Maria Raffaella Cornacchia - Tra funzione mediatica e verità

Un esempio di lettura dei quotidiani

Mitologie

 

Roland Barthes, nell'ormai classico Mythologies, esemplifica il rapporto tra i due sistemi semiologici che costituiscono il "mito", inteso come «sistema semiologico secondo» [1] , tramite la foto di «un giovane negro vestito di un'uniforme francese» che «fa il saluto militare, con gli occhi verso l'alto, fissati certo su una piega della bandiera tricolore», foto il cui significante è piegato a mostrare «che per i detrattori di un preteso colonialismo non c'è risposta migliore dello zelo di questo negro nel servire i suoi pretesi oppressori» [2] . L'immagine è certo datata (la prima edizione di Mythologies è del 1957), ma come dice lo stesso Barthes noi continuiamo a subire «l'opprimente divorzio della conoscenza e della mitologia», per cui «la scienza va dritta e veloce per la sua strada; ma le rappresentazioni collettive non stanno al passo, sono arretrate di secoli, mantenute stagnanti nell'errore dal potere, dalla grande stampa e dai valori d'ordine» [3] .

Nella fantasia occidentale la figura del "negro" – divenuto come si sa in italiano più politically correct "nero" per influenza della cattiva coscienza di altre lingue, come il francese, l'inglese e il tedesco – coincide per lo più con l'idea edenica del buon selvaggio o con quella inquietante del negro sanguinario [4] . Ma anche dietro l'aspirazione a fantastiche vacanze in qualche club tropicale, è soprattutto questa seconda immagine ad attivarsi nel nostro immaginario collettivo, sicché in "certi" paesi bisogna essere sempre prudenti e prestar attenzione quanto ad acquisti e cibo, non bisogna muoversi da soli ecc. Quella del negro sanguinario è un'immagine conturbante e anche affascinante se colora le vacanze di avventuroso ed esotico, ma è soprattutto un'immagine piatta, senza storia, cioè che rifiuta la conoscenza della storia, e che quindi può essere agevolmente propinata dai mass-media a un pubblico che per fretta, distrazione o ignoranza tenderà ad accoglierla senza porsi troppe domande.

Da anni si discute dell'obiettività dei libri di storia in uso nelle scuole italiane: ma dal momento che si suppone che ne escano giovani capaci di scrivere un articolo di giornale, non sarà opportuno riflettere più approfonditamente anche sui meccanismi che presiedono all'ideologizzazione della notizia?

La decodifica di un testo richiede, com'è noto, competenza linguistica e competenza circostanziale, competenza che tuttavia, ad esempio per le notizie del quotidiano, varierà a seconda dei "lettori modello" presupposti (più interessati allo sport se comprano "La Gazzetta dello Sport" che "L'Osservatore Romano"), o del contesto (il "lettore modello" italiano dovrebbe essere più informato sulla politica interna che su quella equadoregna). In ogni caso, i limiti di spazio e di tempo impongono che in ogni notizia vengano lasciati degli "spazi bianchi" ove si eserciterà il giudizio del lettore, di cui l'articolo – come ogni testo – richiede i «movimenti cooperativi» [5] per realizzare l' «attualizzazione testuale». A mio giudizio, questi "spazi bianchi" dovrebbero essere tanto più ridotti quanto meno il contesto della notizia è noto al Lettore Modello del quotidiano (cioè presumibilmente un lettore "medio", né analfabeta né necessariamente specializzato in tutti gli argomenti trattati). Altrimenti, nella decodifica del messaggio interverranno più massicciamente fattori co-testuali come la connotazione del lessico usato dal giornalista e le foto, o extratestuali, anche inconsci, come le suggestioni della "mitologia" collettiva.

 

L'oggetto

 

Il 7 novembre scorso sui quotidiani nazionali compare la notizia che in Costa d'Avorio, in cui da alcuni anni è in corso una guerra civile (una delle tante cosiddette "dimenticate"), è stata bombardata una base militare francese e che ci sono stati nove morti e una ventina di feriti.

La Costa d'Avorio non ha certo avuto negli ultimi mesi l'onor di cronaca dell'Iraq o della Palestina, quindi è presumibile che il novantanove per cento degli italiani non sappia pressoché nulla della sua politica interna: ci si aspetterebbe dunque che i giornalisti ci descrivano, oltre che ciò che è avvenuto al campo francese, anche il contesto in cui l'evento si è verificato, cioè il quadro della guerra civile, le circostanze della presenza francese ecc.

Se però un quotidiano come ad esempio "La Stampa" non lo fa, il lettore deve accontentarsi delle suggestioni dei redattori, per i quali la politica ivoriana è una «partita molto equivoca» di «manipolazioni» (C. Martinetti), in cui «l'alternanza per molti resta bestemmia. La retorica dei tempi nuovi impone di passare attraverso il calvario della democrazia e delle elezioni», anche perché il presidente ivoriano Gbagbo è «un socialista (all'africana) [che] vanta una biografia impreziosita da un pizzico di galera e da un esilio a Parigi, prima di conquistare il Palazzo con il consenso francese. Il suo problema era quello comune a tutti gli autocrati africani; di conservarlo il potere»; egli è un «gran marabutto dell'intrigo, che nell'esilio deve aver letto Talleyrand», mentre i francesi sono «"colonialisti "» appunto solo tra virgolette (D. Quirico). Il lettore, che nulla sa di come si svolte le ultime elezioni in Costa d'Avorio, è indotto a credere che vi sia la dittatura di un tirannello locale, brutale avanzo di galera, il quale ha aggredito per ragioni ignote e incomprensibili la democratica Francia, che lo aveva generosamente accolto in tempi per lui grami e di cui quelle virgolette escludono che attui una politica neocoloniale; il titolo, poi, "Morti e saccheggi, Francia sotto tiro in Costa d'Avorio" e l'insistenza sulle "cacce al bianco" verificatesi, lo conforta a dirsi che è la "solita" guerra terzomondistica, magari ricordandosi di qualche vecchia vignetta col bianco nel calderone tra selvaggi armati di posate e tovagliolo. Il lettore guarda poi distrattamente le foto e vi vede dei neri che scagliano oggetti, da dietro il filo spinato, a soldati bianchi armati di tutto punto (quali sono qui le implicazioni del contrasto "natura / cultura"?), e Chirac con una mano protesa in avanti in atteggiamento conciliante.

Dalle didascalie dei giornali (compresa "La Stampa") si apprende però – a voler legger proprio tutto – che in galera ed esilio Gbagbo ci è stato per la sua opposizione alla presidenza "vitalizia" e gradita alla Francia di Houphouet Boigny, che aveva imposto al suo Paese, oltre alla propria presenza, il partito unico, mentre lui – Gbagbo - secondo il "Corriere della Sera" è «uno dei pochi capi di Stato africani eletti con votazioni regolari e popolari» (M. A. Alberizzi, 14/11/2004).

A questo punto il lettore dovrebbe chiedersi cosa significa che questo Gbagbo è un "socialista (all'africana)", visto che il suo partito fa parte dell'Internazionale: forse nell'Internazionale esistono diverse correnti di pensiero, "all'europea", "all'americana", "all'africana" ecc.? Sorprende che il capo del partito cristiano sia un "marabutto", cioè secondo il dizionario un combattente per l'Islam, ma l'associazione con "l'intrigo" induce a credere che il giornalista volesse suggerire la paronomasia con "farabutto". E poi che vuol dire che ha letto Talleyrand (e cosa ha scritto Talleyrand?)? Vuol dire la stessa cosa che insinua P. Veronese su "La Repubblica" (8 nov.), definendolo «un Machiavelli tropicale»? Ai posteri l'ardua sentenza su Talleyrand e Machiavelli, ma confesso che sentirli nominare come stereotipi negativi su quotidiani di grande diffusione inquieta per l'educazione nazionale quasi più che la qualità dei nostri libri di testo…

 

Le competenze linguistiche del Lettore Modello e la grammatica africana

 

A questo punto proponiamo un esperimento: leggiamo il giornale / i giornali (magari in classe) per individuare qualche scelta lessicale che, nel descrivere un fatto, ci orienti nel giudizio più che l'esposizione dei dati. Per quanto riguarda l'affaire ivoriano, viene in mente la "Grammatica africana" individuata da Barthes [6] , che quasi cinquant'anni fa sospettava che «il vocabolario ufficiale degli affari africani sia puramente assiomatico. Come dire che non ha alcun valore di comunicazione, ma solo di intimidazione», al fine «di dare a una realtà cinica la cauzione di una morale nobile»: una vera "scrittura cosmetica". Il primo termine – che rintracceremo largamente nei nostri giornali a proposito dei manifestanti ivoriani - discusso da Barthes è "banda" [7] , che con la «svalutazione del vocabolario» «permette di annullare la nozione di interlocutore» e di «negare lo stato di guerra»: intuiamo così l'effetto sul lettore di sapere che ci sono "soldati" francesi che fronteggiano "bande" ivoriane. Del resto, "guerra" è parola e concetto inaccettabile, soprattutto oggi che – come notava Eco già per il Kosovo – «pare tipico della neo-guerra cercare di ucciderne [di nemici] il meno possibile, perché a ucciderne troppi si incorrerebbe nella riprovazione dei media». Perciò «Nella neo-guerra ogni armata si muove all'insegna del vittimismo» e «perde, di fronte all'opinione pubblica, chi ha ammazzato troppo» [8] . Non ne deriveranno le sorprendenti oscillazioni da giornale a giornale quanto al numero di vittime? Per ritornare al nostro esempio, se è sempre ben evidenziato l'ammontare delle vittime francesi dell'attacco ivoriano (nove, di cui si sono celebrati nelle cronache i commoventi funerali di Stato), assai più defilato – e da alcuni quotidiani taciuto - appare invece il bilancio di quelle dell'intervento di contenimento della folla da parte dei soldati francesi (oltre 400 feriti, dice la Croce Rossa da Ginevra, e un numero imprecisato di morti, alcune decine), i quali peraltro – secondo le testimonianze dei nostri stessi missionari – hanno sparato contro i manifestanti. Inoltre, come in altri casi recenti, nessuno dei contendenti sembra volersi assumere la responsabilità di aver dichiarato o provocato la guerra, col risultato che ci sono i morti («che poi un sacco di gente muoia lo stesso è tecnicamente irrilevante», dice causticamente Eco), ma non c'è la guerra. Anzi, non c'è più nemmeno l' "intervento", «che sapeva troppo di ingerenza», ma c'è il "soccorso" o l' "azione internazionale" [9] , ovvero la "missione", una delle parole mana, di per sé vuote di senso, ma suscettibili di essere colmate coi nostri «sensi inconfessabili, sacralizzati come tabù» [10] , elencate da Barthes. Per la verità, "missione" è oggi termine risemantizzato in quanto "di pace": che poi i francesi si siano decisi a intervenire per "pacificare" dopo che da due giorni il governo ivoriano bombardava i ribelli al di là della zona cuscinetto in cui i Caschi blu si trovavano, deve rientrare nell'estremo pacifismo transalpino.

Aggiungiamo al dizionarietto barthesiano qualche altro termine tratto dalle vicissitudini africane che ci servono da spunto di riflessione, come "regime". "Regime" è sempre quello del presidente ivoriano, il che induce a sospettare che si tratti da qualcosa di diverso dal "governo" di Chirac. Se si prende il Devoto si scopre inequivocabilmente che la differenza essenziale sta nell' "antonomasia", per cui il regime è «nella recente storia d'Italia, la dittatura fascista» [11] , sicché mentre "governo" mi dice solo dell'atto di governare, "regime" mi parla di una specifica forma di governo. I guai della Costa d'Avorio derivano del resto dal "tribalismo", che, ci ricorda Veneziani, è «corrente tra gli intellettuali cosmopoliti» e «svaluta l'avversario, lo ricaccia nel passato, nell'arcaico», «evoca immagini di cruenta intolleranza, di superstiziosa ignoranza e di chiusura all'altro» [12] , tanto più che, a quanto pare, all'hostis e all'inimicus dei tempi della guerra fredda si è andata sostituendo la «traslazione geoculturale» della «diade Nord-Sud, paesi sviluppati e paesi non sviluppati» [13] . Ma non sarà che davvero «l'universalismo viene coniugato ai principi di tolleranza e di democrazia», mentre «i popoli di tutto il mondo, a Est come a Ovest come al Sud del pianeta, si mobilitano per chiedere il riconoscimento della loro etnia, della loro sovranità nazionale, della loro indipendenza e del loro diritto all'autodeterminazione», imbattendosi «nell'intolleranza o nel boicotaggio dell'indifferenza da parte di quanti – a Est o a Ovest – detengono il potere nel nome dell'universalismo» [14] ?

Certo, in molti Paesi tra cui la Costa d'Avorio la mobilitazione popolare è sfociata nella violenza: i ribelli hanno ricevuto armi dall'estero, e le hanno ricevute nel momento in cui il governo ivoriano tentava di limitare i monopoli francesi, stabilendo contatti economici con altri Stati [15] ; la lotta politica in questi anni è stata durissima e non senza vittime; il governo ivoriano ha infine deciso di stroncare militarmente la ribellione. Ma chi decide che è "xenofobia", "ultranazionalismo", "fanatismo" il sentimento di un popolo che sostiene il presidente che ha eletto sia contro una protesta armata, sia poi contro dei "protettori" che – ottenuto un mandato dall'Onu – dimenticano di preavvertirla prima di distruggere in nome della pace l'aviazione di un Paese sovrano? E soprattutto, tornando al problema linguistico, chi decide oggi dove finisce il senso della "nazione" e comincia il "nazionalismo"? Colui che ha il potere politico ed economico di intervenire come «potenza terza […] in via unilaterale in un paese teoricamente sovrano» [16] , e per di più di influenzare o controllare l'informazione?

 

Lettori Modello e libertà condizionata

 

Dicevamo che le competenze del lettore possono variare a seconda del quotidiano che sceglie, ma è evidente che soprattutto varia il suo atteggiamento ideologico, che costituisce un aspetto del suo orizzonte di attesa. Il Lettore Modello del "Manifesto" ha presumibilmente un diverso punto di vista sulla politica interna ed estera di quello del "Giornale", e i redattori ne devono tenere conto, anche e in particolare per ragioni di fatturato: però, «se il fine ultimo dell'informazione non è la libera ricerca della verità dei fatti, ma il fatturato, il profitto, l'audience o la raccolta di pubblicità, allora tutto viene subordinato all'effetto di mercato» e il mercato «da condizione della libertà si traduce in libertà condizionata» [17] . La singola notizia viene allora a essere condizionata da un contesto più ampio che però le è estraneo: la crisi ivoriana viene insomma interpretata anche in funzione di altri eventi contemporanei che non vi hanno nulla a che fare direttamente, come la morte di Arafat o la battaglia di Falluja, ma sui quali si esercita la maggior attenzione dei media e di conseguenza la miglior conoscenza e maggior possibilità di giudizio del lettore. La politica di Chirac non è insomma interpretata solo in rapporto all'Africa, ma anche (soprattutto?) in relazione con quella di Bush – di cui Chirac è stato antagonista – in Iraq.

Leggendo allora le farraginose notizie dei nostri quotidiani si faranno allora almeno due sorprendenti "scoperte": la prima, più ovvia, è che spesso i redattori dello stesso giornale si contraddicono tra loro [18] o cambiano idea da un giorno all'altro, forse perché, al posto di «notizie sicure e controllate», ci propinano le citazioni bibliografiche di altri giornali [19] (per lo più dimenticando di indicare la loro fonte). La seconda è che ci sono estremi che si toccano: così, per L. Caputo de "Il Giornale" non è difficile far ironia sui «due pesi e due misure» per Africa e Iraq della politica di Chirac, proprio come per G. Calchi Novati de "Il Manifesto" il presidente francese non può dar lezioni a nessuno, ed entrambi i giornali deprecano il discredito di cui si è ricoperta ormai l'Onu. La ragione è evidentemente che per la sinistra di "Il Manifesto" e "Liberazione" non è giustificabile alcun intervento "imperialista", che sia dei «cugini francesi come gli israeliani nei Territori o gli americani in Iraq» [20] ; al "Giornale" interessa di confrontare il modello americano «di esportare democrazia per garantire la stabilità» con quello francese, che affida la stabilità a dittatori, ignorando le aspirazioni democratiche dei popoli [21] ; mentre "La Repubblica" e "La Stampa" si mostrano chiaramente condizionate da un atteggiamento filofrancese e antiamericano, fino a suggerire la tesi del "complotto" americano ai danni di Chirac [22] , e "L'Unità" tergiversa imbarazzata, limitandosi a contrapporre quasi senza commento (e soprattutto senza contesto) affermazioni aggressive ivoriane e concilianti francesi. Atteggiamento più equanime, e disposto a dar voce a entrambe le parti, assume infine "Il Corriere della Sera".

Ma il problema non è solo politico. Confrontare più giornali su una notizia di questo tipo ci costringe a ripensare le modalità con cui entriamo in contatto con l' "Altro". Quando leggo che il presidente Gbagbo è «un ultranazionalista di sinistra […], alla testa di un partito a predominio cristiano» [23] , mi trovo dinanzi all'evidenza che o la definizione è impropria, o le categorie politiche del suo paese (di quel continente?) non coincidono con quelle della mentalità italiana. Devo essere pronto a scongiurare il pericolo di piegare quella realtà a categorie che non le sono proprie, le mie e quelle di tanti altri lettori "distratti". Chi mi informa spesso non lo fa: è più semplice omogeneizzare che spiegare le differenze. La sua configurazione di Autore Modello «dipende da tracce testuali ma pone in gioco l'universo di ciò che sta dietro al testo, dietro il destinatario e probabilmente davanti al testo e al processo di cooperazione (nel senso che dipende dalla domanda "cosa voglio fare di questo testo?")» [24].

 

Due esercizi

 

Che la composizione di un articolo di giornale, abilità richiesta alla fine della scuola secondaria superiore, non si possa dunque ridurre alla meccanica trascrizione in bello stile di poche informazioni date in "scaletta" è del tutto ovvio. Ciò che può non risultare ovvio agli alunni – soprattutto a causa dei condizionamenti che per mancanza di tempo subiscono i programmi di italiano – è come si compia il passaggio dalla resa cronachistica all'articolo vero e proprio, con quali fini e quali effetti nella sua ricezione.

Come materiale didattico di supporto alla nostra riflessione e a titolo puramente esemplificativo, dato lo scontato processo di obsolescenza delle notizie dei quotidiani, proponiamo:

a) appunto la "scaletta" dei fatti cui ci riferivamo

b) una selezione dei materiali forniti da alcuni principali quotidiani nazionali.

Il primo "ipertesto" si può proporre agli studenti, magari accompagnato da un "dizionarietto" come quello discusso sopra, per la composizione di un articolo di cui si potrebbe stendere sia una redazione "filofrancese" che una "filoivoriana"; il secondo può essere lo spunto per una riflessione in classe (ed eventualmente un confronto coi testi prodotti dagli alunni) sulle modalità di cui ogni quotidiano si è servito per produrre una determinata reazione nei lettori.

 

Note:


[1] Cf. R. Barthes, Miti d'oggi, trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1974, pp. 196 s.: "ciò che è segno (cioè totale associativo di un concetto e di un'immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante. […] Nel mito ci sono due sistemi semiologici, di cui l'uno è sfasato in rapporto all'altro: un sistema linguistico, la lingua (o i modi di rappresentazione assimilabili), che chiamerò linguaggio-oggetto, perché è il linguaggio a cui il mito si aggancia per costruire il proprio sistema; e il mito stesso, che chiamerò metalinguaggio, perché è una seconda lingua nella quale si parla della prima".

[2] Ibid., p. 198.

[3] Ibid., p. 59, in un capitolo che in un certo senso completa l'immagine precedente, dal titolo "Bichon tra i negri".

[4] Il motivo era stato trattato estesamente dalla scrivente in L'Altro al di sottto del 35° parallelo, "griseldaonline", n. 2, 2003.

[5] Si veda U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979/2000, pp. 50-66.

[6] Barthes, cit., pp. 134 ss.

[7] Si potrebbe vedere come vengono usati, oltre a "banda", "milizie" e i più neutrali "manifestazioni" e "folla".

[8] U. Eco, La Bustina di Minerva, Mondolibri, Milano 2000, pp. 41 s.

[9] Ibid., p. 38.

[10] Barthes, cit., p. 135 e s.

[11] G. Devoto – G. C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990, s.v. "regime", p. 1570.

[12] M. Veneziani, L'Antinovecento, Leonardo, Milano 1996, p. 214.

[13] Ibid., p. 211.

[14] Ibid., p. 215.

[15] Il presidente Gbagbo, quando nel 2002 è scoppiata la guerra civile si trovava appunto in Italia; la Francia controlla attualmente il 30% del PIL ivoriano.

[16] G. Calchi Novati, in "Il Manifesto", 9 novembre.

[17] Veneziani, cit., p. 227.

[18] Ad esempio, il 7 novembre, "Il Giornale" ci fa sapere da A. Toscano che i caccia ivoriani erano un'«arma pericolosissima», e da A. Nativi che questa aviazione era «davvero una forza poco consistente».

[19] Cf. Eco, Bustina cit., p. 210.

[20] S. Morandi, in "Liberazione" del 9 novembre.

[21] M. Introvigne, il 10 novembre.

[22] "La Stampa", ad esempio, titola, il 9 novembre, "Crisi in Costa d'Avorio. Parigi sospetta gli Usa".

[23] L. Caputo, in "Il Giornale" del 9 novembre.

[24] Eco, Lector cit., p. 66.