, riconducendole al loro esatto significato simbolico. Certo, un’operazione storicamente un po’ eretica, ma che in fin dei conti ha avvicinato le studentesse a grandi temi petrarcheschi: vita solitaria, trionfo della morte e senso della caducità, labor limae…

Perciò ho pensato, in questa recensione, di proporre un capovolgimento del punto di vista: prima di dire che cosa può trovare un insegnante in questo libro (in fondo è piuttosto scontato: Petrarca, o almeno i suoi ultimi anni a Padova), presentare cosa ha colpito alcune alunne sedicenni. Ecco dunque alcune delle loro osservazioni, riportate fedelmente con le loro parole, assieme all’antologia dei brani che hanno segnalato…

 

Un uomo che si perde nella nebbia

«E c’è pure la nebbia…  schifosissima città!» borbottava irritato.

La camera era buia, le imposte delle finestre chiuse, l’alba ancora lontana. Il cigolio dei primi sporadici carri tra le case di Padova aveva l’eco inconfondibile delle notti nebbiose (p. 8).

La nebbia che viene citata all'inizio del testo come descrizione del luogo in cui vive il poeta, sembra rimanere lo sfondo di tutta la narrazione, trasmettendo un grande senso di malinconia. Di quest'uomo, così colto, potente, illustre, alla fine non rimane nulla. Egli non può fare altro che utilizzare le forze rimaste per scrivere le ultime rime, unica cosa a cui non riesce a rinunciare, spegnendosi poco a poco (Greta C.).

Infatti Marco Santagata descrive Petrarca in tutta la sua miseria umana: come un uomo malato, che rutta, che si lamenta del proprio passato e che con le unghie si gratta i peli radi del pube. Egli si dice senza amarezza, con un fondo di compiaciuto disincanto: «Tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso» (p. 17), e si rivela una persona turbata e contraddittoria, che ha perso la fede fino al punto da non credere più all’immortalità, tanto da trascurare non solo l’anima ma anche il corpo (Martina M.).

Perciò, il vecchio poeta prova una costante paura di non poter riaprire più gli occhi il giorno dopo, una sensazione che gli provoca angoscia e un vero e proprio malessere fisico:

L'inchiostro si era addensato, andava diluito. A questo scopo conservava nell'armadio dei libri una fiala d'acqua purissima. Si appoggiò sui braccioli dello scranno per alzarsi, e non ci riuscì. Per quanto puntasse i piedi sul pavimento, le gambe non rispondevano, sembravano prive di sensibilità. Si disse subito che era colpa del troppo vino, ma questa spiegazione del tutto verosimile non riuscì a scacciare il terrore di morire da cui, immediatamente, era stato afferrato. Quando quel terrore lo assaliva, non c'era rimedio alcuno. Gli si stringeva la bocca dello stomaco. A volte vomitava, e faceva anche di peggio. Si convinse, con assoluta certezza, che non avrebbe rivisto il giorno dopo, che quelle erano le sue ultime ore. La solitudine lo spaventò. Aveva bisogno di vedere un essere vivente, di esercitare ancora le sue facoltà vitali (p. 125).

Per giunta, egli ormai si ritrova a vivere delle giornate pressoché identiche e piatte, piene di rammarico per il passato e di paura per il futuro. Il suo unico desiderio è quello di incontrare altre persone e stare in loro compagnia per sentirsi ancora “vivo” (Miriam A.).

Estenuante è pertanto questo suo senso di solitudine, che gli fa rimpiangere addirittura di sua madre, che aveva a lungo quasi dimenticato:

Si sentiva come un bambino abbandonato, aveva una gran voglia di carezze. Se avesse potuto chiamare la mamma! Per decenni l’aveva quasi dimenticata, ma da vecchio l’immagine di lei gli tornava davanti agli occhi con frequenza. Se fosse stata lì, avrebbe saputo come curarlo (p. 29).

Visto che il brano ha colpito qualcuna delle lettrici, potrà non essere peregrino rinviare alla celebre e ardita analisi di Umberto Saba, che collegava freudianamente il bisogno di «tenerezza» e protezione di Petrarca con il preteso amore per Laura, la quale «nelle profondità inaccesse dell’anima del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere […] lo loda, lo rimprovera, lo ammonisce a ben fare, siede in sogno sulla sponda del suo letto, si comporta in tutto e per tutto come una tenera madre col suo amato, e un po’ indiscreto, bambino […] La figura di Laura assorbì tutta la tenerezza del poeta» (U. Saba, Scorciatoie e raccontini, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 22s.).

In conclusione, osserva Asia M., ne risulta un ritratto di Francesco Petrarca meno eccezionale, ma più umano, ripiegato su sé stesso, ormai stanco di vivere poiché quella sofferenza gli sta logorando l’anima e la mente distruggendolo ogni giorno di più, facendo in modo che la vecchiaia che si era sognato non si avveri. Infatti così è: la sua vecchiaia è l’opposto di quella che si era immaginato, cosicché non gli resta che concedersi alla morte, che ormai è vicina.

Per alcuni giorni non era uscito di casa. A chi avrebbe potuto reclamare i diritti di cui era stato defraudato? Perché lui era stato defraudato. Alla disperazione fredda era subentrato un sentimento di rivalsa nei confronti della vita, del mondo, dei conoscenti, della sua stessa figlia: tutto e tutti lo avevano tradito, lo avevano derubato del suo futuro (pp. 41s.).

Chiuso nella sua solitudine, fatta di frustrazione e di nulla, Petrarca descrive dunque se stesso come una persona sola e desiderosa di trascorrere “ in mezzo alle selve” i pochi giorni che gli rimangono di questa morte che chiamano vita.

Come si vede, le osservazioni di queste ragazze, al momento della lettura ancora del tutto digiune di uno studio organizzato e sistematico del poeta e della sua produzione, sono già un terreno adatto per impiantare la lettura dei testi “canonici”, delle cui citazioni indirette, del resto, è tutto intessuto il romanzo, da Solo et pensoso (XXXV), a O cameretta (CCXXXIV), a La vita fugge (CCLXXII), a Quel rosignuol che sì soave piagne (CCCXI), a Tutta la mia fiorita e verde etate (CCCXV).

 

Il pieno e il vuoto

Ma è stato soprattutto un brano a colpire le alunne, che forse condividevano l’idealizzazione della vecchiaia nutrita dal giovane Petrarca e sono rimaste impressionate dal disinganno che Santagata – in questo suo ultimo libro, uscito sette mesi prima della sua morte, a 73 anni – attribuisce al poeta, a sua volta settantenne e prossimo alla morte:

Da giovane pensava alla vecchiaia come a un'età piena, un grande contenitore nel quale si ammassano tutte le esperienze di una vita e nel quale il vecchio può infilare le mani per estrarne, a suo piacere, questo o quel pezzo, godendo di una totale padronanza del vissuto. Adesso gli venivano i lucciconi ogni volta che si rendeva conto di quanto la vecchiaia fosse diversa da come se l’era immaginata. Altro che tutto pieno. Era una perdita continua, disorientata, casuale. Il mondo rimpiccioliva e la vita si abbreviava fino a coincidere con il vuoto presente. Quasi nessun futuro e pochissimo passato […]. Un deserto regnava sui luoghi della memoria (pp. 74s.).

Giovinezza e vecchiaia si contrappongono dunque secondo le categorie pieno/vuoto, padronanza/perdita, grandezza/rimpicciolimento: perciò, la vecchiaia non è l’età in cui ci si può prendere una pausa e pensare a ciò che si è fatto in gioventù – osserva Benedetta M. - ma è motivo di pianto e rimpianto, ad esempio per il ricordo di Valchiusa, la città nella quale Petrarca sa di non poter far più ritorno.

Questa sua visione, sebbene sia triste, pessimista e drammatica, è al tempo stesso estremamente umana, cruda e realistica, e per certi aspetti dimostra anche il percorso di crescita e maturazione del poeta, che è arrivato ad un punto in cui ha acquisito una nuova consapevolezza: egli è un uomo angosciato dal costante timore di essere dimenticato, che gli provoca una penosa sensazione di vuoto allo stomaco, osserva Giulia M., cogliendo acutamente la natura psicofisica del disturbo ampiamente descritto nel romanzo, molto simile alla melanconia della medicina antica, e che andrà poi ricondotto – ça va sans dire – alla tradizionale lettura del brano sull’aegritudo animi del II libro del Secretum, e magari chiosato con le parole di Santagata stesso, ma in veste di critico: «Noi oggi la chiamiamo depressione; Petrarca usava categorie filosofico-morali e, pertanto, riteneva che quello stato malinconico della coscienza, quell'incapacità di operare e di guardare alla vita con la fiducia del credente fosse, sì, un male, un morbo, ma un morbo moralmente peccaminoso: l'accidia, una tristitia – scriverà in una delle sue epistole senili (Sen. XVI 9) – nullis certis ex causis orta”, della quale, cioè, non è possibile indicare con sicurezza le cause […]. Ecco a cosa ha portato la rivoluzione copernicana di Petrarca: all'indagine delle profondità della psiche, dei mali dell'anima, dei dubbi davanti alla vita presente e a quella futura. Petrarca non aveva categorie di analisi psicologica a disposizione; usava categorie della filosofia morale» (cito dal sito ufficiale dello scrittore, consultato il 18/5/2021: M. Santagata, Accidia, aegritudo, depressione: modernità di un poeta medievale, http://www.marcosantagata.it/1/accidia_aegritudo_depressione_19179.html).

Al tempo stesso, nel Copista, l’abisso dell’angoscia, del vuoto che induce Petrarca alla perdita di fede nella sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e che nella finzione narrativa si riflette nella canzone CCCXXIII Standomi un giorno solo a la fenestra, si capovolge, con un’oscillazione psicologica tipicamente petrarchesca, in svuotamento, cioè in sollievo e pace ritrovata, come dimostra il brano che ha colpito Francesca P.:

Il male vince sempre, la Peste è onnipotente. In questa vita, l’unico bene che veramente desideriamo e che ci illudiamo di possedere in eterno, come il Paradiso, siamo trafitti a tradimento, buoni e cattivi giovani e vecchi, e scompariamo, per sempre. Nessuna sopravvivenza in terra, nessuna vita dopo la morte. Il male e il nulla. Un attimo di luce e il buio perpetuo. Questo è tutto: un niente.

Ed ecco, nel tallon punta d’un angue,

come fior colto langue;

in terra cadde ove star pur sicura

credeasi: o mondo rio, nulla in te dura!

La canzone era finita, mancava solo il congedo […]. Aveva scritto che l’anima non esiste, che la vita non avrà né premio né castigo, con la stessa disinvoltura con la quale avrebbe potuto dire buongiorno a un conoscente incrociato per strada. E tuttavia, se davvero fosse stata un’operazione tanto banale, non avrebbe provato, come ora provava, una così netta sensazione di essersi svuotato. Vuoto, ecco come si sentiva, come la vita. Ma felice, come chi ha perduto tutto e non si aspetta più niente. Gli si erano seccate le lacrime. Era disperatamente sereno (pp. 112s.).

È dunque attraverso l’attività poetica che il Petrarca del Copista riesce a commutare il senso angoscioso del vuoto in una liberazione serenatrice: lo intuisce Margherita B., quando scrive che l’unica difesa che lo mantiene in vita è il piacere della scrittura, tanto che tutto quello che gli resta, la sua esistenza stessa, negli ultimi anni consiste nella revisione del Canzoniere.

 

Il copista e la faccenda del venerdì

La lettura del breve romanzo, con i suoi violenti contrasti tra il “basso corporale” e l’“alto spirituale” della vita quotidiana di Petrarca, può dunque preludere a un incontro meno ingessato e scolastico delle corrispondenti pagine di storia della letteratura, consentendo all’insegnante sia qualche affondo critico che qualche lettura non scontati, anche fuori dei libri scolastici in circolazione.

Ad esempio, si può riflettere sul titolo: chi è il copista? Petrarca stesso, coi suoi autografi e le stesure provvisorie eccezionalmente giunte fino a noi, e in particolare quelle del “codice degli abbozzi” Vaticano Latino 3196? oppure Giovanni Malpaghini, il suo copista di fiducia, che trascrisse la parte non autografa del codice Vaticano Latino 3195, la cui stesura – è convinto il Santagata “critico” – è da considerare definitiva, orchestrata secondo un preciso piano narrativo?

E perché Santagata ha scelto un venerdì come punto di riferimento degli ultimi giorni del poeta? A questo proposito, si può proporre la lettura di qualche brano di un altro petrarchista illustre, Francisco Rico, che alla questione ha dedicato il saggio I venerdì del Petrarca (Adelphi, Milano 2016): «Il venerdì del Petrarca, dies veneris, feria sexta (perché la settimana liturgica comincia la domenica), non è il venerdì nefasto della superstizione popolare, né solamente il venerdì devoto del cristiano: è il giorno che non passa inosservato, senza far sentire la propria singolarità, oppure che segna un certo evento con un sigillum che gli conferisce un significato ulteriore. È quindi uno degli archetipi e termini di paragone che servono a Francesco per situarsi nel mondo […]. Marco Santagata ha parlato della “sublime nevrosi petrarchesca di riscriversi senza posa”. Riscriversi, è chiaro, per riviversi […]. Vale la pena di ricordare che un temperamento con tutti quei sintomi di senso di colpa, depressione, ossessività, scrupoli assillanti, che sono distintivi degli introversi, sovente cerca di proteggere la propria identità dissimulandola sotto quella di un modello prestigioso. È appunto il caso di Petrarca. Ma questa ricerca di exempla e falsarighe come appigli per sussistere è parallela al ricorso a fissazioni, riti, schemi e paradigmi temporali che emergono a ogni passo nella sua vita e nella sua opera, e contribuiscono ad articolarle e arricchirle di un significato peculiare. Che il venerdì fosse uno di questi è cosa che si rende evidente un po’ ovunque» (pp. 25s.).

Sotto una diversa luce, a questo punto, si può presentare il celeberrimo Era il giorno ch’al sol si scoloraro (III): dal sonetto CCXI (e da più postille petrarchesche) risulta che il primo incontro con Laura avvenne – com’è noto – il 6 aprile 1327, che però… era un lunedì! Lascio ancora la parola a Rico: «Le tre precisazioni del giorno, del mese e dell’anno che abbiamo sempre ben presenti quando leggiamo il Canzoniere furono incluse da Petrarca solo nelle ultime fasi della sua opera [...]» (p. 50), mentre originariamente «nella coscienza del poeta, il “dì sesto d’aprile” del Canzoniere non voleva designare neppure un Venerdì Santo» (p. 53), convinzione radicata tra gli esegeti, ma che probabilmente discende dal topos letterario dell’incontro degli amanti in occasione di una solennità liturgica.

In conclusione, «il venerdì è, nell’opera di Petrarca, innanzitutto il giorno dell’apparizione e della morte dell’amata, e quindi pietra di confronto per rivisitare tutto il mito di Laura; ma nella sua vita non scritta il venerdì è anche il giorno deputato a determinati comportamenti di particolare rilevanza o portata simbolica, o al quale attribuisce, senza mai dichiararlo, Erlebnisse straordinariamente significativi, come la presunta ascesa al Mont Ventoux che ispira la più bella delle sue pagine.

D’altronde, il poeta sente l’esigenza di dare ordine e forma alla sua esistenza proprio come se questa fosse un testo, aprendo e chiudendo capitoli, e stabilendo punti di riferimento che segnano paralleli o contrapposizioni fra diversi momenti, li colorano della tonalità propria di una particolare categoria di avvenimenti oppure restituiscono la permanenza negata dalla fugacità del tempo. Il ricorrere nel Canzoniere degli anniversari del 6 aprile 1327 traccia l’itinerario di una passione; la ricorrenza di altri venerdì nella vita di Francesco scandisce altri passaggi delle sue “experiences in life”. La vita non scritta richiede anch’essa dispositio e struttura […] dietro una data di Petrarca, dietro la semplice menzione di un giorno della settimana – persino del giorno in cui nacque –, c’è sempre un disegno d’insieme che va oltre la materialità del dato – esatto o meno –, una trama di implicazioni da sciogliere.

Nella parabola petrarchesca si possono rintracciare non pochi momenti e comportamenti nei quali la persona di Francesco appare piuttosto come personaggio e i fatti hanno lo stesso valore di un testo letterario, anzi funzionano come tale, lo sostituiscono» (Rico, cit., pp. 15s.).

Come si vede, dalla questione del venerdì si può passare ad altre considerazioni: la complessità della gestazione del Canzoniere nel suo assieme e nei singoli componimenti; il suo essere costituito come storia ideale e spirituale, e non come autobiografia da intendersi in senso proprio e realistico; il valore dei simboli in Petrarca, e in particolare di quelli relativi alla concezione del tempo.

Varrà la pena, allora, di leggere in classe un altro sonetto del “canone scolastico”, Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno (LXI), osservando che «nominare il tempo è un modo per dominarlo. Nell’atteggiamento di Petrarca c’era un impulso perpetuo ad afferrare la vita che scivolava alle sue spalle applicando etichette cronologiche a vissuti e fantasie. Così li convertiva in frammenti di un racconto unitario, con un disegno complessivo riconoscibile come tale» (Rico, cit., p. 37).

In questa luce, si può suggerire di interpretare Il copista come un “metaromanzo” che tenta anch’esso di convertire vissuti e fantasie petrarcheschi in racconto unitario, ma che sulle fondamenta di un’operazione squisitamente filologica impianta forse anche altre inquietudini, altre angosce più moderne, che appartengono tanto allo scrittore settantenne, quanto a noi.

 

Dal romanzo alla lettura della “canzone delle visioni”

A proposito dell’operazione filologica di Santagata, nel romanzo va rilevato soprattutto il racconto della gestazione di una canzone che Petrarca riprese in mano su insistenza di Boccaccio, e che completò dopo più tentennamenti e modifiche, corrispondenti a una grave crisi spirituale, legata alla profonda solitudine in cui ormai egli viveva, tale da indurlo addirittura a dubitare dell’immortalità dell’anima.

Si tratta della canzone CCCXXIII Standomi un giorno solo a la fenestra, cui lo stesso Santagata ha dedicato il bel saggio Il naufragio dei simboli, pubblicato nel 1992, nel 1995 e infine, con rinnovato titolo Il lutto dell’amante, nel 1999[1]: studio critico da cui scaturì la versione romanzesca della sofferta stesura della canzone.

Questo può dunque essere in classe lo spunto per la lettura di un testo in genere non inserito nei percorsi scolastici (e che dunque consentirebbe di svecchiare un poco le pratiche consolidate), ma che può offrire un avviamento al metodo filologico attraverso le spiegazioni critiche di Santagata stesso.

Il testo è costituito da sei “visioni” cui assiste l’io lirico stando da solo alla finestra (una finestra materiale? La finestra della fantasia? Un polittico pittorico?), rimanendone turbato e addolorato, in quanto si concludono tutte con la distruzione o la morte dell’elemento centrale.

Le prime due strofe – che furono scritte verso il 1365 – risultano diverse dalle successive, aggiunte  nel 1368, come si può rilevare dalle differenze di ideazione e contenuto: 1) le stanze 1-2 sono irrelate sia tra loro sia rispetto alle quattro successive, che invece hanno tutte la stessa ambientazione (un locus amoenus che pare Valchiusa); 2) sono osservate dal di fuori (la finestra), cioè da lontano, mentre nelle seguenti l’io è immerso nel paesaggio (tanto che nella quarta stanza vi si siede); 3) rappresentano simbolicamente solo Laura (la fera con fronte umana e la nave dagli attributi d’oro e d’avorio, come quelli delle descrizioni di Laura), mentre le stanze 3-6 rinviano anche ai simboli della poesia, e dunque dell’umanesimo petrarchesco (il lauro, le fresche dolci acque della fontana, la fenice, la donna leggiadra e bella) e hanno dunque significato poetico, oltre che erotico; 4) le prime due scene – anche se la “caccia” è un topos medievale (cf. Nastagio degli Onesti) – possono essere considerate realistiche, mentre la distruzione degli elementi del “boschetto” ha natura inopinata e innaturale, violentissima, e dunque più conturbante per il poeta-osservatore.

Centro del dramma esistenziale, come suggeriscono le correzioni di Petrarca stesso (e qui, in classe, si potrebbe anche mostrare la fotografia del codice per meglio far capire come lavora il filologo), sono i vv. 71s. della canzone, in cui si descrive la morte di Laura, paragonata ad Euridice: nella prima versione ella “in terra cadde ove star pur sicura / credeasi; o mondo rio, nulla in te dura ”, poi modificata in “cadde ove si credea star pur sicura / Nulla altro che pianto al mondo dura”, con l’aggiunta marginale, dopo che l’ultima stanza era stata terminata ma prima che lo fosse il congedo, di “lieta si dipartio nonché secura”. Così, la morte di Laura, dapprima emblema di caducità universale nell’angoscia senza speranza del poeta, si carica infine della simbologia rassicurante del martirio cristiano (nel romanzo, a causa del timore nutrito da Petrarca di dispiacere a Francesco da Carrara).

Letta e interpretata la canzone, si possono infine proporre agli studenti alcuni brani del saggio critico di Santagata, ponendoli a confronto con le scelte narrative del Copista, che altro non ne sono che la drammatizzazione, la mise en abyme:

«Nel lauro, nella fonte, nella fenice è la poesia stessa a morire: e questo evento, nell’ideologia petrarchesca, si configura come la morte contro natura per eccellenza […]. Ma poi, improvvisamente, tutto è crollato: “ogni cosa al fin vola” (55) e nulla si rigenera. Gli dei hanno tradito i patti o quei patti non sono mai esistiti? La natura ha infranto le sue leggi o l’avere scorto delle leggi là dove regnano solo il caos e la morte è stato l’atto presuntuoso di un poeta umanista? […] E’ il testo che stiamo esaminando, o meglio, è la sua storia redazionale a presentarsi come una faticosa e difficile risposta a domande simili a quelle appena formulate […].

Nella canzone nessuna identificazione è possibile, perché la poesia è già morta nei suoi emblemi, e quindi nessun Orfeo può provarsi a richiamare in vita Laura-Euridice. L’identificazione mancata sancisce definitivamente lo scacco della poesia, l’incapacità di questo strumento, che il poeta umanista aveva creduto divino, a fare fronte alla morte: dalla poesia non viene alcun risarcimento […].

Euridice non può essere richiamata alla vita terrena, ma l’Orfeo cristiano sa che a essa si schiude un’altra vita. Di questa prospettiva, però, l’abbozzo, nelle sue prime formulazioni, non contiene traccia. La morte della donna è totale: non l’accompagna nessun accenno a un possibile ritorno (e a una sopravvivenza tra gli uomini assicurata dalla poesia) e neppure alla beatitudine della vita ultraterrena [...].

Anche se per pochissimo tempo, la morte di Euridice era stata concepita come una morte laica, priva di consolazioni religiose. L’aver omesso ogni allusione alla vita eterna, per un poeta cristiano, è un fatto talmente significativo da acquistare quasi il senso di una affermazione: […] si rovescia automaticamente in un negare [...].

Il Petrarca vecchio vede morire tutto intorno a lui, tutti i miti in cui ha creduto, e sui quali ha edificato la sua esperienza umana e poetica: è il taedium vitae, il fastidio dell’esistenza che ha perso ogni sapore[2] [...].

La fenice poteva essere simbolo dell’anima immortale, figura del Cristo che rinasce, emblema della Sapienza divina che fa rinascere. Proiettata su questo sfondo culturale e su quello, ravvicinato, del paradiso in cui il serpente trionfa, l’immagine della fenice che “in un punto disparse” (v. 59) per non più riapparire, acquista quasi un significato eversivo. Le visioni del boschetto, nel loro insieme, sembrano assumere una simbologia religiosa della speranza per negarla, anzi, per trasformarla nell’affermazione, paradossale e drammatica, dell’impossibilità della speranza [...].

Siccome la morte irrituale e cruenta non ha precedenti nella tradizione, è probabile che l’invenzione petrarchesca si ispiri alla sorte di qualche altro uccello simbolico […]. Il pellicano-fenice di Petrarca sparge invano il suo sangue: né gli emblemi valchiusani né quelli poetici né lui stesso rinascono grazie a questo estremo sacrificio. Che non è allora un sacrificio, ma un atto di disperazione, senza futuro [...]. Si potrebbe addirittura giungere a ipotizzare una identificazione fra la fenice del testo e il solitario di Valchiusa […]: un momento di disperazione esistenziale che sembra travalicare in una implicita ammissione di miscredenza […].

Appare evidente […], una volta che la “donna leggiadra” ha dismesso i panni di Euridice per restare con i suoi propri di santa cristiana, che nel boschetto valchiusano l’innamorato non vede morire Laura, ma la simbologia e la mitologia che egli, in quanto poeta, aveva costruito su di lei [...].

Le visioni nel boschetto raccontano la caduta rovinosa e senza compenso di una Laura culturale e artificiale, di un universo di simboli e di segni che il poeta umanista, con un atto di presunzione, aveva ritenuto immortali, come se emanassero dalla divinità stessa. Di fronte alla morte concreta e reale, gli dei della poesia denunciano la loro fallacia, la loro impotenza a fare fronte agli eventi, la loro incapacità di consolare. Costretti a confrontarsi con il vero Dio che dona gioia e sicurezza nel momento supremo, si rivelano una illusione» (pp. 207-221 con tagli).

Ma su questo, forse, il filologo e lo scrittore non concordano appieno: nel romanzo, il  «dolce di morir desio» con cui si chiude la canzone CCCXXIII sembra «una menzogna troppo grossa», un’idea che fa «inorridire» il vecchio poeta, che la accoglie dopo varie esitazioni pensando: «via, che t’importa […] è solo letteratura» (p. 131). Come dire che la letteratura (cioè Petrarca personaggio del romanzo Il copista) ha delle ragioni che la storia della letteratura (cioè Petrarca quale come personaggio si è  voluto rappresentare nelle sue opere) ignora.

 

Il racconto del racconto

Tra le ragioni della letteratura che spesso a scuola si tendono a sottovalutare, c’è anche (se letteratura è!) la sua capacità mitopoietica e affabulatoria, se il libro letto riesce a risuonare da ipotesto in nuove scritture che creativamente ne rielaborino temi e stile.

Così, l’umanità, la fragilità, il turbamento, la sofferenza di quest’uomo straordinario, che si ritrova da solo ad affrontare, o meglio ad attendere, il sopraggiungere inevitabile della morte, riecheggiano suggestivamente nella sintesi di Sara P.:

«Un tempo, fin verso i quaranta, l’illustre poeta, puntualmente, si svegliava due ore prima dell’alba e operoso e voglioso si precipitava al tavolo di lavoro.

Il tempo allora non gli passava mai: lo trascorreva leggendo e rileggendo le opere dei grandi latini, scrivendo un grandioso numero di opere poetiche, storiche, morali, enciclopediche, di lettere, invettive e orazioni auliche e originali.

Di quel fervore era rimasto ben poco: alzarsi dal letto la mattina era diventata un'impresa assai ardua, e la sua mente, vuota di stimoli, non lo contrastava.

Non provava più la voglia di esplorare strade nuove, di evadere da quella sua quotidianità così monotona, di sperimentare cose nuove; non aveva neppure la forza, o forse la voglia, di svegliarsi da quel torpore, che rendeva grigie tutte le sue giornate, e di riprendere in mano la sua vita.

Eppure la sua produttività non era diminuita, anzi, era addirittura cresciuta. I suoi scritti riscuotevano sempre grande successo e venivano accolti come avvenimenti da commentare, discutere, elogiare in pubblico e in privato.

Probabilmente, si diceva, i suoi estimatori non erano del tutto sinceri, o quanto meno, nelle nuove opere applaudivano ancora le opere vecchie, perché gli uomini sono un gregge privo di discernimento, guidato per lo più dalla campanella della fama e del sentito dire, un gregge belante dietro ai valori consacrati.

E come se non bastasse, all’astio che provava nei confronti della vita, si era aggiunto il rifiuto di misurarsi con il proprio decadimento fisico: si muoveva lentamente, ogni piccolo movimento gli provocava dolore, non si curava più della sua persona, era tormentato costantemente dai suoi disturbi intestinali e dalla acidità di stomaco, che testimoniavano la sua sofferenza fisica, oltre che psicologica.

Era in quei momenti di grande afflizione che riaffioravano i suoi ricordi più dolorosi, che a volte scatenavano tutta la sua ira, altre volte gli procuravano un tale dispiacere da farlo sciogliere in un pianto silenzioso.

Sentiva il bisogno di avere al suo fianco qualcuno che si prendesse cura di lui, ma era rimasto  come un bambino abbandonato, desideroso di carezze e amore: l’epidemia di peste non solo gli aveva portato via la sua amata, Laura, ma anche suo figlio Giovanni e il suo diletto nipotino, Franceschino, che amava immensamente e in cui aveva riposto la speranza di una discendenza; infine, a peggiorare la situazione, c’era stato il dolore insopportabile per la fuga improvvisa e inaspettata del suo fedele copista, Giovanni Malpaghini.

Più volte si era ritrovato a pensare a come sarebbe stata la sua vita, o meglio, a come ne avrebbe trascorso gli ultimi anni. Quella che stava vivendo, però, non era la vecchiaia che si era sempre immaginato, ed il pensiero della morte si era fatto sempre più strada nel suo cuore e nella sua mente: così, quando la sensazione di vuoto lo sovrastava, non poteva far altro che continuare a sperare di vivere ancora. Egli era ossessionato dalla fugacità del tempo e della vita stessa, dall’incalzare della morte. Il sol pensiero lo angosciava profondamente, gli causava grande sofferenza. Era tormentato dal ricordo della sua vita passata, dallo scorrere inesorabile dei giorni e, dunque, della vita in sé. Come se non bastasse, viveva nella convinzione che il futuro non gli avrebbe riservato più nulla di buono».

 

Ringrazio Miriam Asif, Margherita Bettazzi, Martina Brusori, Greta Crous Ramiò, Sofia Gardini, Giulia Massari, Federica Mazzone, Asia Monteleone, Benedetta Monteleone, Martina Mortelliti, Sara Pagnozzi e Francesca Pedretti Antonini per le loro preziose osservazioni, senza le quali questa recensione sarebbe stata molto diversa.

 

Giugno 2021



[1]   M. Santagata, Il naufragio dei simboli (R.V.F. 323), prima in “Cenobio”, 2/XLI, 1992, pp. 133-151; poi in "Chroniques italiennes", XI, n. 41, 1995, pp. 19-41 ; infine in Amate e amanti. Figure della lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 195-221 (cap. sesto Il lutto dell’umanista, da cui cito).

[2]Il paragrafo è citazione di M. Feo, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, in Il Petrarca ad Arquà, Padova, Antenore, 1975, pp. 117-148.