Maria Raffaella Cornacchia - Carlo Lucarelli, L’ottava vibrazione

Torino, Einaudi, 2008

 

Classi di riferimento: 4°-5° anno di scuola secondaria superiore

Sinossi: Il romanzo rappresenta in ampio affresco l’atmosfera soffocante e apparentemente immobile di Massaua nel 1896, nelle settimane prima della battaglia di Adua, ampiamente descritta negli ultimi capitoli. Gli intrighi, le truffe, gli amori, gli interessi privati nella colonia italiana si intersecano con le mire del governo centrale, in una babele di dialetti e di lingue e di punti di vista, specchio della difficoltà di comunicare e della sostanziale opacità dell’animo umano. Nella dimensione epica della narrazione si insinuano infatti – secondo le migliori corde di Lucarelli – anche trame noir: il sospetto che tra gli ufficiali italiani sia nascosto un perverso serial-killer, le mire omicide di un’astuta adultera, il complotto delle spie del negus infiltrate tra i colonizzatori, gli oscuri disegni di una nera che tutti gli uomini credono di poter possedere, senza accorgersi di esserne posseduti, quasi allegoria del rapporto tra l’Africa e i suoi conquistatori. Non a caso al romanzo sono premesse alcune righe di Cuore di tenebra: «Ma questa immobilità non somigliava per niente alla pace. Era l’immobilità di una forza spietata che stava rimuginando un impenetrabile progetto. Ti guardava con aria vendicativa».

 

 

Si può leggere questo romanzo a scuola?

Quando L’ottava vibrazione uscì, ormai 15 anni fa, suscitò reazioni contrastanti: ad esempio, Wu Ming 1 non solo lo elogiò nella sua recensione su “L’Unità” (1 aprile 2008), ma lo indicò come uno dei modelli del NIE nella Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic; invece, qualche anno dopo, Sonia Sabelli e Franca Sinopoli[1] accusarono Lucarelli di razzismo, sessismo e perfino omofobia.

In effetti, il romanzo ha una densità e una complessità che richiedono qualche attenzione da parte del docente prima di proporlo agli alunni, per evitare scandali delle famiglie (ancora? Sì, accade) e fraintendimenti, come quelli a cui vanno incontro – a mio parere – Sabelli e Sinopoli.

In primo luogo, come rileva Wu Ming 1 nella sua recensione, Lucarelli si dimostra sorprendentemente capace «di scrivere pagine di intenso erotismo, anzi, di molteplici erotismi», dalla sensualità torbida e «cospirativa» all’«arrapamento terragno e disperato», con dovizia di particolari e linguaggio schietto fino all’oscenità. A ciò si aggiunge «la discesa verso il puro raccapriccio», con parti horror ripugnanti, alla Stephen King, che spesso sfociano in pulsione sessuale, rendendola più conturbante ed angosciosa. Tuttavia, va riconosciuto all’autore che tali parti non sono mai gratuite, non c’è indugio compiaciuto, ma esse sono rigorosamente delimitate e finalizzate o a rappresentare le emozioni più segrete, segrete perfino a chi le prova (p. 249s.), oppure al virtuosismo linguistico di esprimerle come le pensa il personaggio stesso (p. 265).

Sonia Sabelli, invece, mette in discussione in primo luogo la prospettiva di Lucarelli sui fatti storici, dato che la battaglia di Adua, anche nella quarta di copertina, è presentata come «la più colossale disfatta che il colonialismo europeo abbia subito», e non la vittoria africana che per prima ha messo in discussione il progetto coloniale europeo. Inoltre – e soprattutto – sia Sabelli che Sinopoli criticano la rappresentazione dell’Altro secondo gli stereotipi banalizzanti di un immaginario coloniale tipico: i neri selvaggi e cattivi, che mettono a repentaglio la virilità dei bianchi; le donne africane ripartite tra lo stereotipo della Venera nera e perversa (Aicha) e della Madama mite e sottomessa (Sabà); in generale, gli africani paragonati ad animali. In conclusione, Lucarelli ribadirebbe soltanto «la regola e la superiorità di una maschilità bianca, italiana ed eterosessuale».[2]

Lucarelli stesso ha risposto all’accusa di presentare una prospettiva italocentrica e inaccettabilmente razzista, dichiarando che ciò era inevitabile, visto che i punti di vista sulla Storia e sulle storie narrate sono appunto quelli degli italiani dell’epoca. Si riconosce subito il modello della regressione verista (con cui è possibile proporre agli studenti del quinto anno un confronto), per il quale non è certo opinione di Verga che «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; e aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone» (Rosso Malpelo, in Vita dei campi, 1880) o che lo zio Crocifisso, l’usuraio dei Malavoglia, «era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo» (cap. IV, 1881): come osserva Leo Spitzer, si tratta di una «filtrazione sistematica della sua narrazione […] attraverso un coro di parlanti popolari semi-reale (in cui il parlato potrebbe essere realtà oggettiva – ma non si sa davvero se lo è)».[3] Così Lucarelli:

 

Io ho scritto un romanzo corale che è soprattutto – se non quasi unicamente – una storia italiana. E di italiani di allora. Gli stereotipi di cui si parla sono quelli di cui gli italiani di allora vivevano e attraverso quelli prendevano contatto con la realtà africana ed eritrea. La mia intenzione era mettere in scena quegli italiani e farli scontrare con la realtà uscendone tutti – tranne uno, il soldato Sciortino, che di stereotipi non ne ha – in un modo o nell’altro perdenti. Non ho scritto di eroici soldati, affascinanti avventurieri col mal d’Africa ed esotiche bellezze – quelli sono gli stereotipi – ma di fanatici, illusi, ladri e assassini, alcuni dei quali si illudevano di incarnare lo stereotipo di cui sopra. Tutti puniti da una realtà più forte e più concreta che in questo caso è l’Africa, con il Negus e il suo esercito, molto diversa da quella che i miei ferèngi[4] credevano di trovare.[5]

 

In questa chiave si può controbattere anche all’accusa secondo cui Lucarelli avrebbe più o meno inconsapevolmente degradato gli africani con metafore e similitudini animali. Diamo ancora la parola all’autore:

 

Per quanto riguarda i tratti animaleschi sono tipici del mio modo di scrivere e non credo di averli attribuiti soltanto alle donne abeshà, anzi: ringhiare, ruggire e anche miagolare lo fanno tutti nei miei romanzi.[6]

 

In effetti, Lucarelli non lesina le associazioni animali ai personaggi più disparati: il caporale Cicogna ha aspetto da «uccello, magro, altissimo e tutto angoli» (p. 66), che ne rispecchia il cognome e che lo rende riconoscibile al lettore anche nell’anonimato di una morte atroce («ne avevano visto uno, lungo e magro come una cicogna, legato a un albero e bruciato vivo, la bocca spalancata e così nero che se non fosse stato per i gradi da caporale ricamati su una manica rimasta intatta...», p. 439); il caporale Chilletta «più che un corvo sembra un avvoltoio» (p. 83); Branciamore ha una barba da capra (p. 65); Vittorio Cappa viene fatto rigirare in terra da Aicha come un cane (p. 193); l’eroico tenente Amara è costantemente paragonato a un cavallo irrequieto ed è raffigurato mentre «digrignava i denti come un cane» (p. 55). Solo il truce Flaminio non può essere paragonato ad alcun essere vivente: personificazione del Male e della Guerra, è connotato in ogni momento dalla sua disumanità, dal suo essere un abominio della natura («Non è un urlo, e se è un urlo non è umano. Non può averlo emesso un uomo un grido così. Non è roba da cristiani e neanche da selvaggi o da animali. Questo è l’urlo del Diavolo», p. 72; «girava tutto nudo tra le rocce, coperto di sangue […], no, non era sangue suo. E ce ne aveva addosso tanto, quasi se lo fosse spalmato da solo sulla pelle», p. 442), un abominio che la Storia non tarderà a glorificare («a quello gli daranno la medaglia d’oro e lo faranno colonnello, così invece di un battaglione comanderà un reggimento», p. 442).

Da un canto, dunque, abbiamo l’espressione – spesso disturbante per il lettore - del punto di vista e dei pregiudizi dei colonizzatori italiani; dall’altro, il vivido concretizzarsi in un unico lampo rivelatore di un carattere, di un comportamento, di una profondità interiore. L’innovativo e frequente slittamento dei tempi verbali dal passato al presente, inoltre, contribuisce a tenere viva la nostra attenzione, spostandola dal campo lungo del resoconto storico a brusche zoomate sui dettagli da mettere a fuoco. In questo modo, Lucarelli realizza il cosiddetto «sguardo obliquo», l’«azzardo del punto di vista», teorizzato da Wu Ming1 quale caratteristica del NIE, New Italian Epic, di cui questo romanzo è considerato un esempio: «L'eroe epico, quando c'è, non è al centro di tutto ma influisce sull'azione in modo sghembo. Quando non c'è, la sua funzione viene svolta dalla moltitudine, da cose e luoghi, dal contesto e dal tempo».[7]

È vero, tuttavia, che nel romanzo il punto di vista degli eritrei è piuttosto marginalizzato, forse perché – come ha dichiarato Lucarelli – prima di poter conoscere “dall’interno”, grazie a legami familiari, il mondo africano «non mi sarei mai permesso di entrare, se non marginalmente come ho fatto, nella testa di personaggi che non fossero italiani».[8] Così, tale punto di vista in L’ottava vibrazione si riscontra prevalentemente nei dialoghi tra le due spie, Ahmed e Gabrè, attraverso cui peraltro sono chiaramente espresse le ragioni della resistenza anticoloniale (pp. 130s.):

 

- Gli italiani fanno le strade e i ponti. Portano l’elettricità e il telegrafo.

- Guarda che l’ho capito che stai cercando di provocarmi. Ma non ci riesci. È facile risponderti che le fanno le strade, e anche i ponti, ma mica li fanno per noi, se li fanno per loro. E invece ti dirò: guardati attorno, guarda cosa hanno fatto a questa terra. Massaua non è più una città, è una puttana […].

- Era così anche con gli egiziani, - disse Ahmed.

- Sì… sì, certo. Non sono gli italiani, allora, sono i ferengi, gli stranieri. E sai chi sono, i ferengi? Sono tutti quelli che vengono in casa tua senza essere stati invitati e pretendono di fare quello che vogliono. Italiani, egiziani, inglesi… tutti ferengi, tutti stranieri, tutti a casa! […]

Lo so che Menelik non è il sovrano più illuminato del mondo e che l’Abissinia va cambiata, ma se una cosa è tua allora puoi cambiarla, se non è tua non puoi farci niente.

 

Ma a ben vedere, la consapevolezza politica è solo di Gabrè, così come l’accettazione dell’omosessualità; molto più problematica è invece la posizione di Ahmed, che sembra aderire alla rivolta solo per amore dell’altro e che si dimostra angosciato e pieno di sensi di colpa per i tabù che stigmatizzano l’omosessualità forse più tra gli africani che tra gli italiani, come potrebbe suggerire l’assenza della parola in tigrino, l’ignominia del termine arabo e la dovizia – anche su più registri linguistici – dell’italiano: «Però questa volta non lo pensò in arabo, ma in italiano. Sodomita, pensò. Non lo fece apposta, ma così gli suonò diverso, meno vergognoso, meno pesante» (p. 178, ma si veda pp. 176-181). Sobriamente tratteggiata, ma piena di drammaticità, in opposizione a società che li discriminano e li respingono, l’affermazione di sé di ognuno dei due personaggi: «Ho rinunciato alla fede in Dio, e quella in Menelik non l’ho mai avuta, ma ne ho acquistata un’altra. Come dice il poeta? Fedeli d’amore...», dichiara Ahmed; Gabrè invece, nel capitolo in cui viene ripetutamente scambiato per una ragazza dai militari venuti ad arrestarlo, ribadisce fieramente di essere un «soldato», pronto a uccidere se necessario (pp. 322s.).

Non per nulla, poi, agli occhi dell’amante disperato, il suo cadavere appare come quello dell’Eurialo virgiliano, purpureus veluti cum flos succīsus aratro,[9] «Gabrè, avvolto nel suo bozzolo bianco, quel fiore rosso che si stava coprendo di mosche» (p. 324). Lucarelli, con questo discreto parallelismo tra i suoi personaggi e quelli del capolavoro epico romano (con la sua complessa rete intertestuale),[10] non solo interpreta in senso univoco la reticenza di Virgilio sul legame omoerotico tra Eurialo e Niso, ma al tempo stesso epicizza, per così dire, il legame d’amore e guerra di Ahmed e Gabrè: un’epica moderna e desublimata, però, dato che allo sfortunato Ahmed non è concessa morte eroica accanto all’amato, ma la sua vita è accuratamente preservata dagli italiani per ottenerne la delazione, e si conclude miseramente con la deportazione a vita nell’atroce prigione di Nokra.

Anche quanto alle figure femminili, occorre andare un po’ oltre gli stereotipi della critica engagée. In primo luogo, perché non è detto che presentare dei luoghi comuni in un testo significhi condividerli: anzi, possono essere presentati appunto in forma critica o parodica (ed è la questione della regressione). Infatti, Lucarelli controbatte:

 

L’ottava vibrazione voleva essere quella storia che ho detto: storia di italiani in colonia.

Anche le donne di cui ho raccontato in quel romanzo passano attraverso quella lente, che è la stessa che ho letto in molti memoriali. Nel colonialismo italiano prima e poco dopo Adua, che il mio romanzo voleva rappresentare, c’era pochissimo spazio per le donne e meno ancora per le donne eritree, relegate, nei loro contatti con i ferèngi, al ruolo di madame, serve, prostitute o streghe. È all’interno di questo contesto che si muovono ed è lì dentro che devono ricavare il proprio spazio.[11]

 

In realtà, pur sempre nella condizione di subordinazione all’uomo che alla fine dell’Ottocento le donne africane indubbiamente condividevano con le italiane, va comunque rilevato che l’unico personaggio femminile veramente negativo, sia perché rappresenta la frustrazione del non conoscere con chiarezza la propria identità al di fuori di quella imposta dalle convenzioni sociali, sia perché manipola il proprio amante per fini abietti e si rivela una spietata assassina, è Cristina, bianca, di buona famiglia e italiana. Il suo apparente anticonformismo nasce «non per voglia di trasgredire o di sperimentare, ma per l’intima e silenziosa necessità di ricordare a se stessa chi era» (p. 24); il suo erotismo risulta seducente perché privo di ingenuità («le altre, tutte le altre, sono nude, mentre lei, invece, sembra spogliata», p. 86); il sentimento predominante in lei è l’odio, perché non sa definire se stessa ed esistere se non in quanto «la moglie di Leo» (p. 272), da sempre un giocattolo in mano agli altri, eterna bambina, come suggerisce la sua associazione con filastrocche infantili (ad es. pp. 22-24). Nella galleria di schizzi di italiane “rispettabili”, in generale fatue e presuntuose come la Colonnella, spicca solo l’ombra opprimente ed inquietante della Maman dello psicopatico maggiore Flaminio, mai descritta se non tramite i pensieri del figlio: e basta il ricordo del suo idioma (il francese) per indurlo alla vertigine e costringerlo a un ordine castrante, probabile ragione della violenza sanguinaria che egli va covando.

Tra le africane, invece, in rilievo sono tre, ciascuna a suo modo salvifica (e dunque, donna-angelo, sia pure con evidenti intenti di capovolgimento ironico): in primo luogo Aicha, il cui ricorrente epiteto di «cagna nera» ha scandalizzato le interpreti. Ma lo stesso Lucarelli ha chiarito che

 

Nel caso specifico di Aicha, poi, «la cagna nera» è un nome attribuitole dai ferèngi come Vittorio, il cui immaginario è quello e soltanto quello, ed è un limite loro, non suo, che utilizza i loro desideri per ottenere quello che vuole. Il suo carattere è istintivo secondo il punto di vista dei bianchi, non dal suo, che sa bene quello che vuole e come ottenerlo.[12]

 

Aicha è sostanzialmente imperscrutabile nel sua prepotente e libero erotismo e nella sua gelosa passione per Vittorio Cappa, con la quale ella prevarica sia sulla debole volontà dell’uomo di resisterle, sia sul presunto amore ch’egli crede di provare per la bianca Cristina. Ma vi è solo opportunismo nella scelta di Cristina di tale pavido amante, il quale alla sua partenza riprende con indifferenza la vita consueta («gli sembra naturale che resti tutto così e che non possa farci niente», p. 447) e si lascia nuovamente possedere da Aicha, che lo riconduce a una sessualità puramente carnale, ma disinteressata e senza pensieri o retro-pensieri (pp. 447s.).

Cos’è nella vita la “normalità”? L’opportunità di una vita serena e appagante: questa è prospettata da Lucarelli nei rapporti uomo-donna su diversi livelli, a seconda dei caratteri e delle aspirazioni dei personaggi. Il “grado zero” sul piano sentimentale è  rappresentato dalla coppia Vittorio-Aicha; un livello intermedio è il legame tra la contadina Sebeticca e l’umile soldato Sciortino, che scaturisce dal condiviso amore per la terra e i suoi frutti, per la piantina di fava coltivata assieme, ed è per l’uomo rivelazione di se stesso («Non è nu soldate, Sciortino, è nu cuntadine», p. 246) e realizzazione di istinti naturali in armonia con la natura. Perciò, tornare a qualunque costo da Sebeticca e al suo orto è per lui tornare a “casa” (p. 450).

Tornare a casa – e la disperazione di non poterlo fare – è anche l’ultimo pensiero del capitano Branciamore prima della battaglia di Adua. Eppure, egli in Italia una famiglia e una moglie ce li ha: ma per lui “casa” è la “madama” Sabà e il loro tenero e appassionato amore, che non a caso è suggerito dalle dolci canzoni con cui lui pensa a lei («Pensa: Sabà. Pensa: Amselèt. Sa già che non tornerà a casa per vedere la sua donna e la sua bambina […]; e poi a quel pensiero ci si attaccano tutti gli altri, la sua pelle morbida, le sue efelidi nere, la sua voce, eterna la visione della tua bellezza, l’ultima volta che hanno fatto l’amore», p. 420, ma anche pp. 135ss.). Ed è anche in questo caso attraverso l’amore e la sua donna che il capitano ha piena rivelazione di se stesso, che tra l’altro riattiva il sema del suo cognome: «Però non è soltanto un vecchio soldato, è Branciamore, il marito mio di Sabà» (p. 420).

Aicha, Sabà e Sebeticca sono dunque donne-angelo, nel senso in cui questo topos è stato rivisitato da tanta letteratura novecentesca: donne capaci, come tutte le femmine dei sereni animali che avvicinano a Dio, di guidare, con infallibile senso da pipistrello, l’uomo nel caos della guerra e della vita, e di ricondurlo a casa. Dalla reciproca accettazione della differenza e del multiculturalismo scaturiscono la salvezza e l’aspettativa di futuro attraverso i figli: quello della vedova Sebeticca che, con estrema naturalezza, viene accolto e adottato da Sciortino; la bambina che Branciamore sogna di avere con Sabà e di chiamare – promessa di sopravvivenza – «Amlesèt, che in tigrino significa Sono tornato» (p. 138). Non a caso, Sabà e Sebeticca dichiarano di essere, e sono, le vere “mogli” dei due italiani, al di là di ciò che si poteva registrare all’anagrafe: tali unioni sono accordi musicali perfetti, secondo l’indovinata similitudine di Lucarelli: «le loro dita intrecciate sembrano la tastiera di un pianoforte, perché […] restano sempre un tiliàn e una bilena, lui tzadà, bianco, e lei tzellàm, nera» (p. 71).

L’antitesi ricorrente nel romanzo tra bianco-nero, luce-ombra, si scioglie così in sintesi, nell’armonia che accorda assieme ogni colore, come chiarisce la citazione del poeta Tsegaye Gabrè Medhin nell’esergo del romanzo, che ne motiva il titolo:

 

Questa è la terra dell’ottava vibrazione

dell’arcobaleno: il Nero.

È il lato oscuro della luna,

portato alla luce.

Ultimo colpo di pennello nel dipinto di Dio.

 

 

Epica e Nuova Epica

Dunque, sì, si può far leggere questo romanzo a degli studenti, anche se – scrivo un’ovvietà – è bene che nessuna lettura sia lasciata all’intuito o alla pura emozionalità, specie se di lettori inesperti e ingenui.

Naturalmente, molte altre possono essere le ragioni scolastiche per proporre L’ottava vibrazione negli ultimi anni delle superiori: in primis, per suscitare qualche interesse (e qualche conoscenza) per pagine colpevolmente trascurate della storia italiana, troppo spesso occultate dal luogo comune degli “italiani brava gente”, che ci ha impedito di affrontare (e superare) la Norimberga delle responsabilità verso il colonialismo, il razzismo e il loro sfociare nel fascismo. L’ottava vibrazione, infatti, «custodisce e felicemente trasmette lo stupore che lo ha fatto nascere: lo stupore di un italiano che inciampa sul passato coloniale del suo Paese».[13]

Del resto, il recupero di «un’etica del narrare»[14] è il primo obiettivo del New Italian Epic: e non c’è dubbio che Lucarelli punti anche a rappresentare «l’intima pervasità del sistema coloniale che nei “mondi separati” d’Africa commette non solo ogni turpe azione, ma ancor più, se si può dire, giustifica ogni inconfessabile pensiero»,[15] grazie  al carattere sostanzialmente ambiguo e mistificatore degli interessi politici e finanziari italiani:

 

Sullo sfondo, un’Italia che non ha ancora fatto la rivoluzione industriale, un popolo di contadini senza terra, stretti tra il latifondo del Sud, i contratti mezzadrili del Centro e la grande azienda capitalistica imperniata sulla “cascina” del Nord. Un popolo giovane e miserabile costretto ad emigrare ovunque possibile ma soprattutto nelle Americhe. Un popolo di analfabeti che parla l’italiano, quando lo parla, come una seconda lingua. Ribolle nella penisola tra Ottocento e Novecento una società dell’indifferenza e spesso del cinismo, stretta nella morsa del trasformismo politico e del malaffare economico, a cui Giolitti tenterà di dare una nuova rispettabilità piccolo-borghese con la sua «Italietta». Ma anche una società aperta, assetata di giustizia, che cerca ostinata le idealità su cui edificare il proprio progetto collettivo. Un’Italia contraddittoria, generosa e violenta, dove la passione politica di Mazzini e Cattaneo, il senso dello Stato di Cavour, si stemperano in un opportunismo feroce della débrouille e del familismo oltranzista. Ambiguità, convivenze impossibili. Da un lato, la tradizione del “particulare” di Francesco Guicciardini e le malinconiche registrazioni leopardiane sui costumi degli italiani, «un agglomerato di singoli individui ognuno sprofondato nel proprio orizzonte privato». Dall’altro lato, le pedagogie civili di Antonio Rosmini o Vincenzo Gioberti, più esortative che razionali. Su tutto questo avranno poi facile presa tutte le retoriche che accompagneranno il Paese verso la Grande Guerra prima e la dittatura fascista poi.[16]

 

Si leggano le pagine in cui speculatori e militari discutono nell’Ottava vibrazione degli obiettivi della colonia:

 

- Io sono pienamente d’accordo col barone Franchetti, - stava dicendo Leo, - questa terra può davvero diventare l’Eldorado in grado di dare sfogo alle plebi diseredate d’Italia che adesso sono costrette a emigrare all’estero. Le terre sull’altopiano, naturalmente, e non tutte. Domanda: perché siamo qui? […]

- Prestigio nazionale, - disse Cristoforo, - a parte la Svizzera, eravamo l’unica nazione civile a non avere una colonia oltremare. Missione morale, dobbiamo insegnare a questi selvaggi a portare le scarpe e a non andare in giro con gli attribuiti all’aria […].

- Io sono un imprenditore, - stava dicendo Leo, - e brianzolo, per giunta. Il prestigio nazionale e la missione morale dei popoli civili mi interessano, ma mi interessa di più l’aspetto economico […].

- Andiamo, Vittorio! Questa terra ormai è nostra. Loro ci hanno vissuto sopra per secoli, e cosa ne hanno fatto? La terra è di chi la lavora, lo dicono anche i socialisti (pp. 60-62),

 

e infine la sintesi dell’avventura coloniale conclusasi tragicamente ad Adua, che il giornalista però traccia solo mentalmente, ma rinuncia a redigere, decidendo invece di ripiegare su un’opera di esotismo e avventura che venda parecchio, quasi che Lucarelli delineasse ironicamente l’anti-romanzo rispetto a quello che leggiamo noi:[17]

 

Credevamo di imporci a quattro beduini da comprare con le perline e invece siamo andati a rompere i coglioni all’unica grande potenza africana, cristiana, imperialista e moderna […].

Ci siamo andati impreparati, mal comandati e indecisi e quel che è peggio senza soldi. Fidando nella nostra fortuna, nell’arte di arrangiarsi e nella nostra bella faccia. Lo abbiamo fatto per dare un deserto alle plebi diseredate del Meridione, un sfogo al mal d’Africa dei sognatori, per la megalomania di un re e perché il presidente del Consiglio deve far dimenticare scandali bancari e agitazioni di piazza. Ma perché le facciamo sempre così, le cose, noi italiani? (p. 439).

 

Si esplicita, così, con l’interrogativo finale, il parallelo tra passato letterario e presente ideologico-politico, forse lo stesso nel 2008 e nel 2022: sogni e ragioni abiette coesistono nell’azione dei singoli, delle masse e dei governi, con «la leggerezza con cui ci accodiamo a qualunque sfilata in tuta mimetica, impegnando forze armate in dubbie missioni “di pace”. Ci infiliamo in un ginepraio dopo l’altro senza averne la minima cognizione, convinti di aver sempre ragione noi, e quando – come c’era da attendersi – viene ucciso un nostro soldato, siamo capaci soltanto di vittimismo e melensaggini, straparliamo di “eroi”, e ve lo facciamo vedere noi come muore un italiano. Senonché un italiano muore esattamente come chiunque altro: il cuore si ferma, il corpo marcisce e i vermi mangiano», come ha commentato Wu Ming 1 nella sua recensione.[18]

Anche in questo, un forte impegno etico connota la scrittura del New Epic lucarelliano, che riguarda «imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all'interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell'intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso»,[19] ma che conserva un’attitudine pop per avvicinare un vasto pubblico, sia fondendo nel romanzo storico i generi della “letteratura di massa” (noir, poliziesco), sia prendendo in prestito altri linguaggi transmediali (la canzone, la fotografia, il verbale di polizia) con effetti polifonici, sia – come in parte si è visto – con una profonda innovazione espressiva.

Lo scandalo della storia – che condanna a morte Serra, paladino della Giustizia e della Verità[20] e celebra come eroe un pazzo sanguinario quale Flaminio – trova dunque in Lucarelli lo spazio più congeniale nel genere noir che, secondo una felice definizione, «costringe il lettore a prendere atto che non può esistere una Giustizia ancella della Verità, né a livello divino né a livello umano, come invece il giallo faceva sperare. Nel mondo ‘nero’ non c’è giustizia vera perché non esiste una ragione forte che stabilisca i parametri assoluti e necessari per discriminare fra bene e male: è in sostanza il problema dell’etica contemporanea, divisa tra normatività impossibile e responsabilità da instaurare».[21]

Anche il linguaggio – la Babele di dialetti, regionalismi, lingue diverse che si scontrano e richiedono reciproca traduzione – a ben vedere ha ben poco di gaio: dimostra la difficoltà di condividere il senso delle cose (si vedano i tre nomi di Massaua, italiano-inglese, tigrino e arabo, a p. 90), e la complessità del loro intreccio  sull’onda del gaddiano «gnommero» del reale; significa intima frattura socioculturale in chi, come Flaminio, è educato al bilinguismo; rende evidente che, se pure si è fatta l’Italia, restano ancora da fare gli italiani, incapaci di parlare una lingua comune, portati agli stereotipi razzisti («Comunque, l’è un terùn», concludono i superiori di Sciortino, pur non capendone l’idioma, p. 32), e per giunta comandati da troppi e incapaci generali (p. 391), che li dividono stoltamente in tre colonne, che non potranno resistere alla «massa nera che si avvicinava veloce, divorando la polvere e i cespugli della piana come una bocca spalancata» (p. 375) degli abissini.

La prospettiva dello scrittore emiliano contemporaneo risulta perciò diametralmente opposta ai modelli del poema epico-cavalleresco italiano: nell’Orlando Furioso non pare che cristiani e musulmani abbiano difficoltà ad intendersi (si pensi a Rinaldo e Ferraù nel I canto), e anzi Orlando ben conosce l’arabo (XXIII 110), ma in effetti tutti i cavalieri condividono un aristocratico ideale d’onore (individuale, non nazionale!),[22] tant’è che Ariosto fu addirittura accusato di mancare di vis epica; perfino nella Gerusalemme Liberata, in cui l’opposizione religiosa tra i due eserciti è radicale (e dietro a quello islamico c’è Satana!), Tancredi è in grado di intendere il «sermon di Soria» (XIII 38-39) e tra duellanti è possibile comunicare, secondo una convenzione che risale all’Iliade. E tuttavia, come è stato convincentemente sostenuto,[23] mentre in Tasso la multiformità di idiomi e di obiettivi è caratteristica primaria degli infedeli,[24] in Lucarelli la reductio ad unum riguarda solo l’esercito abissino, che condivide la lingua e la fede nel negus e in san Giorgio; invece la confusione linguistica raffigura la mancanza di coesione del fronte italiano.

Lucarelli sembra in effetti operare una sorta di riscrittura in chiave contemporanea dei moduli dell’epica, anche se la sua ironia è assai più amara di quella di Ariosto, perché da un canto investe in funzione di critica corrosiva le tare italiche, dall’altro si stempera durante la battaglia di Adua nella tragedia dell’eroico soffrire dei soldati a cui ci siamo affezionati. Si legga ad esempio la fine di Pasolini, l’anarchico arruolatosi per diffondere il suo pacifismo internazionalista nei due eserciti, trasformato in macchina da guerra appunto dall’orrore della guerra e infine dissolto in leggenda:

 

Pasolini, invece, non l’ha ancora toccato nessuno. Ha sparato tutti i suoi colpi e ha una pioggia di caricatori attorno ai piedi scalzi, punta la baionetta a destra e a sinistra, ma gli abissini escono dal fumo delle fucilate e gli passano accanto senza neanche sfiorarlo. Sarà perché è nudo, la pelle bruciata dal sole incrostata di terra. Poi un gruppo di cavalieri gli passa davanti, Pasolini svanisce in una nuvola di polvere rovente e quando la nebbia della battaglia si dirada lui non c’è più (p. 436).

 

Qui Lucarelli sfiora il «naturale meraviglioso» di Ariosto,[25] anche più tangibile nello sguardo rapito del soldato-contadino Sciortino che contempla prima la donna che accudisce una piantina, poi – con orgoglio – il suo crescere:

 

’Ngule, pensa Sciortino, e vuol dire in culo, ma non è una parolaccia. Dalle sue parti serve a esprimere la sorpresa, come la sua adesso, perché non si aspettava certo di trovare la piantina di fava così forte e dritta, con quel fiore bianco che solo ieri sembrava la cillette de nu bardasce (così si ricordava di aver pensato), e invece adesso è aperto e gonfio come il sesso di una donna matura. Lo diceva lui che l’aria lassù era buona. La terra no, sicche sicche, ma l’aria era grassa, e la respirò con la bocca aperta, per sentirla giù fino alla gola (p. 262).

 

Tuttavia, a deformare il codice epico, continuamente intervengono l’ironia e la degradazione realistica: ad esempio, nella parodia del giardino magico, di antica tradizione, ma in particolare dei modelli ariostesco e tassiano. Certo, anche dell’orto  di Sebettica si potrebbe dire che «Stimi (sì misto il culto è co 'l negletto) / sol naturali e gli ornamenti e i siti» (Gerusalemme Liberata, XVI 10), solo che il culto è mescolato al negletto sul serio, perché ben poco può operare la povera contadina africana su una natura ostilissima, mentre «l’aura che rende gli alberi fioriti», effetto delle magie di Armida (ivi), diventa in Lucarelli quell’aria grassa che Sciortino aspira golosamente. Il buonuomo, per innaffiare la pianta, scava a mani nude il pozzo e «quando ebbe finito si sciacquò la faccia e le mani e si alzò, grondante di sudore» (p. 264), proprio come Ruggero nell’isola di Alcina («Bagna talor ne la chiara onda e fresca / l’asciutte labbra, e con le man diguazza, acciò che de le vene il calore esca / che gli ha acceso il portar de la corazza», Orlando Furioso, VI 25), se non che il pozzo africano è tutto melma, non certo cinto di cedri e palme; Sciortino della sua giubba fa un «grembiule» di fango, che poi lascia in terra «rappresa di fango e rigida come un monumento al milite valoroso» (p. 265), così come della baionetta ha già fatto una zappa e del casco il vaso da fiori (pp. 244s.). Non c’è dubbio che un feroce sarcasmo colpisce tutto l’immaginario patriottico-militaresco (l’ “elmo di Scipio”!) e fa dell’umile soldato emblema di pacifismo,[26] dimostrando che «la povera gente d’Italia si specchia nella povera gente eritrea. E tutti scoprono di avere le stesse radici contadine, e un mondo comune: la terra, il campo».[27]

Anche sulla figura femminile Lucarelli opera un sovvertimento parodico dei topoi di origine petrarchesca, forse più attraverso la raffigurazione di Alcina che attraverso quella di Armida, anche perché non è da escludere che il manierismo della rappresentazione ariostesca avesse fine ironico (dato che tale bellezza è artefatta, a differenza di quella di Armida):

 

Di persona era tanto ben formata, / quanto me’ finger san pittori industri; /con bionda chioma lunga et annodata: / oro non è che piú risplenda e lustri. / Spargeasi per la guancia delicata / misto color di rose e di ligustri; / di terso avorio era la fronte lieta, / che lo spazio finia con giusta meta. […]

Mostran le braccia sua misura giusta; / e la candida man spesso si vede / lunghetta alquanto e di larghezza angusta, / dove né nodo appar, né vena escede. / Si vede al fin de la persona augusta / il breve, asciutto e ritondetto piede. / Gli angelici sembianti nati in cielo / non si ponno celar sotto alcun velo» (Orlando Furioso, VII 11 e 15).

 

Ribatte punto per punto Lucarelli: «Non era vecchia ma non era neanche giovane» (Alcina è un’orrida vecchia che si finge giovane), e poi:

 

Scura […], più che nera, dello stesso colore del telo che si teneva legato attorno, e che era anche l’unica cosa che indossava. Sicche sicche, i muscoli lunghi che le disegnavano la pelle, i piedi scalzi, larghi,imbiancati di polvere, come le mani. Aveva una nuvola di capelli terrosi e crespi, che le avvolgevano la testa gne nu sciame d’ap’, pensa Sciortino, come uno sciame d’api (pp. 242s.).

 

Nel capovolgimento parodico non c’è però la derisione di Berni (Chiome d’argento, fine irte e attorte), perché Sciortino sembra apprezzare la solidità di questa contadina, non troppo diversa probabilmente da quelle del suo natio Abruzzo: solida e al tempo stesso delicata nei movimenti («Poi la donna allunga la mano, come per accarezzare la piantina, ma non la tocca», p. 243).

Ma è rispetto a Tasso che il sovvertimento ideologico è più profondo: se nella Liberata l’eros è elemento fortemente distraente rispetto all’impresa epico-religiosa e  l’unione “mista” tra Armida e Rinaldo può concludersi felicemente solo perché Armida si converte, invece – come si è visto – «in Lucarelli le storie amorose fra nemici hanno esito lieto quando ad assumere la logica e i modi dell’altro è l’italiano vinto».[28] E in particolare, «il senza onore e inutile Sciortino è la parodia del nobilissimo Rinaldo»[29], perso nel giardino di Sebeticca-Armida (Gerusalemme Liberata, XIV-XVI) e recuperato ed arrestato da due carabinieri, novelli Carlo e Ubaldo (!), ma determinato a tornare dalla sua donna e dalla sua piantina, trasformandosi in contadino africano.

Perciò, proprio il personaggio apparentemente più insignificante nell’ottica della macro-storia, il soldato di cui tutti si dimenticano, ottuso, senza ideali, inutile, è il fulcro del messaggio di Lucarelli, di un’etica che viene dai «margini», dell’ «azzardo del punto di vista»:[30] mentre gli “eroi” celebrati dalla Storia sono dei maniaci sanguinari (Flaminio) o degli esaltati (Amara), chi si salva e salva è Sciortino[31], che passa inosservato, si libera da tutti i vincoli (p. 450) e si procura un nuovo casco, «molto più bello, perché era un casco da ufficiale, più morbido, e di sughero più fine» (ibidem), che è ansioso di mostrare a Sebeticca… Il motivo non solo capovolge l’epica degli eroi in quella delle masse contadine, ma prefigura anche il rinnovarsi della vita – contro ogni logica di intolleranza e di guerra – all’insegna del meticciato:

«Ma mica per lui, il casco: per la piantina di fava che teneva davanti a casa» (ibidem).

 

 

27 giugno 2022

 


[1]      S. SABELLI, Quale razza? Genere classe e colore in Timira e L’ottava vibrazione, https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/08/quale-razza-genere-classe-e-colore-in-timira-e-lottava-vibrazione/ consultato l’8/6/22; F. Sinopoli, Riferimenti identitari italiani alla luce della rilettura postcoloniale, in M. KLEINHANS - R. SCHWADERER (a cura di), Transkulturelle italophone Literatur. Letteratura italofonatransculturale, Würzburg, Königshausen & Neumann 2013, pp. 101–114.

 

[2]    S. SABELLI, Quale razza?, op. cit.

[3]    L. SPITZER, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia», “Belfagor”, n. 1, 1956, pp. 45-50: 45.

[4]    Ferengi – deformazione dell’inglese foreigner – indica in Etiopia ed Eritrea gli stranieri, e in specie i bianchi.

[5]    S. NEU e M. ZANNINI (a cura di), Un noir «impegnato»: a colloquio con Carlo Lucarelli, “Italienisch. Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur”, n. 74, November 2015, pp. 2-12: 7.

[6]    S. NEU e M. ZANNINI (a cura di), Un noir «impegnato», cit., p. 8.

[7]    WU MING 1, Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic, 2008, pp. 14ss.: 17, https://www.wumingfoundation.com/italiano/WM1_saggio_sul_new_italian_epic.pdf, consultato il 13 giugno 2022.

[8]    S. NEU e M. ZANNINI (a cura di), Un noir «impegnato», cit., p. 8. Dopo la pubblicazione di L’ottava vibrazione, Lucarelli ha sposato una donna eritrea, al cui nonno, Ogbagabriel Ogbà, è ispirato il personaggio del carabiniere zaptiè protagonista dei romanzi della “serie Colaprico” (Albergo Italia, Torino, Einaudi, 2014; Il tempo delle iene, Torino, Einaudi, 2015). Tale serie è tuttavia una sorta di sequel di L’ottava vibrazione, tra l’altro perché il capitano Colaprico compare – sia pur marginalmente – anche nel romanzo del 2008.

[9]    Virg., Aen. IX 435, ma si vedano in generale i vv. 410-449, e in particolare il commento di Virgilio, vv. 446ss.: Fortunati ambo. Si quid mea carmina possunt, / nulla dies umquam memori vos exįmet aevo, / dum domus Aeneae Capitōli immobile saxum / accolet imperiumque pater Romanus habebit.

[10]  Com’è noto, l’immagine del fiore troncato è un topos della letteratura mondiale (da Catullo 11,22, alla celebre similitudine manzoniana in Promessi Sposi, XXXIV); associata al languore del giovane guerriero morente risale all’Iliade (VIII 306-8), ed è ricalcata da Ariosto quando descrive la morte di Dardinello (Orlando Furioso, XVIII 153); inoltre, il topos della sortita notturna di due amici ha il suo archetipo in quella di Ulisse e Diomede in Iliade X; ma è l’episodio virgiliano ad essere richiamato sia da Ariosto, Orlando Furioso, XIX 3-17, con Cloridano e Medoro; sia da Tasso, Gerusalemme Liberata, XII, con Argante e Clorinda.

[11]  S. NEU e M. ZANNINI (a cura di), Un noir «impegnato», cit., p. 8.

[12]  S. NEU e M. ZANNINI (a cura di), Un noir «impegnato», cit., p. 8.

[13]  A. TURCO, Noir e non solo. L’enigma coloniale nello sguardo di Carlo Lucarelli, in Geografie politiche d’Africa, Milano, Unicopli, 2015, pp. 195-203: 196.

[14]  WU MING 1, Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic, cit., p. 14.

[15]  A. TURCO, Noir e non solo. L’enigma coloniale nello sguardo di Carlo Lucarelli, cit., p. 201.

[16]  A. TURCO, Noir e non solo. L’enigma coloniale nello sguardo di Carlo Lucarelli, cit., p. 200.

[17]  C. LUCARELLI, L’ottava vibrazione, cit., p. 440: «Un memoriale, un libro, esotismo, azione, avventura, sacrificio intrepido, ci sono tutti gli elementi giusti per vendere parecchio. Titolo: Gli eroi di Adua». Del giornalista – penso non a caso - non viene mai rivelato il nome…

[18]  WU MING 1, recensione su “L’Unità” del 1 aprile 2008, cit.

[19]  WU MING 1, Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic, 2008, cit., p. 9

[20]  Serra è un carabiniere che non esita a mettere a repentaglio la sua vita arruolandosi nell’esercito coloniale, pur di continuare la sua indagine sul maniaco e pluriomicida maggiore Flaminio. È mentre ancora cerca di non perderlo di vista, per impedirgli di compiere altri efferati crimini e consegnarlo un giorno alla giustizia, che viene ucciso nella battaglia di Adua da un guerriero etiope, che «colpisce Serra alla nuca con la punta della spada e gli strappa il maggiore dalla vista, perché la testa gli si gira su una spalla, di colpo, spezzandogli il collo» (p. 437).

[21]  A. CASADEI, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 101.

[22]  Cf. D. BONOMO, L’Orlando Furioso nelle sue fonti, Cappelli, Bologna, 1953, pp. 171-3.

[23]  B. PORCELLI, Dalla Liberata del Tasso all’Ottava vibrazione di Lucarelli, “Italianistica: Rivista Di Letteratura Italiana”, vol. 39/3, 2010, pp. 35–45, http://www.jstor.org/stable/23938149, Consultato l’8 giugno 2022.

[24]  S. ZATTI, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 23s.

[25]  L. AMBROSINI, Teocrito, Ariosto, minori e minimi, Milano, Corbaccio, 1926.

[26]  B. PORCELLI, Dalla Liberata del Tasso all’Ottava vibrazione di Lucarelli, cit., p. 42.

[27]  A. TURCO, Noir e non solo. L’enigma coloniale nello sguardo di Carlo Lucarelli, cit., p. 202.

[28]  B. PORCELLI, Dalla Liberata del Tasso all’Ottava vibrazione di Lucarelli, cit., pp. 36 e 40.

[29]  B. PORCELLI, Dalla Liberata del Tasso all’Ottava vibrazione di Lucarelli, cit., p. 41.

[30]  WU MING 1, Premessa alla versione 2.0 di New Italian Epic, 2008, cit., pp. 14s.

[31]  Sarà azzardato pensare anche a uno sberleffo di D’Annunzio, data l’epoca nella narrazione e l’origine abruzzese del personaggio?