"Una vita difficile" di Dino Risi e Rodolfo Sonego
Il percorso didattico che qui si propone non intende soltanto suggerire un utilizzo critico, consapevole e non superficiale del cinema come strumento di comprensione di un particolare momento della società italiana (gli anni 1945-1960), ma vuole anche proporsi come indicazione di metodo sul piano dell’elaborazione della scrittura, sfruttando le risorse che alla consapevolezza linguistica e alla pratica della scrittura può offrire il dialogo tra i codici. In questo caso: la narrazione attraverso le immagini e le parole realizzata dal medium cinematografico e, dall’altro lato, la narrazione realizzata per mezzo esclusivamente di parole.
Una narrativa verbale qui realizzata nella forma ibrida e prettamente strumentale della sceneggiatura. Ma, crediamo, è proprio la natura ibrida della scrittura di sceneggiatura che possiede una notevole utilità didattica, consentendo, attraverso il concreto esercizio della scrittura (nella forma, in questo caso, della traduzione in forma scritta delle parole e immagini della narrazione cinematografica) di produrre consapevolezza sulle diverse specificità comunicative.
L’oggetto d’indagine
Fulcro del percorso didattico che qui si propone è un capolavoro della cinematografia italiana degli anni Sessanta. Una vita difficile, diretto da Dini Risi e scritto da Rodolfo Sonego – uno dei principali sceneggiatori italiani – che annovera tra gli interpreti Alberto Sordi, Lea Massari, Franco Fabrizi e Claudio Gora.
Il film è inserito tra i 100 film italiani “da salvare” da La rete degli spettatori (progetto nato nel 2011 con lo scopo di valorizzare il cinema italiano di qualità e che vanta, tra patrocini e sovvenzioni, il supporto del Ministero per i Beni Culturali, di quello di Istruzione, Università e Ricerca, del Torino Film Festival, oltre a godere della collaborazione di alcuni grandi distributori come Luce e Lucky Red) e la sua importanza nel panorama della cinematografia italiana è inoltre attestata dal “bottino” di due David di Donatello e tre candidature ai nastri d’argento.
Per amor di sintesi si riporta una scheda del film: Link_1_Scheda_film
La vicenda
La vicenda ha inizio in uno dei momenti più significativi per la Nazione italiana, coinvolta nel Secondo conflitto mondiale e poi, uscitane, impegnata nella ricostruzione, ancora regno e solo dopo, finalmente, repubblica. Sin dalle prime sequenze vediamo in scena, nel ruolo di protagonista, Silvio Magnozzi (Alberto Sordi).
Dopo l’8 settembre 1943 Silvio diserta l’esercito regolare per unirsi a un gruppo di partigiani che operano nei pressi del lago di Como. Durante un’azione Magnozzi viene scoperto da un soldato tedesco, che sta per ucciderlo; ma è salvato da Elena (figlia dell’albergatrice presso cui Silvio aveva cercato riparo) che con decisione colpisce il soldato alla nuca.
Silvio è poi nascosto dalla giovane in un vecchio mulino, in campagna. Tra i due nasce una relazione. Una sera, tuttavia, il richiamo alle armi e alla guerriglia partigiana ha la meglio sull’affetto di Elena e Magnozzi sparisce, senza lasciare traccia.
Dopo la fine della guerra, Silvio trova lavoro presso un quotidiano di sinistra, apertamente militante, che gli affida un’inchiesta per la quale l’ex partigiano dovrà recarsi proprio nei luoghi della “sua” Resistenza, in cui si consumarono i momenti di tenerezza assieme a colei che l’aveva salvato da morte certa e poi nascosto. Ritrovata Elena, dopo varie peripezie, i due si sposano.
Parallelamente, lo spettatore assiste alle vicende italiane del dopoguerra.
Presto, tuttavia, tra i due sposi è la crisi: Silvio è un idealista, Elena una donna particolarmente attenta ai risvolti pratici della vita, perciò, talvolta, in aperto conflitto con il marito, occupato, anima e corpo, in una vaga e insistita difesa dei più deboli. Rifiuta il denaro che un potente uomo d’affari (Claudio Gora) gli propone perché non pubblichi un’inchiesta sui nessi tra affari e politica nella capitale. Silvio pubblica l’articolo e viene denunciato (e poi condannato) per diffamazione. Quando, più tardi, Silvio viene arrestato per aver preso parte alle manifestazioni seguite all’attentato a Palmiro Togliatti, il legame con Elena si spezza definitivamente: lei parte portandosi via il figlio, nato nel frattempo dalla loro unione. Silvio, rimasto solo, si districa tra un’infinita serie di espedienti.
Decisosi poi a riconquistare Elena si reca a Viareggio, dove la moglie si è trasferita col figlioletto Paolo. Il suo tentativo finisce in modo grottesco.
Quando più tardi la madre di Elena muore, Silvio si presenta, inaspettato, al funerale. Ora guida una mastodontica cabriolet americana. Messi da parte ideali e impegno politico, ha accettato di lavorare per quello stesso uomo d’affari che aveva tentato di corromperlo e che l’aveva poi denunciato. Il nuovo benessere, pagato con la rinuncia ai propri valori e alla coerenza, ha però aperto la via a una riconciliazione con Elena, che troviamo al suo fianco nella scena conclusiva del film.
Durante una festa, il datore di lavoro di Silvio lo umilia, divertito e sadico, a più riprese: nell’ex giornalista scatta qualcosa, che fa riemergere il vecchio orgoglio. Dopo aver assestato un ceffone al commendatore e averlo così fatto ruzzolare dentro la piscina, se ne va, sicuro di sé e sollevato, assieme a Elena, che solo in quel momento ha potuto constatare quale prezzo in dignità e autostima Silvio stia pagando per il benessere che il suo impiego gli garantisce. Ci saranno conseguenze? Quasi sicuramente. Forse altri litigi con Elena, o forse Silvio accetterà altri compromessi: il finale del film è aperto e lascia allo spettatore la libertà di immaginare, in maniera più o meno ottimista, del destino della coppia di sposi.
Il contesto storico
Si può godere di Una vita difficile semplicemente per il capolavoro che è. Tuttavia, un approccio più sorvegliato, dovrà, inevitabilmente, portare ad una domanda: «Perché questo film? Perché in quel momento? Perché proprio Rodolfo Sonego a sceneggiarlo?».
Per capire le ragioni di questa pellicola è indispensabile prendere in considerazione il contesto storico, sociale e politico in cui prese forma e quello che lo precedette di poco.
Richiameremo a questo scopo motivi e informazioni note; ma cercando di problematizzarle, individuando i principali snodi storici e concettuali che la visione del film consente di mettere in rilievo. Li indicheremo a testo come “punti critici”.
L’Italia stava vivendo gli effetti tragici di una guerra disastrosa. Alle macerie materiali che ricoprivano il paese si aggiungevano le macerie morali di sconfitte umilianti: dalla fallita occupazione della Grecia, a El Alamein, alla sciagurata campagna di Russia. Episodi che avevano impietosamente rivelato l’arretratezza economica e industriale del paese, mostrando nel contempo il carattere ingannevole della retorica del regime fascista, che aveva esaltato gli ‘otto milioni di baionette’ e celebrato le battaglie per il grano in nome dell’autarchia, mentre le grandi potenze occidentali si dotavano di strutture industriali poderose e di una tecnologia all’avanguardia. La luna di miele, miope e ventennale, tra gli italiani e il governo fascista era agli sgoccioli. Non solo il fascismo non era riuscito a costituire un impero, come Mussolini andava farneticando, ma non riusciva a garantire la sicurezza dei cittadini. Nel 1943 si consumò l’ultimo atto dell’Italia fascista: a luglio Mussolini fu destituito dal Gran Consiglio del Fascismo e incarcerato. L’8 settembre venne reso noto l’armistizio di Cassibile e, di fatto, l’Italia, cambiava casacca, passando dalla parte degli Alleati; tuttavia si ritrovava al contempo scissa in due parti: a nord la Repubblica Sociale (stato fantoccio controllato dal Reich, alla cui testa fu messo un redivivo Mussolini, liberato dai paracadutisti tedeschi dalla prigionia del Gran Sasso) e nel meridione il Regno del Sud, retto dal sovrano, Vittorio Emanuele III, e dal nuovo capo del Governo, il Maresciallo Pietro Badoglio.
La Penisola era divenuta (come spesso era accaduto nei secoli precedenti) suolo campale.
In questo contesto di devastazione e miseria, tuttavia, uno sparuto gruppo di persone – perlopiù giovani intellettuali, professionisti borghesi – diede vita alla Resistenza.
Se da un lato, tra gli Alleati, con la Germania condannata a un’inevitabile sconfitta sin dal ‘42, era diffusa l’opinione che l’Italia avrebbe dovuto fungere perlopiù da base nel Mediterraneo e come terreno di espansione dei propri interessi economici dopo il conflitto, è pur vero che il primo ministro inglese, Winston Churchill, nutriva una certa insofferenza nei confronti degli italiani. Allo statista britannico si attribuisce l’aforisma (a dire il vero non verificato) che accusava il popolo italiano di perdere guerre come fossero partite di calcio e partite di calcio come fossero guerre. È infatti appurato che Churchill ritenesse compito esclusivo degli italiani «guadagnarsi il loro biglietto di ritorno nel consesso delle nazioni civili del mondo»[1]
Con gli inglesi, quindi, relativamente disinteressati, gli americani restavano i soli a potere e volere esercitare una certa influenza sul Paese. Il quale, proprio con l’esperienza della Resistenza e del partigianato, rispondeva – almeno in parte – alle condizioni di Churchill.
Punto critico 1: La Resistenza come questione non tecnicamente militare, ma soprattutto etica e politica. Essa ha cioè segnato un progressivo processo di acquisizione di coscienza democratica – tanto più necessario in un paese che veniva da venti anni di regime e di manipolazione dell’ informazione e delle forme dell’educazione nazionale.
Terminata la guerra l’Italia doveva risorgere come Repubblica, epurata da coloro che avevano sostenuto il regime fascista. La ri-fondazione della comunità nazionale doveva poi essere basata sulla realizzazione degli ideali di uguaglianza e solidarietà propugnati dall’esperienza resistenziale. Una bellissima illusione. Le formazioni partigiane che più avevano influito nella guerriglia contro i nazi-fascisti erano quelle di Giustizia e Libertà (vicine ad un giovane partito di ideologie liberalsocialiste come il Partito d’Azione) e le Brigate Garibaldi (ascrivibili all’area del Partito Comunista). Tuttavia, come accennato prima, la presenza americana era ingombrante, e continuò ad esserlo anche dopo la guerra. La Democrazia Cristiana era divenuta la principale interlocutrice degli Stati Uniti, che volevano un’Italia conservatrice, ordinata, stabile, per potervi importare il loro modello capitalista e per farne, in ultima analisi, un “cliente” per il proprio mercato internazionale. Qualsiasi tipo di partecipazione di un qualche partito o formazione di sinistra al governo nazionale non era ben visto dall’alleato d’oltreoceano. Come ebbe a dire il noto giornalista e saggista Giorgio Bocca, l’Italia nasceva come una «democrazia a sovranità limitata»[2].
Punto critico 2. Un insieme di fattori politici e culturali (con forti aspetti legati alla politica internazionale e al nuovo assetto mondiale definito dagli incontri di Yalta, come si è appena visto) causarono la mancanza di una vera e propria resa dei conti del Paese con la propria storia passata. Temi e motivi che ritornano nel presente, nelle forme degradate del luogo comune becero (si pensi al mantra del “Mussolini ha fatto anche cose buone” – che lo storico Francesco Filippi ha recentemente adottato come titolo di un libro che smonta luoghi comuni e sciocchezze sulla base di una rigorosa e documentata argomentazione).
La Resistenza non era stata “quantitativamente” abbastanza incisiva, in una Nazione fatta di piccoli borghesi che, sino a pochi anni prima, avevano convintamente sostenuto il regime fascista. E nel momento di ricostruire l’apparato statale, ciò che restava delle formazioni partigiane e il CLN, che sino ad allora i cittadini avevano sopportato di buon grado (meglio loro degli invasori nazisti…), venivano ora avvertiti come corpi estranei, poco rassicuranti con le loro idee riformiste incomprensibili ai più.
Così, i “ribelli” vennero premiati con medaglie, medagliette e attestati e poi messi in disparte assieme alle loro idee.
Punto critico 3. L’interruzione del processo di ricostruzione politica e morale che era negli intendimenti della Resistenza chiama in causa due opposte interpretazioni storiche del Fascismo: quella di Gobetti del Fascismo come ‘autobiografia della nazione’, e quella di Croce che interpretava il fascismo come un incidente, una malattia contratta da un corpo sano. Due diverse ipotesi interpretative storiche, che sul piano della riflessione civile comportano due diverse visioni e giudizi anche sulla società italiana attuale, sulla effettiva solidità dei suoi principi democratici e sul pericolo che, di fronte a tensioni o gravi crisi, essa devii verso soluzioni autoritarie.
Tra quei “ribelli” relegati a un problematico oblio, che avevano contribuito a liberare l’Italia e che ora venivano guardati dai compatrioti con un misto di fastidio e inquietudine, figurava anche Rodolfo Sonego, ex comandante partigiano che, come tanti altri, vedeva le proprie ambizioni e le proprie speranze, riposte in un futuro migliore, più giusto per tutti, retto da una nuova sensibilità culturale e da una nuova attenzione per il proprio prossimo, miseramente frustrate.
Rodolfo Sonego
Sonego fu uno dei tanti figli della provincia italiana, nati durante il ventennio: tutti i giovani venuti al mondo nei primi anni Venti, non avevano conosciuto altro che la dittatura. Vi furono per loro due momenti in quegli anni di conflitto, il 25 luglio 1943 e il 25 aprile 1945, che rappresentarono, non solo una nuova fase dell’esistenza, «l’inizio non di una nuova vita, ma della vita stessa»[3]. Alcuni di loro presero attivamente parte a quel movimento, estremamente eterogeneo, che doveva essere quel biglietto valido per il ritorno nel mondo civile, come auspicava Churchill. Tra loro vi fu anche Rodolfo Sonego.
Nato a Belluno nel 1921 da una famiglia piuttosto umile (che, tuttavia, fece tutti i sacrifici necessari affinché egli potesse frequentare l’Accademia di Belle Arti di Torino), dopo l’armistizio di Cassabile, entrò a far parte delle brigate partigiane e divenne comandante di un compagine che agì proprio nel bellunese.
Dopo la guerra frequentò gli ambienti capitolini, in cui la borghesia romana dava vita a un vivace dibattito sulle forme, sulla tecnica e sui generi cinematografici. Pur nella povertà dell’immediato dopoguerra e in un Paese da ricostruire il confronto culturale, nelle osterie romane, animato da intellettuali, attori, registi e sceneggiatori, riuscì ad essere estremamente stimolante e foriero di innovazioni. Fu proprio in questo contesto che Sonego conobbe personaggi del calibro di Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini, Anna Magnani e Aldo Fabrizi. Tutti loro, Sonego compreso, erano fortemente suggestionati e influenzati dalle manifestazioni di una corrente (che definire scuola sarebbe inappropriato) che da poco aveva fatto la sua comparsa sulla scena nazionale e che scaturiva proprio dall’esperienza della guerra e dall’esservi sopravvissuti. È questo ciò che va sotto il nome di neorealismo. Sarebbe forse corretto pensare al neorealismo come ad un sentimento comune, ad un bagaglio di emozioni condivise da una collettività che nutriva l’esigenza, attraverso la storia di ogni singola sua componente individuale, di raccontarsi. Un modo “empirico”, eppure estremamente efficace, per capire cosa fu il neorealismo è guardare alla prefazione che Italo Calvino, nel 1964, scrisse per la riedizione del suo primo romanzo: Il sentiero dei nidi di ragno.
Per ragioni di spazio ci si limiterà qua a descrivere il neorealismo come un modo di fare arte (s’espresse infatti in diverse forme d’arte) che aveva come propri obiettivi l’impegno morale, la necessità di conoscere la realtà per poterla cambiare in meglio, seguendo il sentiero segnato da quei giovani, dai partigiani, da tutti coloro che avevano resistito al regime e avvertivano come una priorità cambiare una società iniqua, nella quale lo spettro del passato restava presente e minaccioso. Tra i fautori di questo sentire figurava, per l’appunto, Sonego.
Si è detto però che l’ideologia germinata dalla Resistenza, non riuscì mai ad informare appieno la riorganizzazione del nuovo Stato democratico. La mancata epurazione dei sostenitori del fascismo dai quadri della pubblica amministrazione, la messa in disparte di Ferruccio Parri (primo Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia pacificata ed ex capo partigiano), il poco peso politico effettivo della Costituzione (svuotata del potenziale di cui sarebbe stata capace per volere della Democrazia Cristiana, su pressione degli americani)[4] sono solo alcune degli avvenimenti che fecero capire a quei giovani che il sogno che nutrivano, di cambiare l’Italia dalle fondamenta, doveva essere fortemente ridimensionato, se non accantonato. Molti di loro reagirono con profondo scoramento e delusione. Sonego non fu da meno. Ma, nella capitale, da dentro la nuova cerchia di intellettuali in cui era stato accolto, aveva una possibilità, scrivendo sceneggiature, che pochi altri, tra quei ragazzi delusi, ebbero.
Amidei, sceneggiatore egli stesso e produttore, riconobbe a Sonego uno straordinario talento nello scrivere – per quanto lo reputasse più un romanziere che uno sceneggiatore. Comunque la pensasse Amidei, il nostro, tra il 1946 e il 1960, scrisse decine di soggetti e sceneggiature per registi del calibro di Pietro Germi, Luciano Emmer, Mario Monicelli e per attori come Silvana Mangano, Alberto Sordi, Arnoldo Foà, Aldo Fabrizi o Massimo Girotti.
Una vita difficile: guida alla visione.
Una grande alchimia si realizzò nel 1961, quando la scrittura di Sonego incontrò l’occhio della cinepresa di Dino Risi.
Trascorsi sedici anni dalla fine della guerra, il neorealismo, i cui temi e le cui modalità influenzarono anche lo sceneggiatore bellunese, era ormai ridotto ad esercizi asfittici, incapace di rinnovare i suoi moduli proprio per la sua natura asistematica e, in definitiva, per la assenza di modelli da evolvere in una direzione precisa. Per di più, il Paese devastato dai bombardamenti e dalle razzie naziste e alleate, era ormai solo un ricordo sbiadito nelle menti degli italiani che, ora, avevano voglia di riprendere a vivere serenamente. L’occasione per farlo giunse quando gli USA disposero un vasto piano di sostegno destinato a risollevare le sorti dei paesi europei, ma che anche li legava a filo doppio, sia sul piano economico che su quello politico-culturale – agli Stati Uniti e alla sua potenza industriale e commerciale.
Oggi si conoscono bene le cause per cui l’Italia non ebbe mai piena sovranità su se stessa; pedina di un ordine internazionale che la collocava strategicamente nel blocco occidentale; e legata a una situazione politica costretta allo stallo, per la presenza di un partito comunista sentito dagli Stati Uniti e dai moderati italiani come eversivo di un sistema economico-sociale (democratico e capitalistico) e dell’ordine mondiale costituito (l’alleanza atlantica). Anni più tardi Giulio Andreotti ammetterà la sua convinzione «che ci fosse nei servizi segreti, e in alcuni apparati, la convinzione di essere impegnati in una guerra santa […] e che tutto quel che poteva vagamente passare per anticomunista fosse meritorio»[5]. E William Colby, in effetti, responsabile della CIA in Italia e poi direttore generale dell’agenzia, scrisse nelle proprie memorie «l’Italia è stato il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina».[6]
Dobbiamo tuttavia credere che, per Sonego e Risi, come per gli spettatori dell’epoca fosse tutto molto meno scontato: erano troppo coinvolti, cronologicamente e umanamente vicini a quella realtà per poterla osservare in maniera distaccata e critica. È per questa ragione che Una vita difficile può essere considerato, oltre che un tassello irrinunciabile della cinematografia italiana, un documento dello stato d’animo di migliaia di uomini e donne: delusi nel vedere che per l’ennesima volta, nel Paese non cambiava nulla, e in molte delle strutture amministrative e degli apparati dello Stato la continuità rispetto al regime fascista prevaleva sulla rottura.
Sonego e Risi, ormai più che quarantenni, con la lucidità della piena età adulta e grazie al distacco temporale maturato, che consente un’analisi più fredda e l’impiego di un’ironia che esorcizzi un passato deludente, reagirono sinergicamente nella realizzazione di quest’opera.
Da ciò, dal desiderio di svago della popolazione e dalla necessità di rinnovare la commedia italiana, nacque il filone della Commedia all’italiana. Prima di questa si cercava di stimolare il riso dello spettatore perlopiù mettendo in scena gag fisiche, incomprensioni, scambi di persone, personaggi caricaturali e stereotipati, e ciò aveva forse più tratti in comune con certi dei più superficiali espedienti plautini che con il genere cinematografico oggetto del presente approfondimento.
Il meccanismo subconscio che la commedia all’italiana instilla nelle menti di chi ne fruisce è ben più raffinato: l’ironia che innesca la risata deriva, in questo caso, dall’empatia che si instaura tra il pubblico stesso e i protagonisti (figure, in genere, poco edificanti). Tacitamente, a livello più o meno consapevole, più o meno turbati da ciò, gli italiani riconoscono in quell’umanità impressa sullo schermo (che si può, in certa misura, definire gretta) la normalità, la media. Il processo di “agnizione” è automatico perché, in definitiva, altro non è che immedesimazione.
In quella mediocrità, spogliata di onestà e virtù, lo spettatore rivede qualcosa che sembra riguardarlo da vicino: dovrebbe avere la lucidità di capire che sta guardando se stesso, gli aspetti deteriori dell’umanità di cui è parte integrante (De te fabula narratur…); e invece lo spettatore preferisce – applicando un processo ben più rassicurante - credere che quelle disgrazie, quella cattiveria, quell’ignoranza di cui sta ridendo sia altro da sé; che appartengano a un capro sacrificale, immolato sull’altare della risata. E così si può ridere e nel contempo conservare una coscienza illibata.
Se è vero che questo genere cinematografico fu ed è apprezzato da qualsiasi italiano, a prescindere dalle sue condizioni socio-economiche, si deve quindi riconoscere alla commedia all’italiana una valenza trasversale (senz’altro positiva) a tutto il corpo sociale: potenzialmente pedagogica; nei fatti molto meno.
Una vita difficile è, molto probabilmente, l’esempio migliore di commedia all’italiana; eppure, al contempo, oscilla sul confine che separa questo genere dal dramma: ogni opera che appartenga a questo genere, se solo il materiale narrativo fosse trattato diversamente, con ritmi diversi, attori diversi, atmosfere meno convulse e quindi meno stranianti, se, in pratica, ne considerassimo solo la prima stesura del soggetto, si presterebbe piuttosto bene a divenire altresì “film drammatico”. Per quanto riguarda la pellicola che si sta considerando vale la stessa identica cosa, ma in modo ancor più manifesto. La ragione è semplice: quei fatti incresciosi (perfettamente plausibili tra l’altro, assolutamente realistici), quelle difficoltà che tipicamente si innescano all’inizio di una qualsiasi commedia (teatrale o cinematografica che sia), hanno un portato che è tragico per un’intera generazione di uomini e donne, e non solo per i pochi personaggi affaccendati sulla scena.
Quanto Sonego abbia attinto alla realtà, ad un occhio accorto, è evidente.
Il lavoro sul Testo/film
Sarebbe stato un esercizio auspicabile (interessante non solo sul piano critico, ma anche su quello didattico) confrontarsi con il testo della sceneggiatura e con il film, per raffrontarli, in maniera sinottica, e provare a stabilire in che rapporto stessero l’una con l’altro.
Purtroppo ciò non è stato possibile: la sceneggiatura firmata da Sonego è gelosamente custodita dalla SIAE [7] e risulta non essere mai stata edita. Questa è la ragione per cui, di seguito, si proporrà, assieme a una guida alla visione del film, una ricostruzione della sceneggiatura partendo dal lavoro finito.
Si proporrà insomma una sceneggiatura dal film, o una sceneggiatura ex post. Articolando così in funzione didattica uno strumento che apparteneva all’epoca (non lontanissima in termini cronologici oggettivi, ma remota sul piano della percezione soggettiva) in cui non esistendo facili mezzi di riproduzione audiovisiva la conoscenza approfondita di un film passava attraverso l’analisi della sua sceneggiatura ‘di servizio’, scritta a prodotto finito e montato.
Si daranno in allegato alcuni esempi di scene del film, accompagnate dalla loro trascrizione in forma di sceneggiatura. Quanto si legge nei diversi allegati è un’ipotesi (estremamente “asciutta”) di come potrebbero apparire alcune righe di sceneggiatura[8]. In calce a ogni singolo allegato forniamo l’URL che consente di prendere visione dello spezzone di film di volta in volta sceneggiato.
A) Rappresentare gli spazi; descrivere il quotidiano.
Il rimando alla realtà (perlomeno a quella personale dello sceneggiatore) è evidente sin dalla prima scena. Si propone di seguito:
LINK_2_Rappresentare gli spazi
Le azioni che seguono vedono partecipi Sordi, nei panni del protagonista Silvio Magnozzi, e Lea Massari, in quelli di Elena. È proprio la giovane donna, a salvare Silvio, prossimo alla fucilazione per mano di un soldato della Wehrmacht, uccidendo il militare e dando asilo al partigiano in un vecchio mulino.
I minuti successivi sono quelli che introducono anche la vena ironica che percorre l’opera dall’inizio alla fine. Silvio, a parole coerente, impegnato nella battaglia contro gli invasori nazisti e tipico (per dirla con Lukács) nel rappresentare quella generazione di giovani riformisti, in realtà appare gradualmente come un personaggio più mediocre che eroico. Sordi, abituato al ruolo del furbo, dell’ipocrita esperto nell’arte di arrangiarsi, servile nei confronti dei potenti e prepotente nei confronti dei deboli, interpreta in questo film il suo primo personaggio di uomo onesto e sinceramente idealista. In un’intervista di Maria Pia Fusco, essendogli stato posto il problema di stabilire se Silvio fosse o meno un eroe, l’attore romano rispose: «In un certo modo… ma se lo è, è un eroe pieno di debolezze […] e appena possibile si infila nel letto della ragazza»[9]. Una risposta significativa, che bene illustra come nella commedia all’italiana è assente ogni idealizzazione di valori positivi, nobili e alti: ciò vale per l’eroe partigiano, non meno che per la ragazza – come vedremo – che lo mette in salvo dalla morte per mano tedesca.
E in effetti, Silvio comincia a trovarsi particolarmente a proprio agio in compagnia di Elena, al caldo del mulino, dove fa razzia dei salumi appesi alle travi per la stagionatura. Elena si sforza di trattenerlo (segnalando implicitamente che la lotta partigiana non fosse per lei una priorità più impellente della propria soddisfazione e del proprio appagamento) e Silvio non fa granché per resistere alla giovane. Salvo, una notte, ritrovare quella coerenza – che lo stesso personaggio non farà altro che sbandierare e, nell’intimo, inseguire inutilmente per tutto il film – e riunirsi alla propria brigata di ribelli.
Un salto di tempo e di spazio proietta, poi, lo spettatore in avanti di qualche mese: la guerra è finita e l’azione si sposta nella capitale, dove Silvio svolge la professione di giornalista affiancato dal collega, scapolo impenitente, Franco Simonini (Franco Fabrizi). I due giornalisti, della testata indipendente e militante «Il lavoratore», vengono inviati, per seguire uno scoop, proprio a Dongo, quel paesino adagiato sul lago di Como in cui Silvio aveva trascorso i suoi mesi di partigiano e l’avventura con Elena. Tornandovi, Magnozzi ritrova anche Elena che, dopo un’indignazione (più di facciata che altro) per essere stata abbandonata al mulino, “accetta”, senza che Silvio glielo avesse mai chiesto (e quindi con iniziale disappunto del Magnozzi), di seguirlo a Roma. Elena è una donna intelligente, fondamentalmente buona e pratica, ma anche lei è distante da un modello che si possa definire eroico. Manipola Silvio e le sue parole in modo da ottenere quello che vuole: andarsene da quel paesino brumoso per vivere la rinascita della Nazione da un posto privilegiato, Roma, a fianco di un uomo che le possa dare sicurezza. Solo più tardi si scoprirà che Elena dovrà fare i conti con una realtà molto diversa dai racconti idilliaci ed enfatici che Silvio le aveva propinato sulla sua vita nella Città Eterna: l’appartamento di Silvio non è quell’accogliente abitazione che le era stata descritta, ma poco più che un stambugio trasandato, sprovvisto persino della cucina. Le strade del centro di Roma sono invase dai soldati americani e da una sfilata d’umanità varia intenta nelle più varie e misere occupazioni.
Ciò che descrive Sonego, così come il viaggio che porta dalla provincia del nord a Roma, pur affrontato con un piglio piuttosto scanzonato e affidato alla regia ottima ma snella, mai eccedente nel dispiegare i propri mezzi, di Dino Risi, altro non dovette essere che la realtà che lo stesso sceneggiatore, assieme a tanti altri italiani, si ritrovò a vivere nell’Italia che aveva visto sconfitto il nemico tedesco ma che, ora, si ritrovava occupata da un’altra forza straniera, che ne indirizzava le sorti. Si veda quanto afferma lo stesso Sonego in una inetrvista del 1979:
È in particolare la mia esperienza personale come partigiano e il mio arrivo in quella Roma cattolica che pullulava allora di americani. Parlavo della vita in quelle trattorie dove si riunivano i ragazzi, disperati, affamati, che cercavano di arrabattarsi nel giornalismo, nel cinema, nella pittura. I loro problemi, i loro sforzi erano abbastanza simili ai miei. La mediocrità culturale del personaggio [ndr.: Silvio Magnozzi] corrispondeva abbastanza bene alla realtà. I valori sono quelli che sono, forse vanno al di là della nostra immaginazione. Si può pensare a una psicanalisi collettiva di una nazione. Se il nostro Paese è uscito, in blocco, compresi certi conservatori e certi fascisti, è perché una parte della coscienza nazionale ha preso le armi, spontaneamente, contro il fascismo e il nazismo. Così tutto il popolo, alla fine della guerra, ha potuto dire Noi abbiamo combattuto il fascismo; anche se sono stati i suoi figli (pochi, in verità) che lo hanno fatto. […] La Germania, che non ha vissuto tutto ciò, si ritrova nell’impossibilità di trovare una chiave psicologica per uscire dal nazismo. Rifiuto che nasce dalla sconfitta? Ma il perdente non darà mai ragione a chi gli ha fatto baciare la polvere[10].
B) Il grande tema politico e la responsabilità di casa Savoia.
Come fosse un fondale a scorrimento dietro ai personaggi, in Una vita difficile la storia dell’Italia si distende, per tutta la durata del film, dal 1944 sino ai primi anni Sessanta, intrecciandosi strettamente con quella dei personaggi, in un raro rapporto meta-realistico: il pubblico assiste a un background narrativo composto di fatti realmente accaduti, i quali si legano alle vicende dei personaggi dell’universo finzionale di Sonego, che pure traggono ispirazione dalle sua concreta esperienza, e che davanti a quel retroscena di verità diventano, non solo plausibili, ma probabili.
È il caso della grande giornata del Referendum del 2 giugno 1946, quando gli Italiani scelsero tra la Monarchia o la Repubblica.
Silvio, Elena e Franco vagano tra le osterie di Roma (luoghi particolarmente cari a Rodolfo Sonego) cercandone una che faccia loro credito. Sforzo che va frustrato e che naufragherebbe in un sentimento pietoso (più adatto a un’opera neorealista) se non facesse la sua comparsa il marchese Caperoni, antico frequentatore dell’albergo sul lago di Como della famiglia di Silvia. Il marchese invita la coppia a cena presso la casa dei principi Rustichelli. È proprio la sera in cui verrà comunicato l’esito del referendum ed è, inevitabilmente, fonte di contenuti per una delle scene più famose del film, il cui incipit potremmo riassumere così, producendoci ancora in quell’esercizio già provato:
LINK 3_La cena e il referendum
Le premesse della serata non sono delle migliori. Silvio ed Elena si trovano lì per caso ed è evidente che non siano i più desiderati tra gli ospiti possibili: ridotti alla funzione svilente di idoletti buoni da occupare due sedute, così da non alimentare le stramberie superstiziose di una vecchia. Da lì in poi è una sagra di ostilità mal celata, con Silvio che, da una parte accusa il re di essere fuggito, e i monarchici seduti a tavola che accusano i partigiani di essere stati niente più che briganti.
Ciò dura sino all’annuncio gracchiante della radio: l’Italia è repubblicana. Scene di sconforto e disperazione si sussegguono nella sala da pranzo dei Rustichelli dove, alla fine, mentre suona Il canto degli italiani, restano soltanto Elena e Silvio a saziare, finalmente, il loro appetito.
L’Italia è una Repubblica parlamentare ora: in questo primo momento parrebbe che le istanze riformatrici dei giovani partigiani, del CLN e di tutti coloro che presero parte alla Resistenza abbiano trovato, non solo ascolto, ma applicazione. Ma per Silvio, per Sonego e per tutti coloro che pensavano che quel referendum fosse solo l’inizio di un processo di rifondazione delle fondamenta dello Stato, il tutto si dimostrerà presto essere una vittoria incompleta. Gli avvenimenti successivi del film riveleranno la delusione per una società ben lontana dall’attuare i nobili principî di giustizia, onestà e solidarietà, indicati dalla carta costituzionale.
C) La corruzione, la delusione dei giovani riformisti e il tradimento dei valori partigiani.
La sequenza successiva ci fa slittare in avanti di due anni, al 1948 e alle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana. Accompagnata da un commento musicale vediamo una carrellata, tratta da cinegiornali e riprese d’epoca, di tutti i maggiori protagonisti di quel momento cruciale della storia nazionale. De Gasperi arringa la folla accompagnando il discorso con gesti delle mani, secchi, bruschi, precisi, con il consueto piglio severo e grave; Togliatti parla dal pulpito di una casa del popolo: il suo sguardo intelligente e acuto attraversa come una lama le lenti dei suoi occhialetti mentre parla con la solita aplomb e l’uditorio ascolta, attento, senza esultare, senza schiamazzi di sorta; intanto sullo sfondo, due gigantografie di Marx e Lenin, numi tutelari del sol dell’avvenir, sorvegliano accigliati sul corretto svolgimento dell’utopia comunista. Nenni invece parla da sotto il ritratto di Turati, con fare informale, in maniche di camicia. Subito dopo Silvio si prende la scena, all’interno della redazione de «Il Lavoratore».
Tutte le libertà sono tornate, il mondo di prima non esiste più, Mussolini è cadavere da qualche parte mentre il popolo è libero di istruirsi e di crescere sotto la guida di quelle figure che Gramsci chiama intellettuali e che sono teste di ponte per le coscienze di tutti, garanti di un nuovo modo di pensare la vita civile, trait d’union tra classe dirigente ed elettori, militanti, operai, socialisti: quante più persone possibile. E alla fine sarebbe stata un’Italia giusta, redistributiva eppure meritocratica, che non avrebbe dimenticato nessuno, che non si sarebbe girata dall’altra parte davanti alla mancanza di infrastrutture nel Mezzogiorno o alle condizioni di lavoro degli operai che abitavano le periferie milanesi: grossi problemi ai quali cercare soluzioni. E chi si fosse macchiato di reati contro il popolo avrebbe pagato, in maniera ineluttabile e severa, perché il desiderio di giustizialismo in chi l’ha subito per secoli è fortissimo: è quasi vendetta. Un’Italia giovane, un po’ irruenta, un po’ ingenua ma fortissima, agile, capace di imparare dai suoi errori e alla fine diventare anche una Nazione saggia.
E invece no. Non è vero nulla di ciò che Silvio pensa essere conquista acquisita, diritto inalienabile.
Il potente imprenditore che, con la propria inchiesta, Silvio minaccia di mandare sul lastrico, e forse in galera, lo convoca nella propria villa, a bordo piscina, dove si profonde in uno scoperto e insolente tentativo di corrompere il giovane giornalista. Il Magnozzi resiste deciso alle lusinghe economiche del commendator Bracci (Claudio Gora) e pubblica il suo articolo che accusa, presumibilmente adducendo prove di un certo peso, il commendatore. Eppure Silvio, dopo una discussione domestica con Elena, sull’opportunità di accettare quella “generosa offerta”, si ritrova in tribunale a difendersi dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa. Viene condannato ma si risparmia il carcere con la condizionale, essendo incensurato.
E allora cos’è successo? Chi era stato potente prima e durante il regime fascista, quelle categorie antropologiche, professionali tanto invise, hanno ancora la possibilità di piegare la realtà a proprio piacimento? Riescono ancora ad insinuarsi nella macchina giudiziaria e ad oliarla? Pare di sì. Sono esperti, inseriti in dinamiche gattopardiane e talmente incancrenite (oltre che ricche di attori) che non sono un singolo documento o una sola testimonianza a poter scalzare; nemmeno l’esperienza di impegno e sacrificio della Resistenza basta a cambiare questo dato avvilente.
Inizia qui per Silvio una sorta di discesa agli inferi della delusione; per Sonego, che scrive e guida il Magnozzi sullo schermo, è invece rievocazione e ricordo di una mesta presa di coscienza che, da qui in poi, non conoscerà battute d’arresto ma solo rinforzi e accelerazioni. E, alla fine, Silvio in galera ci finisce per davvero.
Appena uscito al fianco di Elena dal Campidoglio, dove i due si sono appena uniti in matrimonio, accompagnato dal collega Simonini, Silvio viene travolto da un’onda di folla concitata. Sono passati anni dalle scene che si vedono all’inizio del film: ora la narrazione è arrivata al 14 luglio 1948. Sono passati tre mesi dalle prime elezioni politiche della storia repubblicana, in cui la Democrazia Cristiana ha sconfitto i comunisti e i socialisti, e il clima politico e sociale in Italia è estremamente teso. Un giovane, animato da forti sentimenti nazionalisti, esplode diversi colpi di pistola contro il segretario del PCI: Togliatti è raggiunto da tre pallottole ma non muore. L’attentato contro di lui è accompagnato da disordini e manifestazioni. Sullo schermo si susseguono, come già accaduto in precedenza, scene originali, tratte probabilmente da cinegiornali, e i titoli delle testate giornalistiche più in vista del Paese, elementi che riportano a quella realtà che riguardò tutti gli italiani e che attira in se stessa Silvio, come in un gorgo: tra i suoi ideali e le sue tante piccole incoerenze lui ne esce sempre più ammaccato.
Che non ci si trovi dinanzi a un uomo tutto d’un pezzo è scritto nello statuto stesso del genere cinematografico a cui il film appartiene e le azioni di Silvio sono disordinate e sguaiate: prende parte ai tumulti che seguono l’attentato al segretario del Partito Comunista, viene arrestato e condannato a due anni e due mesi di reclusione che Silvio sconta barcamenandosi tra il ruolo auto-assegnatosi di portavoce dei carcerati e la scrittura del suo “ambizioso” romanzo: Una vita difficile.
Quando Magnozzi esce di galera, ad accoglierlo, lo attendono la moglie, Simonini e Paolino, il figlio nato dall’unione con Elena. Il bambino è poco più che in fasce e il vecchio collega e compagno di avventure Simonini che, sino ad allora, aveva rivestito il ruolo di aiutante (anche se decisamente indolente) si presenta a bordo di una elegante coupé: ha accettato ciò che Silvio si era rifiutato di fare. Si è fatto corrompere e lavora proprio per il commendator Bracci, che anni prima aveva citato in giudizio Silvio per diffamazione.
D) Tra corridoi universitari ed epurazioni mancate.
L’occasione per cambiare la propria esistenza viene dal sostegno della madre di Elena, che assicura al genero un impiego stabile, se solo avesse portato a termine gli studi di architettura intrapresi prima della guerra. Questo porta l’ormai ex giornalista de «Il Lavoratore» a tornare sui libri ma, tra vicini chiassosi, i pianti di Paolino e la poca voglia di studiare, la preparazione degli esami è un supplizio. Silvio è infatti mal indirizzato da una buona dose di pigrizia e incostanza, ben lontano dalla figura dell’eroe che sacrifica parte del proprio essere per un bene superiore (immagine che non ha mai fatto molto presa nell’immaginario degli italiani, sin da quando italiani ancora non erano, senza l’egida della corona sabauda). Così, quando arriva il giorno dell’esame, si consuma il dramma personale del protagonista e una delle scene più emblematiche di tutto il film.
L’esaminando è in piedi di fronte a tre professori austeri e dai volti torvi. La prima cosa che la commissione fa è riprendere Magnozzi per la sua barba sfatta. Silvio si scusa, poi ammette, con una nota di vergogna, che non frequenta più l’università da dodici anni. Nonostante questo tentativo di avventurarsi su di un terreno fatto anche d’empatia, nessuno dei tre professori fa nulla per mettere Silvio a proprio agio: nessuno s’interroga su cosa gli fosse accaduto in quei dodici anni che (sarebbe da scommetterci, soprattutto vista l’età dei tre), è probabile che i docenti abbiano passato – magari per sola convenienza, lo si conceda pure – con la tessera del PNF nel portafogli a dare i 18 di guerra a chi si presentava agli esami con la camicia nera. Poi un’epurazione, che per alcuni sarebbe stata sacrosanta, era mancata e il talento trasformistico e le lacune mnemoniche tipicamente italiche avevano fatto il resto.
L’epilogo è abbastanza scontato: il goffo studente che è ora Silvio fa scena muta. Quando finalmente uno dei tre docenti si decide a chiedergli cos’avesse fatto in quei dodici anni, e dopo avere ascoltato la sua risposta, Magnozzi si sente rispondere che, in quella sede, la Resitenza, l’impegno civile e l’attivismo non hanno alcun valore. In quell’occasione Silvio racconta se stesso, la “progettualità” che ha riservato per la propria persona e per la propria crescita; come in un manifesto di un’anima engagée, come suggeriva J. P. Sartre. È sinceramente accorato mentre parla; ma delle sue debolezze e incoerenze già s’è detto...
Silvio viene, ovviamente bocciato e, di per sé, ciò non sarebbe un dramma: ma nel protagonista si rompe qualcosa. Scornato e mortificato dallo sminuirsi dei propri valori, ritenuti invece indiscutibili, la delusione, questa volta, è penosamente tangibile sul suo volto. E quando i propri riferimenti crollano la cosa più naturale da fare, per chiunque, è la fuga. Silvio non fa eccezione. Sgattaiola fuori dall’università e subito dopo lo ritroviamo perso in un nightclub, ubriaco e al telefono con Elena, intento a farneticare le proprie definitive intenzioni di fuga. È allora che la moglie si reca in prima persona nel locale dove Silvio è intento a soffocare la propria frustrazione nell’alcol, accompagnato in questa sorta di resa da un paio di persone che potremmo definire “poco rassicuranti” per l’immaginario borghese medio. È in quel contesto che tra i due coniugi si consuma la rottura definitiva, dopo anni di battibecchi dovuti alla diversità delle loro due nature: Elena, pratica, attenta a se stessa e sempre intenta a fare – alle volte a scapito di una certa integrità – e Silvio, idealista e votato al prossimo, ma troppo pigro o troppo debole per essere coerente e per tramutare quelle esigenze morali ed intellettuali (modeste, a dir il vero) in azione concreta. Questo parallelismo tra i due personaggi legati in un matrimonio, che poco alla volta inizia a sembrare sempre più insostenibile, continua su quel fondale a scorrimento, su quella scenografia mobile che è la storia d’Italia (o addirittura del mondo intero): un’esigenza di rinnovamento verde e dirompente, ma anche ingenua e un po’ fatua da un lato; la concretezza più fredda e materiale di una società che non può ignorare la realtà del Boom economico, i dollari americani, un mare di oggetti invitanti e di sostanza a scadenza, da consumare.
Silvio, ubriaco, allontana da sé Elena, accusandola ingenerosamente di colpe che non ha: si consuma una separazione brusca che pare essere irreversibile. Chi però, dei due, sembra avervi perso di più (ammesso che abbia senso instaurare questo confronto) è proprio Silvio, che aveva in Elena l’unico elemento ordinatore della propria esistenza.
E) Il mondo cambia. Il tentativo letterario e la progettualità della propria persona falliscono.
Magnozzi, allora, rimasto da solo a vivere nella capitale, inizia un peregrinare angosciante tra case editrici e set cinematografici: libero di buttarsi a capofitto nella promozione di Una vita difficile, il soggetto e sceneggiatura di un film che racconta la propria vita. Ma la verità è che il suo bagaglio valoriale, così come lo stile e il genere che contrassegnano la sua impresa letteraria, sono passati di moda; è tramontato il neorealismo, sostituito al cinema da nuovi temi e interessi: perciò le parole di Silvio poco si adeguano alla domanda di produttori e registi. Una vita difficile, quella a firma Silvio Magnozzi, non è adatta nemmeno per farvici un romanzo: si sentono, dalla bocca dell’autore, alcuni passaggi, letti col fine di persuadere un editore. La prosa è mediocre e, per quanto sia vero ciò che Silvio sostiene, cioè che è indispensabile tener viva la memoria di certi avvenimenti, è anche vero che tanti altri lo hanno fatto in maniera molto più interessante. Silvio si rivela assolutamente inadatto al contesto storico a lui contemporaneo – e nello spettatore continua a farsi strada il dubbio che forse quell’inettitudine non sia dovuta solo a un contesto o a una contingenza esterna, ma che certi limiti siano insiti nella persona del protagonista.
Quando la speranza di cavare qualcosa dal proprio dattiloscritto è al lumicino, Silvio incontra per caso il marchese Caperoni, ormai al limite dell’indigenza e ridottosi a fare la comparsa nei peplum di cinecittà. In una sorta di confronto tra due mondi diametralmente opposti, quello dell’aristocrazia e quello del primo riformismo di sinistra del dopoguerra, i due campioni si ritrovano uniti proprio dalla loro inadeguatezza al presente. Il confronto è cordiale, quasi fraterno, a un certo punto; ed è dal marchese che Silvio apprende che ora Elena vive assieme a Paolino a Viareggio.
Subito Silvio parte alla volta della riviera Toscana per riconquistare Elena. L’esito di questo tentativo, dopo due anni di separazione dalla moglie, trascorsi senza alcun progresso per la maturazione personale del protagonista principale, è fallimentare. Elena respinge a più riprese il proprio consorte sino a che questo non si ritrova coinvolto in una rissa con il nuovo fidanzato di Elena (un maturo e ricco professionista) e finisce, ubriaco e profondamente alterato ad inveire contro chiunque passi sul lungomare di Viareggio.
Potremmo definire questa, assieme a quella dell’esame universitario, la vera “scena madre” del film. Nel link che alleghiamo riportiamo due fotogrammi del film e le indicazioni di ambientazione, non riportiamo le parole del personaggio, non solo perché la scena vive soprattutto sulla mimica e i gesti di Sordi, ma soprattutto perché questo celebre spezzone (una prova d’attore tra le più alte della carriera di Sordi) fu essenzialmente improvvisata dal protagonista, con Risi ad assecondarlo in questa grande prova attoriale, a tratti casuale quanto significativa ai fini degli equilibri generali del film e della narrazione.
Se il film terminasse qui non vi sarebbe nulla da aggiungere: il suo significato è già stato esaurito. Ed ha il sapore amaro della verifica definitiva della disillusione: la deriva degli ideali che avevano animato la resistenza e il grande slancio della Costituente; l’impossibilità di affermare con coerenza i propri ideali in una nazione troppo disposta ai compromessi, e in cui ogni singolo è molto più attento a coltivare i propri immediati interessi, a inseguire il sogno miope e banale del piccolo quotidiano benessere.
F) Compromessi impossibili tra capitalismo ed esigenza morale.
L’occasione (un po’ troppo cupa e non ottimamente armonizzata con il resto del film) è data, tempo dopo la visita a Viareggio, dalla morte della vedova Pavinato, madre di Elena. Silvio si presenta al funerale con un’opulenta cabrio americana che parcheggia, con chiara volontà d’ostentarla, a pochi passi dal corteo funebre. Avvicinatosi ad Elena riesce a parlarle e a convincerla di essere cambiato: ha accettato di scendere a patti con una società che non gli corrisponde e ora ha un impiego molto ben retribuito, che gli permette di guidare quella Cadillac bianca, quasi mostruosa per le vie di Dongo, paesino mestamente addormentato sul lago di Como.
Questa volta il tentativo di ricongiungimento ha successo e i due sposi tornano a Roma come una famiglia. Assieme si presentano ad una festa sfarzosa, organizzata dal commendator Bracci, che nel frattempo ha assunto Silvio, col deliberato intento di sottoporlo a una quotidiana umiliazione. La volontà dell’imprenditore è talmente palese, durante le ultime battute del film, da essere chiaramente evidente anche per Elena. Il culmine della tensione giunge quando Bracci rovescia in faccia a Silvio tutto il contenuto del sifone per il selz. A quel punto anche Elena si rende conto delle iniquità a cui il marito è costretto per esser sceso a quei compromessi che lei stessa aveva preteso da lui; gli lancia uno sguardo commosso che vale ad autorizzarlo a riconquistare la propria dignità.
Magnozzi si avvicina risoluto al commendatore, intento in una conversazione con un alto prelato a bordo piscina: allontana con decisione il porporato e assesta un tale ceffone a Bracci da farlo cadere in piscina. Dopo di che la coppia, se ne va, a braccetto, fuori dal campo dell’inquadratura e nel mormorio generale.
Questo finale può apparir forzato, troppo accelerato e sovraccarico d’una certa entropia, almeno rispetto al resto dell’opera: in realtà è ciò che riporta (più o meno solidamente) Una vita difficile all’interno di una categoria nella quale al contempo spicca ma dalla quale rischiava di debordare.
Come da manuale, come prescritto dal genere di appartenenza, si possono interpretare queste ultime sequenze come una sorta di statutario happy ending. Ovviamente, lo sarà solo dal punto di vista del riscatto morale dei personaggi: essendo molto del film dedicato proprio a un discorso che tange con una discreta insistenza la riflessione morale, tutto ciò è più che giustificato.
Tuttavia, ciò che lo sceneggiatore suggerisce, così come ha fatto con tutti i suoi personaggi e le loro azioni, è che dietro a quella conclusione stereotipata, stia qualcosa di molto meno lineare e scontato che, in definitiva, è, ancora una volta, la realtà. Si può solo provare ad immaginare a quale destino andranno incontro, dopo quello schiaffo, Silvio ed Elena: la logica non suggerisce nulla di buono. Sonego ribadisce, invece, stentoreo, pur con la sua ironica delicatezza, per l’ultima volta, la difficoltà sfibrante del vivere con un’idea di società egualitaria dentro di sé ma calati in un mondo frenetico, ostile e carnevalesco, dedito perlopiù al consumo, popolato di sciocchi feticci capitalisti e di persone che accettano, in modo prono, il proprio essere idolatri.
Giugno 2021
[1] Paul Ginsborg, Op. Cit., p 48.
[2] Giorgio Bocca, Il provinciale, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 184.
[3] Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino, 1989, p. 12.
[4] Cfr. Guido Crainz, Storia della Repubblica, Donzelli Editore, Roma, 2016, p. 44.
[5] P. Cuccarelli e A. Giannulli, Lo Stato parallelo. L’Italia «oscura» nei documenti e nelle relazioni della Commissione Stragi, Gamberetti, Roma, 1997, p. 348, in Giorgio Vecchio e Paolo Trionfini, L’Italia contemporanea. Un profilo storico (1939-2008), Monduzzi Editore, Milano, 2013, p. 263.
[6] Ibidem.
[7] Ciò che si è reperito di più somigliante alla sceneggiatura originale è una sua versione francese (non si capisce se pedissequa traduzione o libera interpretazione) pubblicata sulla rivista francese «Avant scene du cinema», nel febbraio del 1977, a cura di Jean-Claude Biette.
[8] A titolo esemplificativo si è tuttavia utilizzato un formato tipicamente appannaggio delle sceneggiature americane, così da renderlo più facilmente fruibile ai lettori. Il formato più comunemente usato in Italia separa la pagina in due colonne: a sinistra le azioni e destra i dialoghi.
[9] Una vita difficile. Risate amare nel lungo dopoguerra, a cura di Lino Miccichè, Marsilio, 2000, p. 25.
[10] Lorenzo Codelli, Entretien avec Rodolfo Sonego, in «Positif», XVII, n° 216, febbraio 1979, p.52. (v.di archivio storico «Positif» all’URL https://calindex.eu/parutions.php?larevue=POS).