Maria Raffaella Cornacchia - La prospettiva dei vinti sull' "imperialismo" romano

Proponiamo un percorso tra celebri pagine di storiografia latina, volto a dimostrare – tenendo conto della finalità ideologica dell'autore e dell'orizzonte d'attesa dei lettori – come la prospettiva di vinti, ricavabile ad es. dai discorsi attribuiti da Cesare, Sallustio e Tacito ai grandi antagonisti dell'impero, quando denuncia le nefandezze della conquista romana, sia presentata quale manifestazione della "rabbia isterica dei nemici" [1] , o, nella migliore delle ipotesi, totale cecità nei confronti della superiore civiltà romana e dei concreti vantaggi che essa offre a coloro che ne fanno parte.

Le indicazioni di carattere etnografico fornite da Cesare (BG 6,11-28), non sempre di prima mano, ma spesso derivate da altre fonti letterarie, come Posidonio [2] , sono pienamente conformi alla concezione romana del mondo, che "è costituito come una cipolla: al centro c'è Roma, e via via allontanandosi s'incontrano i popoli civilizzati, i popoli barbari, i mitici selvaggi e, infine, il confine del mondo, l'Oceano che porta al cielo e al regno dei morti" [3] . Così, Cesare descrive prima più dettagliatamente i Galli (BG 6,11-20), fornendo informazioni di carattere soprattutto socio-culturale; poi in modo più scarno i Germani (BG 6,21-23), di cui lo interessa soprattutto l'aspetto politico-sociale; infine lo spazio ignoto della Selva Ercinia (BG 6,25-28), popolata di mostri favolosi e delimitata dall'Oceano.

Il punto di vista è quello del vantaggio romano: i costumi dei Galli o dei Germani non sono guardati con moralismo, come farà Tacito, ma prevalentemente nella loro interrelazione col mondo romano: nel capitolo 24 del VI libro del De bello Gallico è affermato recisamente che i Galli sono diventati più deboli dei Germani perché stanno assimilando la civilizzazione ellenistica. Ne consegue che essi possono essere assoggettati continuando scientemente il processo di corruzione già avviato e puntando sul controllo dei loro maggiorenti (druidi e capi), mentre la minaccia costante dei Germani – poco interessanti peraltro come territorio di conquista - può essere smussata giocando sui loro punti deboli: la tendenza interna all'anarchia, le inimicizie reciproche tra tribù e l'odio dei confinanti.

Il pericolo dei Galli non va tuttavia sottovalutato: il discorso del nobile arverno Critognato, tutt'altro che atto di obiettività del grande statista nei confronti delle ragioni del nemico, viene riportato appunto per la sua singularem ac nefariam crudelitatem (BG 7,77-78: Discorso di Critognato). Nessuna ammirazione può essere tributata al selvaggio campione della libertà celtica, il quale accusa i Romani di voler imporre a tutti i popoli che assoggettano una turpissimam servitutem (si osservi l'insistenza sugli antonimi servitus/libertas), che si caratterizza per l'azzeramento delle tradizioni locali (iura, leges, agros, libertatem), sostituite da quelle romane (iure et legibus commutatis). Ma qual è la civiltà che l'Arverno si ostina a difendere? Quella di un popolo che – per tradizione, si noti bene! (quod nostri maiores… fecerunt) – quando è assediato, è disposto a mangiarsi i più deboli per resistere all'assedio: e questo è un fatto accettato assemblearmente (potius utendum consilio… quam aut deditionis aut pacis subeundam condicionem), non soltanto l'allucinata prospettiva di un esaltato! L'accusa rivolta ai Romani di voler sottomettere invidia adducti i popoli che si sono rivelati fama nobiles potentesque bello appare pertanto grottesca; si noti inoltre che non si fa riferimento a un'eventuale avidità di ricchezze, come se l'unico intento dei conquistatori fosse d'introdurre il loro sistema giuridico tra i Galli. Questo però, data appunto la barbarie dei nemici, appariva ai lettori romani un merito, che giustificava la guerra nell'ottica del fine superiore dell'impero più tardi cantato da Virgilio: tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos (Eneide 6, 850 ss.). Ma è proprio la pace, oltre che la resa, che agli Arverni appare più inaccettabile dell'antropofagia.

Anche in Sallustio l'effettivo significato dei discorsi di Giugurta e Mitridate può essere inteso solo nel quadro complessivo della sua riflessione storiografica, incentrata - com'è noto - sulla corruzione della società romana, non più cementata dopo la caduta di Cartagine dal metus hostilis, e sulla conseguente crisi della concordia, sostituita dal più sfrenato individualismo, la cui più grave manifestazione è l'avaritia, col suo inevitabile corteo di luxuria e superbia (Iug. 41-42). Roma rischia dunque di crollare per cause interne, non esterne, ma qualunque tirannello straniero diviene pericoloso per la sua capacità di corrompere: emblematiche le parole di Giugurta sulla città eterna, urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit! (Iug. 35).

In questa prospettiva si può esaminare nei due brani proposti ("Discorso di Giugurta" e "Lettera di Mitridate": Sallustio) la ricorrenza delle parole-chiave avaritia, cupido, lubido, sempre legate al sema della ricchezza e del potere. Nel discorso di Giugurta in particolare, il nesso lubidinem imperitandi (e si noti il peggiorativo imperito invece che l'atteso impero) corrisponde nell'altra monografia dell'autore alla cupido imperi di Catilina, quasi che questa arrivistica avidità di potere, se non riversata all'esterno – sui popoli ribelli -, rischi di divenire la mortale tabe che mina le istituzioni repubblicane. Nella prospettiva dei Romani, e in particolare di Sallustio, dunque, la profunda avaritia loro rinfacciata da Giugurta è forza persino positiva se depistata al fine di rafforzare e ampliare l'impero. Si osservi che, mentre in Cesare Critognato si limitava ad accusare i Romani di avere una sorta di "complesso di inferiorità", di essere "invidiosi" della gloria altrui, soprattutto militare, in Sallustio l'imputazione è sempre di avidità di ricchezze: quisque opulentissimus videatur, ita Romanis hostem fore dice Giugurta; della loro cupido profunda (ancora lo stesso aggettivo!) imperi et divitiarum, parla Mitridate, ammonendo Arsace che le sue magnas opes virorum, armorum et auri presto lo renderanno praedam dei Romani. Giugurta dichiara inoltre i nemici iniustos - proprio loro che pretendono di imporre il loro ius agli altri popoli! -, mentre Mitridate li accusa con insistenza di inaffidabilità e malafede, nonché di essere latrones gentium, anticipando il tacitiano raptores orbis [4] . Entrambi però appaiono – come li ha definiti Cesare Questa – "figure rinascimentali, borgiane": sono essi i veri traditori, i bugiardi: anche nel capitolo riportato, Giugurta, callidus, non esita a venir meno alla fides data a Bocco per tentare di indurlo alla guerra; dal Syme [5] sono state denunciate nella lettera di Mitridate volute falsificazioni.

Spesso le parole del nemico erano recepite antifrasticamente dal lettore, come quando Mitridate con ironia accosta in stridente antitesi due riferimenti alla storia, che suonavano però presumibilmente lusinghieri alle orecchie romane: il cenno a una parabola di conquiste analoga, anche se geograficamente opposta, a quella di Alessandro Magno (postquam ad occidentem pergentibus finem fecit, arma huc convertisse) e l'allusione alle umili origini di Roma (neque quicquam a principio sine raptum habere, domum coniuges agros imperium). Ma, lo attesta Livio, i Romani di quelle origini erano orgogliosi [6] , e si consideravano perfino superiori ad Alessandro [7] .

In realtà, Sallustio condivide con questi suoi due personaggi unicamente l'accusa alla nobiltà di corruzione e avidità, ma non le imputa tanto l'imperialismo, quanto la fiacchezza nello stroncare ribellioni come quella dell'impostore senza scrupoli Giugurta. La funzione storica dell'impero e le conseguenti responsabilità dei Romani nei confronti degli altri popoli sono ribadite appunto da un re, "barbaro" sì, ma legittimo, Aderbale ("La finalità dell'impero secondo Aderbale": Sallustio): ogni ius et imperium competono allo stato romano, rispetto al quale i singoli poteri locali non sono che procurationem; in cambio, questo è tenuto alla difesa dei suoi alleati, che ne ricavano la prerogativa di essere ex omnibus maxume tutos. Aderbale teme però che la corruzione distolga le classi dirigenti da questo sacro dovere (tantum illud vereor, ne quos privata amicitia Iugurtae parum cognita transvorsos agat).

In età imperiale si rafforza nei Romani la sensazione di identificarsi "con il mondo civilizzato, umanizzato", chiamato a difendersi dai "selvaggi, i cui flutti si abbattono sui baluardi dell'Impero, che si confonde con la civiltà ellenica mondiale" [8] .

Al tempo stesso, com'è noto, si approfondisce la vena moralistica della storiografia di marca senatoria, pur sostituendo – come fa Tacito - alla tradizionale nostalgia arcaizzante (Catone, Sallustio, Livio) l'idealizzazione nelle civiltà "barbare" di un mondo ingenuo e primordiale, contrapposto alla corruzione e al lusso decadente della società romana [9] , e per questo terribilmente pericoloso.

L'operetta etnografica di Tacito, la Germania, come le citate pagine di Cesare, è ricavata da fonti prevalentemente scritte (e anche un po' datate: ad esempio i Bella Germaniae di Plinio il Vecchio [10] ) e strutturata secondo la partizione "a cipolla" del mondo: alla descrizione della civiltà germanica seguono due capitoli conclusivi (45-46) sul "Mare Pigro" e sui popoli favolosi delle estreme frontiere. L'accento insiste soprattutto sulla povertà, onestà e semplicità di costumi dei Germani (in particolare nei capp. 5 e 17-20), e viene inoltre sviluppato il cenno di Cesare al loro isolamento geografico nel senso di una purezza anche razziale (cap. 4). La loro pericolosità per lo stato romano è stigmatizzata nelle celebri sententiae del cap. 32: "ducenti ferme et decem anni colliguntur: tam diu Germania vincitur" e "proximis temporibus triumphati magis quam victi sunt".

All'idealizzazione dei Germani si contrappone l'altra faccia dell'atteggiamento romano verso i popoli assoggettati: il profondo disprezzo verso i Giudei, con cui erano per lo più confusi i Cristiani. Se l'alterità dei Germani può ricordare come erano i Romani prima della "civilizzazione", e quindi essere guardata perfino con simpatia, quella ebrea è un'alterità totale e inaccettabile, perché non consente assimilazione: in Historiae 5,2-10, i Giudei sono definiti "genus hominum ut invisum deis", dedito a "novos ritus contrarios ceteris mortalibus", come l'oinolatria, e per di più "profana illic omnia quae apud nos sacra, rursum concessa apud illos quae nobis incesta"; divisi dal resto del mondo dal loro hostile odium [11] , non possono che essere stigmatizzati come mos absurdus surdidusque.

In quanto rappresentanti di un mondo ancora incorrotto, taluni barbari possono assurgere in Tacito a campioni della libertà, contrapposta in realtà ideologicamente non all'asservimento allo straniero, ma al servilismo nei confronti della tirannide in generale, col pensiero ovviamente rivolto in specie a quella domizianea. Nelle figure di Calgaco, Giulio Civile, Arminio e Carataco (v. Tacito), pertanto, si possono individuare sul piano semiologico due tipi di segno: spesso rappresentano la nobiltà d'animo di chi, come il suocero di Tacito Agricola, ha saputo difendere in tempi tristi la propria dignità e il proprio onore [12] ; al tempo stesso, restano nemici pericolosi, affezionati a un'anacronistica e anarchica libertas, destinata provvidenzialmente a cedere alla civiltà romana.

Proponiamo anche questa volta di individuare nei primi quattro testi allegati ("Discorso di Calgaco ai Caledoni", "Discorso di Giulio Civile ai Batavi", "Discorso di Arminio ai suoi soldati", "Discorsi di Carataco ai Siluri e in seguito dinnanzi a Claudio ed Agrippina": Tacito) parole-chiave e temi ricorrenti, per confrontarli poi col punto di vista romano, esplicitato nel "Discorso di Petilio Ceriale" (Tacito). L'esposizione più completa delle ragioni dei "barbari" è certo quella di Calgaco: vi ritroviamo il tema della purezza razziale e culturale dovuta all'isolamento dei Caledoni (oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habemus), minacciata dalla libido e lascivia romana, dalla quale coniuges sororesque polluuntur. Allo stesso modo, è il luxus romano, che non risparmia neanche i ragazzi, ad indignare i Batavi nel secondo brano; e sulla necessità di proteggere gli intemerata coniugum et liberorum corpora ritorna anche Carataco. I Romani sono poi da Calgaco accusati di essere ormai debosciati perfino in guerra (cf. il salace fugacissimos di Arminio), e quindi facilmente sbaragliabili, visto che spesso lasciano sul campo i veterani, considerati "senes" ("vacua castella, senum coloniae ecc." dice Calgaco; "nec aliud in hibernis quam praedam et senes" Giulio Civile); per di più si può forse contare sulla solidarietà di Galli, Germani e Britanni arruolati dai Romani (anche Giulio Civile afferma: consanguineos Germanos Gallias idem cupientis), benché qui Calgaco si contraddica, visto che proprio lui poche righe prima aveva ammesso che sono dissensiones ac discordiae tra tribù la causa del successo nemico. Che i Romani siano diventati imbelli – come Tacito aveva ironicamente accennato nel citato cap. 32 della Germania – lo dimostra il fatto che il capo dei Siluri Carataco tot per annos (nove anni!) opes nostras sprevisset: vacua ormai dunque la superbia romana reiteratamente denunciata da questi condottieri barbari! Ad essa, oltre alla corruzione, si associa sempre l'avaritia (ancora fulminante la sintesi di Arminio: avaritiae, crudelitatis, superbiae), che rievoca evidentemente allo scrittore la lettera di Mitridate sallustiana: anche nel discorso di Calgaco si accenna al fatto che avari... ambitiosi..., non Oriens, non Occidens satiaverit i Romani, che – peggio che Alessandro! - raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur. Quale prova poi maggiore del degrado dei costumi (novum sane et moribus veterum insolitum) che l'atteggiamento arrogante, davanti a un barbaro dignitoso come un vero cives, Carataco, di una femina quale Agrippina, parata delle insegne romane e convinta di essere imperii sociam? Se è questo il potere romano, lo storico arriva a prestare ai suoi personaggi i toni della propria indignazione, ricorrendo alla più alta retorica. Qualche esempio: nel primo brano, Britannia servitutem suam cotidie emit, cotidie pascit (anafora, parallelismo, isosillabismo e omeoptoto dei due verbi); Brigantes... exurere coloniam... expugnare castra... exuere iugum potuere; nos integri et indomiti et in libertatem, non in paenitentiam laturi (nel primo colon anafora dei prefissi verbali in ex- a suggerire uscita dalla servitù, liberazione; i tre verbi sono anche isosillabici e il primo e il terzo paronomastici; nel secondo colon vi si contrappongono i prefissi in in- e i sintagmi con questa preposizione, non più legati da asindeto ma da polisindeto; antonimi iugum/libertas); nel terzo testo la bella sententia "aliud sibi reliquum quam tenere libertatem aut mori ante servitium?"; nel quarto il chiasmo aut reciperandae libertatis aut servitutis aeternae initium.

Il punto di vista di barbari può essere allora perfino compreso: malinconici gli accenti dell' "habui equos viros, arma opes: quid mirum si haec invitus amisi?" di Carataco, quasi un postremo Creso davanti a Ciro, che ricorda ai Romani che non è un sillogismo questo: si vos omnibus imperitare (il verbo usato da Giugurta in Sallustio!) vultis, sequitur ut omnes servitutem accipiant? Il punto di vista dei barbari può dunque essere compreso, ma non accettato, perché i Romani credono fermamente che, al di sopra degli interessi particolaristici dei singoli popoli, ci sia un bene comune, la pace, che solo l'impero può assicurare a tutti. Nel "Discorso di Petilio Ceriale" le accuse nemiche sono ribattute punto per punto: non per cupido intervengono all'estero i Romani, ma perché invocati da popoli divorati dalle discordiae intestine (quelle cui accenna lo stesso Calgaco) e incapaci di difendersi da ben peggiori pericoli (acciti auxilio Germani sociis pariter atque hostibus servitutem imposuerant). La vera servitus, infatti, non è il semplice obsequium cum securitate dovuto all'impero, ma quella imposta da popoli selvaggi che non hanno nulla da offrire sul piano culturale in cambio dei tributi che impongono, come i Germani, loro sì preda di libido atque avaritia et mutandae sedis amor. Non a caso, Petilio Ceriale ricorda a Treviri e Lingoni proprio Ariovisto e Giulio Civile, campioni di libertà a detrimento dei confinanti! In materia economica, poi, la posizione romana è assai pragmatica: neque quies gentium sine armis neque arma sine stipendiis neque stipendia sine tributis haberi queunt! Perché, in fondo, è questa l'amara verità della storia: la pace ha un prezzo, lo ius romano, che impone di tollerare (si noti la frequenza di icastici imperativi: tolerate, amate colite) anche luxum vel avaritiam dominantium. Il resto sono chiacchere, eufemismi: libertas et speciosa nomina praetextuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet; affermazione che costituisce la risposta alle battute di Calgaco: "auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant", e Giulio Civile: "exquiri... varia praedandi vocabula".

Ma al di là di quelle vuote parole, c'è anche la realtà di un mondo ignoto e probabilmente incivile e pericoloso, di cui occorre riconoscere che l'impero romano costituì effettivamente per secoli l'argine. Suona quindi quasi profetico il monito di Giulio Civile "nam pulsis, quod di prohibeant, Romanis, quid aliud quam bella omnium inter se gentium existent?". Monito che si risolve nell'invito, sintesi dell'ideale romano: proinde pacem et urbem, quam victi victoresque eodem iure obtinemus, amate colite. Infatti, "Roma è una grande macchina che costruisce Romani; essa accoglie presso di sé i barbari, i quali diventano schiavi esotici, ottengono successivamente l'affrancamento e lavorano come specialisti di svariate tecniche straniere, e vengono riconosciuti alla fine come cittadini romani, che si occupano di politica ed agricoltura [13] ".