Maria Raffaella Cornacchia - Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia

«Libri di oggi»: Bruno Arpaia, Qualcosa, là fuori, Guanda, Milano 2016, pp. 220.

Maria Raffaella Cornacchia

Classi di riferimento: 4°-5° anno di scuola secondaria superiore

 

Sinossi: Nel 2078 Livio Delmastro, un anziano professore di neuroscienze, decide di lasciare Napoli, dove è nato verso il 2000, per intraprendere insieme a migliaia di disperati un lungo, costosissimo e rischioso viaggio a piedi verso la Scandinavia, divenuta a causa del clima sempre più torrido l’unica zona abitabile d’Europa. La spedizione, organizzata dalla potente e tirannica agenzia TransHope, è guidata e difesa principalmente da donne; il viaggio è estenuante e pericolosissimo, le risorse alimentari contingentate, sicché il numero dei migranti si riduce tragicamente ogni giorno.

La narrazione è inframezzata dai ricordi di Livio: la sua giovinezza, le amicizie, l’insegnamento alla prestigiosa università di Stanford, la sua storia d’amore con Leila da cui nacque un figlio. Si apre così uno spaccato sempre più apocalittico sulla trasformazione politica e sociale che accompagnò il dissesto ambientale, col diffondersi di superstizioni, razzismo, intolleranza, miseria e violenza, e di cui fece tragicamente le spese la famiglia del protagonista.

Per questo il viaggio per Livio è  paradossalmente, più che anelito alla vita, frutto di una disperata voluptas moriendi: ma la salvezza, nell’inferno di un’Europa devastata e senza più anima, sta molto più che nella promessa di una migliore condizione materiale nel ritrovare quei sentimenti che costituiscono l’humanitas – rispetto, solidarietà, altruismo e amore   e che soli possono offrire una reale speranza per la società futura.

 

Complessità e attualità, titolo e genere

 

Tra le ragioni per cui proporre agli alunni più grandi la lettura di Qualcosa, là fuori porrei in primo piano l’educazione alla complessità: se è vero che il linguaggio di Arpaia, giornalista e divulgatore scientifico, è scorrevole e immediato, il romanzo intreccia però più temi di estrema attualità, proponendoli al lettore in una visione articolata e problematica, che supera i facili luoghi comuni.

Fin il titolo: a cosa si riferisce Qualcosa là fuori? Alle pp. 46s. è lo stesso protagonista a spiegarlo, alla luce delle neuroscienze, in un’interpretazione che potrebbe essere estesa all’intera narrazione, a qualsiasi narrazione, che sempre sfida la capacità dei nostri neuroni di ricostruire una “nostra” realtà:

 

«Ricordo ancora benissimo le tue lezioni, quando dicevi che il nostro cervello non registra fedelmente la realtà, ma la ricostruisce, in qualche modo la crea… Dicevi che c’è qualcosa, là fuori, ma che la sua struttura è costruita dai nostri neuroni, che la elaborano a partire dalle percezioni e poi ce la raccontano a modo loro… Ecco, a volte spero che tutto questo» Marta allungò in avanti il mento, per indicare ciò che li circondava «non sia davvero la realtà, ma solo una nostra costruzione, una storia che ci siamo inventati, un nostro incubo…»

«Purtroppo, qualcosa là fuori esiste davvero» disse Livio, con uno sguardo dolce, venato di tristezza, che aveva ripescato da qualche remoto pantano della memoria.  «Noi le diamo colori e sapori, che in realtà non esistono, la rielaboriamo in uno spazio tridimensionale, che quasi sicuramente è solo un’illusione, e dentro un tempo che procede inesorabile dal passato al futuro, che con ogni probabilità non è reale. Eppure questa è l’unica maniera in cui il mondo là fuori può essere capito da noi, perché l’evoluzione ci ha formati così e non in un altro modo… Magari quel qualcosa non è come noi ce lo rappresentiamo, eppure qualcosa, alla fin fine, esiste. E temo, almeno nelle conseguenze, che sia abbastanza simile a quello che stiamo vedendo…».

 

Che questa spiegazione tuttavia passi quasi inosservata a prima lettura, me lo hanno dimostrato le ipotesi avanzate da alunni di quarta liceo – i cui programmi di filosofia, peraltro, vertono proprio sul rapporto tra realtà e rappresentazione – cui ho posto il quesito dopo la lettura del libro. Secondo la maggioranza, il titolo fa riferimento alla ricerca continua da parte dei membri della spedizione di “qualcosa là fuori”, qualsiasi cosa, che doni speranza, proprio mentre attraversano distese immense di sabbia e deserti aridi, che si perdono all’orizzonte e che sembrano non finire mai. Perciò, il “qualcosa, là fuori” sarebbe la Svezia: la terra promessa, dove chi riesce a fuggire dal mondo che l’uomo stesso ha distrutto ha la possibilità di ricominciare. Certo, per affrontare ciò che c’è “là fuori” occorre molto coraggio, ma è l'unico modo per salvarsi e tornare a vivere in modo dignitoso, come fanno migliaia di migranti ogni giorno nella realtà.

Qualche altro ha al contrario avvertito un senso di minaccia nel titolo: “là fuori” per i disgraziati viaggiatori ci sono, oltre a una natura avversa, le insidie di invisibili presenze (le luci che Livio intravvede di notte), pronte ad aggredirli e depredarli.

Secondo altri, infine, il titolo allude cupamente al nostro modo di essere e di affrontare la vita, quello che si verifica “fuori” di noi, e in particolare al dissesto ambientale (inquinamento, disastri naturali, ecc.), che spesso trascuriamo o ignoriamo quasi fosse solo qualcosa di estraneo, che non ci riguarda, mettendo così in pericolo il futuro nostro e dell’intero pianeta.

Anche l’individuazione del genere letterario di appartenenza e degli ipotesti non è poi così scontata come sembrerebbe a prima vista: il romanzo è indubbiamente una distopia, anzi più precisamente una climate fiction, disposta su due piani temporali entrambi riferiti al futuro: l’epoca della giovinezza e della maturità di Livio (dunque dai giorni nostri in avanti) e quella del suo “presente” in uno spazio apocalittico, devastato dal cambiamento climatico e dalla violenza sociale (2078), secondo uno schema che ritroviamo ad esempio in alcuni romanzi della canadese Margaret Atwood (Il racconto dell’ancella, 1985 e I testamenti, 2019; L’ultimo degli uomini, 2003 e i suoi sequel).

È però anche una road story che si configura come descensus ad inferos, perché a ogni tappa del loro viaggio i migranti incontrano nuovi orizzonti di devastazione ambientale e degradazione umana: la particolarità è che non si tratta geograficamente di una discesa (verso sud o in profondità), ma di una salita verso un nord-paradiso, sulla cui frontiera si estende un limbo forse più spaventoso dell’inferno da cui provengono Livio e i suoi compagni, e che ci ricorda campi di pomodori a noi ben noti, su cui oggi vanno a naufragare i tanti migranti vittime del racket:

 

Adesso il suo futuro si riduceva a tornare nell’inferno, oppure a sopravvivere con la schiena curva tra filari di fave e pomodori, ad aggirarsi sul litorale baltico come quei disperati (p. 187).

 

E del resto, la natura continua ad essere ferocemente ostile anche quando la meta è ormai prossima, solo che capovolge la temperatura dal torrido al freddo:

 

Tremavano di freddo, esposti al vento, fradici com’erano. Lampi lontani si disegnavano contro il cielo buio, illuminandoli per fugaci istanti. Le onde, adesso, li facevano andare in altalena (p. 198),

 

fino a un arrivo che, evocando gli orrori dei lager, rischia di non promettere altro che l’atroce ironia di un Arbeit che macht frei:

 

… li circondarono cinque o sei automezzi che avanzavano in silenzio, senza produrre il minimo rumore. Ne scese una ventina di invasati, di poliziotti con le tute bianche, i guanti asettici, gli stivali stagni, i caschi con la mascherina. Sembravano astronauti sbarcati su un pianeta popolato da una specie aliena.

«Mettetevi in ginocchio, le mani sulla testa» urlarono, in inglese e in arabo. Poi, all’improvviso, spararono due o tre colpi in aria […]

Non gli bastava portarli in gattabuia. Volevano umiliarli (p. 209).

 

L’elemento di narrazione biografico-memoriale è peraltro tanto marcato da indurre un errore di percezione: il lettore ha l’impressione di aver letto una storia narrata in prima persona, mentre entrambi i livelli del cronotopo sono raccontati da un narratore esterno (o da Livio che parla in terza persona?), forse non onnisciente, ma comunque a conoscenza dei più reconditi pensieri e ricordi del  protagonista:

 

di quei sedici anni dopo la morte di Matías e Leila avrebbe ricordato come una vecchia pellicola sfocata il ricovero del padre in ospedale, la sua morte, che non lo aveva scalfito per davvero, Napoli che a poco a poco rimaneva senza elettricità e senza fogne, con l’immondizia in strada che si arrampicava fino ai piani alti delle case… (pp. 189s.)

 

fino a sfiorare il discorso indiretto libero:

 

Sedici anni. Sedici anni senza che qualcuno si preoccupasse per la sua salute. Sedici anni che non provava sensazioni che desiderava condividere, che non aveva voglia di occuparsi di nessuno. Sedici anni che fuggiva dalla vita. Adesso, invece, c’era Marta, c’erano Miguel e Sara. Adesso, forse, la vita l’aveva rintracciato, anche se in quei sedici anni Livio aveva fatto l’impossibile per non farsi scovare (p. 208).

 

Così, tra tema del viaggio e dimensione introspettiva non può non trovar spazio il romanzo di formazione, in cui l’elemento originale è che Livio, quando la intraprende, è ormai vecchio: come dire che non è mai tardi per ricominciare (a vivere, ad amare).

E infine, l’autore si premura di dare la consistenza del realismo e della denuncia a un romanzo che solo a primo sguardo può passare per fantascientifico-apocalittico, mentre andrebbe forse classificato come conte philosophique, in cui si intrecciano apparenza storica, divulgazione scientifica e discussione politica:

 

Gli scenari di questo libro riprendono (e anzi, spesso ricalcano alla lettera) quelli delineati da Gwynne Dyer nel saggio Le guerre del clima (Marco Tropea Editore), ma li ho attentamente confrontati con i rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) e della European Environment Agency, i quali, però, secondo numerosi scienziati del clima, peccano sistematicamente per difetto (Avvertenza, p. 219);

 

Per come la vedrebbe un economista, i politici hanno anche una giustificazione razionale per non muovere un dito […]. Dal punto di vista della teoria dei giochi la strategia ottimale per ogni nazione è fare in modo che siano gli altri a ridurre le emissioni […]. Se qualcuno, spendendo o perdendo un sacco di soldi, adottasse delle misure serie per non immettere carbonio nell’atmosfera, tutti ne trarrebbero benefici, però i costi li pagherebbe soltanto lui. Perciò, alla fine, in mancanza di un vero governo sovranazionale, tutti aspettano che siano gli altri fare la prima mossa, e il risultato è quello che sappiamo (p. 85).

 

L’opera dunque non mira affatto all’intrattenimento, ma piuttosto, citando fonti scientifiche, a una attendibilità che dev’essere sostanza della denuncia, cui sono particolarmente sensibili i giovani, spesso seguaci di Greta Thunberg coi suoi Fridays for future, che si sono sentiti tanto più coinvolti accorgendosi che – a conti fatti – Livio, pur anziano nella distopia del romanzo, è nato nel 2000, cioè è un loro coetaneo, e affronta dunque le loro stesse crisi e problematicità, non solo ecologiche. Valga per tutti un esempio, di sapore bradburiano, selezionato proprio da un alunno tra i passi da segnalare:

Ma vi rendete conto? Qui, ormai, siamo alla fine della civiltà della scrittura e tutti se ne fregano… Invece è una catastrofe, stiamo tornando indietro di centinaia d’anni e il mondo tira dritto come se niente fosse… […].

Cultura? […] Qui, gratta gratta, il novanta per cento di quello che si spaccia per cultura è puro e semplice intrattenimento. Lodevole, a volte divertente, ma pur sempre intrattenimento. Invece la cultura è anche fatica, tempo, pensiero… E se l’86 per cento dei ragazzi praticamente non sa nemmeno leggere, vuol dire che a poco a poco perderemo pezzi, saperi, conoscenze… E torneremo indietro. Ma come fate a non preoccuparvi? (pp. 73s.).

 

Unidentified Narrative Object

 

Insomma, se si riflette sulla forma del romanzo e sui suoi obiettivi, più elementi fanno pensare a un UNO – Unidentified Narrative Object – del NIE (New Italian Epic) teorizzato da Wu Ming 1, che tra l’altro tra i suoi autori nomina anche Bruno Arpaia (per L’angelo della storia, 2001), e che peraltro non sarebbe male – a partire da un romanzo come questo – presentare a scuola, svecchiando programmi che spesso si fermano agli anni ‘50 del secolo scorso. I sette elementi caratteristici di queste opere ci sono pressoché tutti: il rifiuto del tono distaccato e "gelidamente ironico" predominante nel romanzo postmoderno; lo "sguardo obliquo" o l’“azzardo del punto di vista”, che in questo caso consiste nella voce degli ultimi (i migranti del futuro quali allegoria dei migranti del nostro presente); la complessità narrativa unita a un'attitudine “pop” (la veste distopica oggi molto di moda); la narrazione di potenziali ucronie (“cosa succederà se…?”); il rigetto di un unico genere letterario e lo sperimentalismo di ibridazioni inattese con effetti “perturbanti”; e infine perfino il controverso tema della "morte del Vecchio", cioè della scomparsa di un capostipite o fondatore, che rappresentava un mondo ormai in crisi (Livio è appunto uno scienziato che appartiene alla generazione responsabile del futuro disastro ecologico, e la sua morte coincide con l’inizio di una vita nuova e incerta per i suoi compagni).

Ma soprattutto, del NIE è riconoscibile la dimensione “epica”, evidente in tante pagine del romanzo: «Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all'interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell'intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso. Spesso il racconto fonde elementi storici e leggendari, quando non sconfina nel soprannaturale. Molti di questi libri sono romanzi storici, o almeno hanno sembianze di romanzo storico, perché prendono da quel genere convenzioni, stilemi e stratagemmi» (Wu Ming 1, Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic, 2008).

 

La rappresentazione “ecocentrica” della natura

 

Su tre temi del romanzo val la pena di soffermarsi, non solo perché nel loro intreccio confermano caratteristiche NIE, ma soprattutto per la vis e l’attualità del loro impegno, che possono anche favorire una lettura contrastiva dei classici del “programma scolastico”: la natura, la donna, la tolleranza.

La natura rappresentata nel romanzo è quella dopo “il punto di non ritorno” dovuto al riscaldamento climatico. Sin dalla prima descrizione in incipit è connotata per negazione: di luce, di movimento, di colore, di aria:

 

Sopra di lui, vide una notte di luna nuova e nuvole che nascondevano le luci delle stelle. Le stesse nubi immobili che da mesi e mesi, da quando avevano iniziato il viaggio, splamavano le giornate di grigiore, di colori smorti, di aria spessa e calda, mentre le notti erano tinte di un buio senza scampo, gelido e compatto (p. 9).

 

Il predominante color ocra e l’afa sembrano trasportare i lettori in un “altrove” che evoca deserti lontani, ma dopo poche pagine, ecco la scoperta straniante che l’“altrove” è qui, si è sovrapposto a paesaggi a noi ben noti e di manzoniana memoria, pur senza cancellarne totalmente la familiarità, anzi rendendola anche più aliena e spaventosa, come in certe descrizioni di Stephen King:

 

Adesso risalivano il vecchio corso del Lambro, ma del fiume non c’era più traccia. I pendii di fango si erano seccati da tempo, formando una serie di basse dune, con le creste ingiallite per il caldo. Le uniche piante in grado di sopravvivere erano mostri che immagazzinavano l’acqua, serbatoi viventi come cactus e agavi, che loro sfruttavano per ricavarne il prezioso liquido, oppure qualche raro arbusto simile all’agrifoglio.

Passarono sotto un ponte diroccato che doveva essere quello dell’autostrada, poi, qualche chilometro più in là, ne trovarono un altro, di mattoni, ad archi ribassati, intatto. Sulla sinistra, oltre l’argine, tra le colonne di fumo che salivano dai tetti delle case smantellate, s’intravvedeva un campanile barocco.

«È Lodi, è Lodi» […]

Attraversarono campi polverosi, merlettati dalle anse dell’Adda che formavano profondi avvallamenti secchi nel terreno. Abbarbicata all’ombra sui pendii rivolti a nord, ancora resisteva una sterpaglia bassa che qua e là s’incendiava per autocombustione. Ogni tanto incrociavano cascine e capannoni industriali disfatti […].

Faceva ancora caldo. Il cielo si era tinto del rosso verdastro del tramonto e la luce sembrava appena disseppellita. Era una luce lenta, piena di grumi, di impurità, che arrivava fino a loro superando strati di gas e di pulviscolo (pp. 20s.).

 

Persi i confini tra animato e inanimato e tra naturale e artificiale: le dune hanno «creste ingiallite», le piante-«mostri» sono «serbatoi viventi», le anse dell’Adda sono “merletti”, la sterpaglia dimostra una residua vitalità nella sua “resistenza” «abbarbicata», mentre sull’asprezza del paesaggio e sulla fatica dell’attraversamento insistono le sequenze di consonanti raddoppiate o aspre e alcune ricercate iuncturae lessicali o fonetiche. Incongruo, a metà della descrizione, traccia di una civiltà ormai irrimediabilmente perduta, unica colonna che non sia di fumo e di devastazione, si staglia il «campanile barocco» di Lodi.

Nella rappresentazione fredda, impietosa, il paesaggio ‒ in cui i relitti lasciati dall’uomo si vanno progressivamente fondendo negli elementi naturali, in un unico grandioso sistema metamorfico ‒ pare quasi rappresentato con uno sguardo non antropocentrico, ma “obliquo” in quanto “ecocentrico”. È così che, sottilmente, impercettibilmente, Arpaia opera una «sovversione» del linguaggio: «di primo acchito lo stile appare semplice e piano, senza picchi né sprofondamenti, eppure rallentando la velocità di lettura si percepisce qualcosa di strano, una serie di riverberi che producono un effetto cumulativo. Se si presta attenzione al susseguirsi di parole e frasi, gradualmente ci si accorge di un "formicolìo", un insieme di piccoli interventi che alterano sintassi, suoni e significati» (Wu Ming 1, cit., p. 20).

Furono gli uomini a sottovalutare le conseguenze e i tempi del riscaldamento globale che, innescato da loro, divenne poi rapidamente un meccanismo in grado di autoalimentarsi irrimediabilmente. Con la sua narrazione, Arpaia offre perciò agli studenti lo spunto per un confronto con la posizione dei classici sui dualismi del tema del rapporto tra uomo e natura (madre o matrigna, dominata dall’uomo o dal caso, selvaggia o antropizzata, realtà a sé o frutto delle nostre percezioni), da Ariosto a Tasso a Parini (IV liceo), al Romanticismo, e in particolare Leopardi, a Pascoli a Montale e oltre (V liceo). Certo, è subito a Montale che va il pensiero rileggendo il primo passo che abbiamo citato (pp. 46 s.), con quel sospetto che a noi non si palesi che uno “schermo” prodotto dalla ricostruzione dei nostri neuroni, dietro cui si cela una verità inattingibile.

Eppure, è all’eternità indifferente al susseguirsi di entità transeunti e minori della Natura leopardiana (Dialogo della Natura e di un Islandese, Canto notturno di un pastore errante ecc.), che forse si può ricollegare la cifra più moderna dell’ “ecocentrismo” di Arpaia, specie se lo si confronta con la teorizzazione del NIE: «Il pianeta ha ancora miliardi di anni di fronte a sé, e a un certo punto proseguirà il cammino senza di noi. Certo, possiamo fare grossi danni e lasciare molte scorie, ma nulla che il pianeta non possa un giorno inglobare e integrare nei propri sistemi […]. E i danni? Gli ecosistemi che abbiamo rovinato? Le specie che abbiamo annientato? Sono problemi nostri, non del pianeta [...]. Noi siamo in pericolo. Noi siamo dispensabili. Eppure l'antropocentrismo è vivo e vegeto, e lotta contro di noi. Scoperte scientifiche, prove oggettive, crisi del Soggetto, crolli di vecchie ideologie… Nulla pare aver distolto il genere umano dall'assurda idea di essere al centro dell'universo, la Specie Eletta ‒ anzi, per molti non siamo nemmeno una specie, trascendiamo le tassonomie, siamo gli unici esseri dotati di anima, unici interlocutori di Dio. Per questo fatichiamo a capire quanto davvero siamo in pericolo, e temiamo di prefigurare un pianeta senza umani, visualizzazione che invece ci renderebbe più consci del pericolo e pungolerebbe ad affrontare il problema» (Wu Ming 1, cit., p. 28). E naturalmente, è proprio questo l’obiettivo che si devono porre oggi l’arte e la letteratura più consapevoli: «curare il nostro sguardo, rafforzare la nostra capacità di visualizzare» (ibidem, p. 29); in altre parole, è precisa presa di posizione etica non solo trattare alcuni argomenti sensibili, ma soprattutto indurci a prospettive non convenzionali e critiche.

 

Una nuova umanità

 

Ciò è chiaramente fatto da Arpaia anche scegliendo come protagonisti del suo romanzo un gruppo di disperati migranti che ci costringono – assumendo il loro punto di vista – a sentire più vicini quegli “ultimi della terra” di cui leggiamo nelle cronache degli sbarchi e che magari ignoriamo sulle nostre strade:

 

Decine di migliaia di profughi dai paesi ormai desertificati chiedevano lo statuto di «rifugiati climatici», ma le nazioni ricche si chiudevano a riccio e rifiutavano di accoglierli e di accettare quella nuova definizione giuridica (p. 35).

 

Non tutti ce l’avevano fatta. Loro, i sopravvissuti, mangiarono qualcosa e riposarono, senza badare al sole che li randellava, senza pensare alle centinaia di compagni che erano rimasti indietro, a faccia in giù fra le radici delle mangrovie. Si erano assuefatti, come anestatizzati […].

Avrebbero dovuto viaggiare di notte, e non più di giorno, senza fiatare, muti, per sfuggire alla polizia, che tentava di bloccare i profughi con navi, aerei ed elicotteri, e adesso anche con retate e rastrellamenti. E dunque la disciplina sarebbe stata ancora più inflessibile […].

Non era questo che si immaginava, non era questo che aveva in mente a Napoli. D’accordo, aveva torto: alla partenza l’avevano avvertito. Ma un conto era solo sentirlo dire, e un altro, diversissimo, trasformarsi di colpo, senza scampo, in schiuma della terra, feccia, clandestini (pp. 160s.).

 

Nei ricordi di Livio dei decenni che precedettero la sua ultima odissea, un’altra discesa agli inferi si compì in Europa e negli Stati Uniti negli anni dal 2040 in poi: i Paesi del mondo procedevano verso la catastrofe ecologica discutendo senza prendere nessun provvedimento efficace per paura di ripercussioni economiche o politiche; Napoli – città-emblema degli spaventosi esodi da sud a nord – si trasformava in un melting-pot di culture, in cui il tradizionale approccio partenopeo (si pensi agli Americani nei “bassi” dal 1943) riusciva a far coesistere integrazione tolleranza criminalità e violenza; gli Stati Uniti, investiti dalla crisi, si trasformavano in una dittatura teocratica, guidata da cristiani integristi, creazionisti, neoluddisti e xenofobi (come nel già citato Racconto dell’ancella di Margaret Atwood).

La storia avrebbe potuto / potrà imboccare altre vie? È questa la domanda implicita, il “what if” ucronico del romanzo, cui Arpaia dà risposta attraverso il comportamento dei suoi personaggi.

Alle figure femminili, per esempio, è attribuita una chiara funzione salvifica: non solo Leila e Marta sono, nel corso della vita di Livio, i due “angeli” che lo guidano, lo consigliano e lo riscaldano col loro amore, ma soprattutto le scorte della spedizione ‒ donne determinate, autorevoli, coraggiose ‒ difendono i profughi a costo della vita e infine decidono di far prevalere la solidarietà sull’interesse economico, accompagnandoli nell’ultima pericolosa tratta, senza esigere il supplemento di tariffa richiesto dall’esosa, crudele e impersonale TransHope. Come in tanta letteratura del Novecento, da Saba a Montale a Gadda, alla donna è dunque assegnato un ruolo positivo, secondo il topos per cui ella, animata dall’istinto materno, più intensamente avvertirebbe il valore della vita, di qualsiasi vita.

Ma è soprattutto il protagonista Livio, con il suo nuovo, improvvisato, salvifico nucleo familiare, che ci aiuta a guardare il continuum della storia con occhi diversi: legandosi ad alcuni dei suoi compagni e innamorandosi di Marta, egli ritrova il senso della responsabilità, la dignità, la determinazione a lottare per gli altri che, chiuso nel suo dolore, aveva prima smarrito. Se nel suo passato di scienziato ed intellettuale affermato si era perso anche lui in vane discettazioni aspettando gli eventi, ora che non è che un migrante può tentare di salvare brandelli della civiltà in disfacimento (con le lezioni ai bambini), combattere per i suoi cari e guidare noi lettori in un percorso di assunzione di consapevolezza e responsabilità. Il suo viaggio, in effetti, è la conquista di un paradiso perduto, da intendersi non tanto come luogo climaticamente più favorevole, quanto come pienezza di umanità che solo gli affetti e la “cura” (in senso esistenziale) dell’altro possono offrire:

 

Ora sapeva che anche con un grande dolore sulle spalle si può, si deve, continuare a vivere (p. 216).

 

Tuttavia, l’invito di Arpaia alla responsabilità e all’impegno perché la Storia possa avere diverso corso, nonché la sua valorizzazione dell’humanitas, pur prendendo spunto dal racconto della vicenda di Livio e pur assumendone a tratti “obliquamente” il punto di vista, non scaturiscono dalla viva voce del protagonista, ma piuttosto da una sorta di “ibridazione” tra la prima e la terza persona, perché – come abbiamo notato sin dall’inizio – solo apparente è l’attendibilità delle fonti dirette, mentre ogni narrazione, anche quella della nostra identità, è sempre una ricostruzione soggettiva:

 

in qualche modo, ricreando la realtà, il cervello la inventa, anzi: la racconta, proprio come uno scrittore concepisce un romanzo e un lettore lo decifra, presentandola poi sotto forma di narrazione al nostro Io. Che, a sua volta, è anch’esso un racconto, un’illusione elaborata dal cervello di ciascuno di noi. Livio aveva anche dimostrato che la nostra stessa memoria non è che una narrazione elaborata processando i ricordi, ma è tutt’altro che un resoconto obiettivo […] dovremmo sempre far scorrere sulla nostra fronte la scritta: «Questa storia che racconto su me stesso è solo tratta da una storia vera. Sono in larga parte io stesso un frutto della mia immaginazione» (p. 57).

 

Chi racconta, dunque, si guarda raccontare mentre racconta e rielabora in modo soggettivo i ricordi che vanno a costituire qualche capitolo del suo «libro della memoria». Ma per essere certi che «qualcosa, là fuori» esista davvero, che l’avvenire minacciato dal romanzo incomba realmente su di noi, non bastano la suggestione e l’emozione che ci produce l’immedesimarci nella vicenda di Livio, ma occorre l’avvallo di un narratore esterno “garante” del fatto che – anche se in fondo non c’è differenza tra persone e personaggi, perché tutti ci avvertiamo come personaggi del romanzo delle nostre vite – ogni riferimento a persone esistenti o future e a fatti accaduti e da accadere non è per nulla casuale.

 

15 febbraio 2021