Maria Raffaella Cornacchia - Le siamesi di Alessandro Berselli

Elliot, Roma 2017

Classi di riferimento: 3°-4° anno di scuola secondaria superiore

 

Sinossi: Ludovica Ortoleva accetta - per curiosità e sprezzo del pericolo - di partecipare a un “gioco d’azzardo” propostole dall’affascinante Emanuele Girotti e dalla sua vecchia amica Laura Rapini: una roulette russa mortale con un gruppo di altre ragazze, che verrà filmata e venduta in internet. In realtà, però, la sfida è solo il preludio di una trappola mortale, ordita per punire la protagonista della sua arroganza e del suo cinismo. La salvezza è possibile, ma a patto che le “ragioni del cuore” prevalgano su egoismo, rancore, anaffettività.

Perché proporre a scuola uno scrittore urticante e provocatorio - Cattivo il titolo di un altro suo romanzo - come Alessandro Berselli?

In primo luogo per educare gli alunni al piacere della lettura: l’andamento teso e inquietante del noir, la paratassi franta del periodare, i dialoghi incalzanti bilanciano le difficoltà di un lessico accuratamente selezionato per introdurci nel gotha dei personaggi, consacrati al culto esclusivo e narcisistico del lusso e dei riti sociali vip. In questa chiave va presentato l’incipit del romanzo Le siamesi, col suo linguaggio snob che sancisce il rapporto di amore-odio di Ludovica, la giovane protagonista, con questo mondo, che è il suo:

 

Loft open space arredato in stile minimale.

Poltrone avanguardistiche, tavoli in cristallo temperato, improbabili oggetti di design industriale.

L’intera parete vista Duomo è occupata da un gigantesco monitor che diffonde, a volume zero, ologrammi, caleidoscopi e lettere.

Mi chiedo che senso abbia tenere il megaplasma acceso a sparare idiozie grafiche se nessuno le sta guardando.

Loop ripetitivi di musica elettronica a volume troppo alto controllano laser stroboscopici e diodi a emissione luminosa.

Una lampada allo xeno irradia una luce bianca sul soffitto in vetro satinato.

Essential groove. Tecno acida.

Drum’n’bass da dj set, psychedelic beat, alternative trip hop.

Rumorismo estremo, hardcore noise all’ennesima potenza…

 

L’impatto è indubbiamente rude, ma forse meno per i giovanissimi che per gli adulti (vedi termini come “megaplasma”, “loop”, “laser stroboscopici” e “diodi”): e nelle “questioni di stile” sarà bene rilevare subito le finalità espressive degli anglicismi, che si infittiscono quando si parla di musica e che sono integrati nell’italiano senza ricorrere al corsivo, o dei tecnicismi dell’architettura e del design.

Nel corso del primo capitolo – il cui titolo non a caso, come più della metà degli altri, non è in italiano (Postmeridian vernissage) – l’ostentazione linguistico-culturale va però a definire sempre più chiaramente il modo di relazionarsi dei personaggi, sempre incentrato su apparenza e «competizione», parola-chiave ricorrente in tutto il romanzo. Cosa nota ad esempio Ludovica del giovane con cui è in corso un approccio seduttivo?

 

I capelli scuri che gli scendono sulle spalle, gli occhiali frogskins, un impeccabile completo Tom Ford aperto su una camicia bianca in tessuto tecnico (p. 9).

 

Quello che i due ragazzi si dicono nel loro primo incontro in effetti è assolutamente ininfluente, una vera e propria commedia fondata sul chiacchiericcio di classe, che ha l’unico fine di istituire dei rapporti di forza, di dimostrare all’altro la propria imprevedibilità ed arguzia, ma in nessun modo di trasmettere contenuto. Di qui la riflessione principale a cui il romanzo può indurre i giovanissimi: cosa succede quando le relazioni non pretendono di avere alcuna profondità e durata, ma sono fondate solo sull’apparenza?

 

Emanuele è affascinante e inaffidabile, merce da consumare e rimuovere, una voce di curriculum, una bandierina da piantare nella mappatura delle esperienze. Da non perderci la testa, chiaro. Botta e via. Toccata e fuga (p. 31).

 

Del resto, fino all’Epilogue, il narratore in prima persona è appunto una ventenne, Ludovica Ortoleva, ricchissima e viziata, ossessivamente dedita al culto del proprio corpo e del proprio ego. Il lettore è così indotto a un’operazione simile a quella cui chiama la regressione verghiana (o l’autoinganno sveviano): la prospettiva dell’io narrante risulta talmente sgradevole che si è portati a prenderne le distanze, fino a dubitare che quello che Ludovica dichiara non sia affatto attendibile: la sua sicurezza proterva, l’odio per il padre, la sostanziale insensibilità e anaffettività verso tutto e tutti.

In effetti, la cifra più caratteristica della scrittura di Berselli – in questo simile a Massimo Carlotto – è il sotteso humour nero che impone di leggere interi capitoli per antifrasi, come denuncia di un modello sociale consumistico e modaiolo, che sostituisce sistematicamente l’essere con un avere esibito nell’apparire. Avere ed apparire risultano infatti talmente introiettati nell’identità dei personaggi, da far dubitare che esista un loro “essere”: maschere di lusso e sregolatezza, possono perciò mettersi in vendita ed essere acquistati dal miglior offerente. Il quadro si può paragonare ad esempio all’ Introduzione dell’Eva verghiana («La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro […] che il godimento materiale […]. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita […].  Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, […] voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia»), ma è appunto l’ironia spinta al sarcasmo che evita a Berselli di cadere nel moralismo. Ecco dunque un romanzo che, in preparazione dell’approccio con classici della letteratura, offre possibilità di riflessione sulla relatività del punto di vista e sulle ambiguità dei processi di regressione letteraria, che richiedono un lettore particolarmente attivo e critico.

Peraltro la trama thriller, con la sua decisa svolta nell’incubo nelle ultime 60 pagine (dal cap. La stanza nella stanza), propone temi molto vicini ai giovanissimi (almeno a stare alla cronaca): il gioco d’azzardo mortale, praticato per combattere la noia e garantirsi una scarica di adrenalina che paia dar senso a vite cui i trent’anni sembrano già odiosa vecchiaia; la disponibilità a commercializzare se stessi – e la propria morte – anche in snuff-movie nel web nero a uso di ricchi e annoiati pervertiti in cerca di emozioni forti (torna in mente l’inquietante film Strange days di Kathryn Bigelow del 1995); l’anoressia, sui cui processi di rimozione è giusto richiamare l’attenzione delle ragazze:

 

Centosessantaquattro centimetri. Quarantadue chilogrammi. Sono troppi? Sono pochi? Non lo so. Io non mi sento particolarmente magra, mi guardo allo specchio e quello che vedo mi piace un sacco. Pratico una negazione spontanea e naturale dell’appetito che non c’entra nulla con il rifiuto del cibo causato da un’immagine del proprio corpo distorta o dal bisogno male interpretato di disciplina tipico degli anoressici. Secondo gli psicologi si tratta di una questione di problemi di personalità che non arrivano in superficie, di una profonda insoddisfazione che si ha riguardo a se stessi e alle aspettative della vita che rimangono disattese. Brutta bestia la mancanza di autostima. Un mostro che ti uccide un po’ alla volta.

Tutto vero, certo. Peccato che non sia il mio caso (p. 18).

 

Sintomi dell’anoressia. Amenorrea, bradicardia, atrofia muscolo-scheletrica, ipotonia, osteoporosi. Non mangiare nulla, fumare e basta. Quanto peserò tra un paio d’anni? Quaranta chili? Venti? Dieci? Diventare così sottile da ridurmi in niente e scomparire, trasparente che mi si vede attraverso, pochi grammi di pelle da raccogliere con la scopa (p. 34).

 

Lo squilibrio di Ludovica nasce, o forse soltanto si concretizza nel tormentato rapporto col padre, e in generale con gli adulti, incapaci di essere punto di riferimento affettivo ma soprattutto morale per i loro figli, secondo un tema ricorrente in Berselli: se in La dottrina del male Ivan è convinto di avere un’ottima intesa con la figlia diciassettenne, fondata però solo sull’incontro settimanale tête à tête in un locale esclusivo e sul più ampio permissivismo, nelle Siamesi l’odio di Ludovica per il facoltosissimo e potentissimo padre scaturisce dal suo disinteresse, appena occultato dalla ricchezza messa a piena disposizione dei figli e dal paternalismo occasionale:

 

Ti odio, padre. Ti odio perché metti il tuo lavoro davanti alla vita delle persone alle quali dovresti volere bene. Ti odio perché quando ti parlo non te ne frega niente di quello che dico […]. Perché sei ingrassato, e ti stanno venendo i primi capelli bianchi […]. Perché di me non sai nulla, e non mi fai mai domande che potrebbero aiutarti a comprendere quella che sono. Per i tuoi soldi, con cui credi di poter comperare qualsiasi cosa e invece, mi dispiace dirtelo, non ti servono a niente. Ti odio, ti odio, ti odio. Ti odio con tutto il cuore (p. 58).

Tuttavia, non va dimenticato che il romanzo registra solo il punto di vista della ragazza, non si sa quanto attendibile, visto che è così egocentrica, ipocrita e sostanzialmente anaffettiva (ma si è per natura anaffettivi, o lo si diventa per educazione?).

La storia di Ludovica si configura in ogni caso  – secondo quello che in Berselli è un vero e proprio topos, o forse meglio un’ossessione – come discesa agli inferi (con eventuale, incerta redenzione): quasi scontato allora il confronto con Dante, sia nell’aspetto “facile” degli elementi horror relativi alla rappresentazione dell’angoscia e della tortura, sia nella più complessa questione “morale”, ovvero che l’inferno riguarda tutti, e qui sulla terra, nella vita di ogni giorno. I romanzi di Berselli (e non solo Le siamesi, ma anche La dottrina del male o Non fare la cosa giusta) possono indubbiamente aiutare le classi ad attualizzare questo messaggio: Ludovica (come gli altri giovani personaggi del romanzo) non è solo un’anima proiettata (o forse solo sospesa) sull’abisso…

 

Il viaggio di ritorno è Caronte che ci traghetta verso l’Ade. Modalità attivata invisibile, la pioggia sui vetri il metronomo che stabilisce tic toc la scansione ritmica di quello con cui mi ritroverò a dovere fare i conti per il resto della mia esistenza.

Ecco perché la gente decide di farla finita. Quando capisci che la vita è soltanto un buco nero nel quale precipitare, e che i momenti di felicità sono messi lì apposta per farti capire che tutto il resto è uno schifo (p. 74).

Mi sento precipitare in una spirale con direzione inferno, alle prese con un testacoda morale, un vortice che mi trascina impietoso nonostante i miei disperati tentativi di mantenere il controllo. E la certezza, ineluttabile, di non potere più evitare la collisione (p. 69).

 

… ma anche a sua volta tentatrice e traghettatrice di altri verso il fondo:

 

Denise è stato il punto di non ritorno, quello che mi ha fatto capire che non ci saremmo più salvate. Eravamo come i traghettatori dello Stige. Prendevamo la gente e la portavamo all’inferno. Corrompevamo le persone convincendole a fare cose che non avrebbero dovuto, eravamo le cattive maestre che non bisognerebbe mai incontrare sulla propria strada (p. 121).

 

La responsabilità individuale? A più riprese la protagonista la rigetta, attribuendola al fato, ed escludendo così che ciò che facciamo possa da noi essere caricato di senso, possa aiutarci a scegliere una direzione, verso la salvezza o la dannazione:

 

C’è un ordine superiore che si diverte a cambiarci continuamente le carte, che alterna il paradiso all’inferno. Siamo istogrammi impazziti dove nulla di quello che riusciamo a raggiungere, nel bene e nel male, è un risultato acquisito (p. 60).

 

Imputarsi delle colpe per qualcosa che è successo è una normale reazione che ci permette di contenere le nostre pulsioni distruttive […]. Mettiamo in guardia noi stessi sul fatto che abbiamo oltrepassato un limite. Segnaliamo un disagio per avere infranto il nostro concetto di morale. Questo però succede se c’è l’ammissione del dolo. Diversamente, come nel mio caso, è soltanto paccottiglia inutile che si accumula nell’inconscio, macerie emotive lasciate lì a fare ingombro senza nessuna conseguenza (p. 55).

 

Dai romanzi di Berselli – sulla scia del modello americano di Bret Easton Ellis - emerge così il vuoto esistenziale delle generazioni che confondono l’etica con l’estetica perché alla prima hanno sostituito il culto consumistico per ciò che gli oggetti rappresentano, chiusi nella caverna del loro egoismo che fa loro scambiare le ombre degli oggetti, la loro forma, per la sostanza della vita:

 

Armadio uguale nemico.

Camicie Max & Co., giacche di Prada, Cavalli, Dolce & Gabbana, un abito regalato non so quando non so da chi di Haider Ackermann, accessori comperati a Harajuku, foulard Vivienne Westwood, pantaloni a sigaretta capo unico Zandra Rhodes.

Troppe cose. O troppo poche. Annoiata, confusa, indecisa, mi sdraio per terra… (p. 20).

 

La nomenclatura di cibi, locali, pratiche artistiche o griffes dell’alta moda, in cui la notorietà pubblicitaria si mescola agli orecchi dei lettori col senso di disagio verso l’ignoto, contribuisce perciò a produrre un senso di straniamento e di fastidio nei confronti di classi che si avvalgono protervamente di tali status symbol, ma che nel cervello non hanno che stanchi clichés classisti e razzisti per giustificare l’assurdità dei loro privilegi:

 

«Tu pensi sul serio di avere in mano il potere?» le chiedo.

«Io credo che la vita ci abbia collocato a un livello superiore e che sia nostro dovere comportarci avendo rispetto per quel posto che ci è stato assegnato. Tu, Emanuele, Pierre. Siamo tutti degli eletti, abbiamo i soldi e opportunità in un mondo dove la gente vive di stenti. Siamo la nuova aristocrazia» (pp. 37s.).

 

Molti sono i passi del romanzo in cui il lettore è chiamato a confrontarsi con il vuoto e l’angoscia che genera l’assenza di un’etica che non sia edonistica e soprattutto autoreferenziale:

 

Vivere senza obiettivi. Non problematizzare le questioni. Prendere le cose che si hanno voglia di prendere quando ti capitano. Essere indulgenti con se stessi. Anteporre il piacere al dovere. Non legarsi a nessuno. Interpretare ogni giorno come se fosse l’ultimo. Essere parassiti nei confronti della vita.

Questo va bene, è la filosofia di vita che mi appartiene (p. 41).

 

Tale rinuncia alla profondità nell’introiezione di esperienze e sentimenti comporta una sorta di senechiano vivere in fuga (miseri nescitis in fuga vivere), in cui il terror senectutis sostituisce quello della morte, che è recepita anzi come una forma di riscatto alla banalità del vivere: 

Giocare con piaceri che avevamo la presunzione di poter controllare. Il sesso, la droga, le sfide con la morte. Trasformandoci lentamente in mostri anaffettivi che alzavano sempre la soglia della competizione, convinte che in quel rischio ci fosse, se non l’essenza stessa della vita, quantomeno una parentesi necessaria prima dell’inevitabile declino, quello che sarebbe arrivato dopo i trent’anni (pp. 120s.).

 

Parole come moralità, etica, senso del dovere. Le ho sempre detestate. Sembrano fatte apposta per precluderti la possibilità di cogliere ogni singolo attimo che la vita ti mette davanti, per romperti i coglioni quando ci si comincia a divertire. Il solito dilemma. Bruciare in fretta o arrugginire lentamente? Ho scelto la uno, e adesso sto bruciando (p. 72).

 

Se la discesa agli inferi di Ludovica è dunque costituita dal suo vile rifiuto a ricordare, amare e sentire, un potenziale riscatto le è offerto – in un épilogue di cui tuttavia non conosciamo l’esito effettivo – se saprà ricordare l’amicizia passata e far tesoro delle (terribili) esperienze che ha vissuto, come le scrive l’ex-amica del cuore, l’amica-sorella “siamese” dell’infanzia:

 

Nel caso invece avessi mantenuto questo account di posta ancora attivo e leggessi questa mail, fanne l’uso che preferisci. Il fatto che tu non l’abbia dimenticato, o che non sia stato chiuso, sarebbe il segno evidente che dietro quel per sempre, per sempre, per sempre, e ancora un po’ c’erano sentimenti che, nonostante tutti gli errori che abbiamo fatto, ancora vivono e respirano dentro di noi (p. 123).

 

La «lucida ombra e furia iconoclasta» che Matteo Strukul attribuisce giustamente a Berselli si risolve così non solo nella feroce pars destruens della denuncia, ma anche nel lasciarci comprendere – senza però mai prendere la parola per giudicare – quale cammin possiamo intraprendere attraversando la selva oscura della profonda crisi sociale, esistenziale ed etica del nostro tempo.

 

6 ottobre 2020