Marcella Di Franco - L’arte del gioco e il suo valore educativo

1. Significatività dell’esperienza ludica

    «Ciò che per il bambino è gioco per l’adulto è arte». [1] L’espressione, estremamente densa di significato, evidenzia come il gioco rappresenti per il bambino l’attività più congeniale e spontanea: non è ‘un’attività’ tra le altre, ma è ‘l’attività’ ante litteram, principale, se non esclusiva dell’età infantile. Psicologi, neuropsichiatri, pedagogisti di età moderna e contemporanea concordano nell’attribuire al gioco un enorme rilievo come fattore diagnostico, emotivo, affettivo e sociale. Di fondamentale importanza per lo sviluppo mentale, per la formazione del futuro adulto, per la prima interazione sociale  con gli altri, il gioco contribuisce alla sua crescita serena ed equilibrata. Nel contesto ludico, infatti, il bambino può liberare la sua fantasia, esprimere tutto il suo mondo interiore, manipolare la realtà adattandola al suo specifico universo ed esplorare il mondo esterno nei suoi aspetti fisici e sociali. Il gioco permette al bambino di manifestare il suo subconscio, le sue preferenze, i suoi timori e le sue paure, introduce alla vita, guida le capacità verso un fine, educa l’intelligenza, consente di fare gli esperimenti ficta, anche azzardati, senza imbattersi nell’eventualità dell’insuccesso. Il gioco nel senso di libera improvvisazione, fantasia incontrollata, movimento e divertimento è assimilabile al concetto greco di  paidia.
Occorre pertanto recuperare le radici più autentiche del gioco allontanandosi dalle deformazioni della nostra civiltà ipertecnologica che è spesso causa di dipendenza patologica o deviazione deformante della natura originaria del ludus, com’era nelle epoche più remote.
Ma il gioco è anche un’attività persistente e continuata che accompagna l’intera l’esistenza umana per cui si può parlare con Huizinga di ‘homo semper ludens’. [2] Non è soltanto una prerogativa precipua dei bambini di ogni tempo e latitudine del mondo: giocano i grandi come i piccoli, anche se con modalità e finalità diverse, giocano gli animali assecondando il loro istinto naturale. Il gioco, sia negli animali che nell’uomo, fornisce all’organismo gli stimoli necessari per lo sviluppo del sistema nervoso, conserva e rinnova le attività acquisite, libera da emozioni negative e potenzialmente pericolose, prepara i sentimenti della solidarietà sociale. L’attività ludica in sintesi favorisce lo sviluppo unitario della personalità umana, del pensiero e della creatività infantile, e non va affatto confusa con una forma di ‘perdita di tempo’. Froebel aveva acutamente raccomandato in tal senso:

I bambini non mandateli via non perdete la vostra calma nel rispondere alle loro domande, altrimenti distruggerete una gemma, il tenero germoglio dell'albero della vita. Viviamo con i fanciulli e facciamo che essi vivano con noi. Il gioco è la spirituale manifestazione dell’uomo nell’infanzia.[3]

   Forme embrionali di attività ludica si colgono già nel grembo di una donna in gravidanza; da una semplice ecografia si può persino osservare il feto mentre succhia le proprie dita, gioca con il cordone ombelicale o abbozza capriole. Venuto alla luce, il neonato continua a giocare perché è con esso che impara conoscere il mondo circostante assolvendo a diverse funzioni: soddisfare la sua curiosità, sperimentare le proprie capacità motorie e cognitive. Nel primo periodo di vita si attiva cioè una forma di ‘apprendistato’ durante il quale acquisisce le regole basilari della propria sopravvivenza: mangiare ad orari regolari, dormire quando è buio, tollerare la sofferenza dell’assenza o del distacco  momentaneo  dalla madre.

2.  Iocus e  pedagogia antica

Nel contesto pedagogico della cultura greca, la città di Sparta dava prevalenza all’educazione autoritaria, basata sulla rigida disciplina del sacrificio, l’austerità della vita militare, attraverso la formazione degli eroi - soldati, il cui unico valore era porre la propria vita al servizio della polis per renderla illustre e gloriosa. Ad Atene, invece, la pedagogia era più artistica, incentrata sulle discipline sportive, sull’esercizio del corpo e della musica, per conferire forza e bellezza, kalokagatia o euritmia all’individuo e alla città. Lo stesso filosofo Platone sosteneva che l’adulto sarà tanto migliore quanto meglio avrà giocato da bambino. Anche Aristotele accentuò il principio del gioco, come profezia del futuro lavoro, puntualizzando che i giochi dei bambini preparano alle attività che i fanciulli dovranno compiere in età matura.
Nella loro prima infanzia anche i bambini di epoca romana, tra il I e il II secolo d.C,  dedicavano al ludus un tempo pressoché illimitato, ma distinto per sesso ed età. Le bambine giocavano con le pupae, bamboledi vario materiale (pezza, legno, avorio, osso, terracotta) come attestato dalle tombe in cui a volte sono state rinvenute tra gli oggetti più cari appartenuti a bambine defunte. I bambini, invece, giocavano col cerchio, la trottola, il cavallino a dondolo, con monete, a capita aut navita (testo o croce), le biglie o le noci. L’espressione ‘dare addio alle noci’ significava infatti dare l’addio ai giochi dell’infanzia per avviarsi all’età adolescenziale. La prima istruzione dei figli era affidata al pater familias e si limitava alle tre abilità di base: la lettura, la scrittura e il calcolo.  Per i calcoli i ragazzi usavano dei semplici calculi, sassolini e l’abacus, l’abaco, una sorta di pallottoliere. Successivamente, dai sei agli undici anni, l’istruzione era affidata al magister ludi. Nella scuola primaria, ludus litterarius, i contenuti dell’insegnamento non si attenevano a programmi definiti, ma erano molto liberi e flessibili. Le stesse classi non erano uniformi per età  per cui ciascun magister poteva interagire con allievi di età e preparazione differenti. [4]
Il gioco ritorna insistito soprattutto nell’ideologia del primo maestro di retorica del I secolo d.C la cui attività letteraria fu rivolta prevalentemente ai problemi dell’insegnamento e della trasmissione della cultura: Marco Fabio Quintiliano. La parte più valida della sua opera, l’Institutio oratoria, è quella pedagogica in cui dimostra una profonda conoscenza dell’animo del fanciullo e dei problemi educativi. Egli segue l’allievo fin dalla nascita: descrive l’ambiente familiare dove si svolge l’infanzia e il rapporto con le nutrici, sostiene la necessità che il futuro oratore fin da piccolo acquisisca una buona cultura generale e si fa sostenitore di una pedagogia umanistica. Quintiliano fu anche il primo pedagogista della storia che ha eliminato le punizioni corporali, usuali nella scuola antica, suggerendo metodi educativi liberali. Nel primo libro afferma che si può fare iniziare lo studio delle lettere ai fanciulli di età inferiore ai sette anni «affinché la loro mente sia formata con i migliori principi che possono essere di profitto per l’adolescenza». Occorre non costringere duramente i fanciulli e che lo studio sia impostato sottoforma di gioco. Scriveva infatti: «Talvolta gareggi e sia indotto a credere che più spesso vince, sia attirato anche dai premi, a cui quell’età tiene molto».
Nell’allora dibattuta questione se fosse meglio affidare l’insegnamento dei fanciulli alle cure di un precettore, attraverso un insegnamento privato, impartito nelle casa aristocratiche dal paedagogus, o al grammaticus di una scuola pubblica, pagato dalle famiglie degli alunni - ben diversa dal concetto odierno in cui è lo Stato che si occupa dell’educazione dei suoi cittadini, attraverso strutture pubbliche - Quintiliano prese decisamente posizione a favore della scuola pubblica enumerando i vantaggi che derivano dal contatto con i coetanei e dall’emulazione perché imparare insieme agli altri favorisce la socializzazione, il confronto con i coetanei, l’emulazione, la competizione che può far progredire l’apprendimento, rendere gli alunni più sicuri e disinvolti. Anche il docente, lavorando con più allievi, risulta più motivato,  impegnato ed efficace nella sua azione educativa. Quintiliano difendeva pertanto la vita in comune, la socializzazione che è «cosa naturale non solo per gli uomini, ma anche per gli animali».
Il buon maestro non doveva caricare molto presto le deboli forze dei discepoli, ma moderare le proprie forze e adeguarsi al livello di intelligenza dello scolaro. [5] Sul piano pedagogico Quintiliano diceva che gli uomini sono inclini ad apprendere a livello potenziale. Conta molto l’ambiente  di apprendimento e il ruolo degli insegnanti. I fanciulli hanno la straordinaria capacità di imitare gli adulti, alcuni giovani sembrano geni, ma poi deludono i maestri. Quintiliano era un tradizionalista per la centralità riservata al magister. L’insegnamento era da lui concepito come un semplice ‘travaso’ di sapere dal magister al discipulus, opposto alla pedagogia odierna in cui è l’allievo a costruire le sue conoscenze e competenze sotto la guida del docente: l’alunno è posto al centro del processo di apprendimento (puerocentrismo), come nell’Emìle di Rousseau. Un’esperienza, sia pure con le dovute differenze temporali accostabile alla flipped classroom,  insegnamento capovolto o classe rovesciata in cui la lezione viene trasferita sull’allievo che, a casa o in classe, ricerca e utilizza i materiali didattici disponibili online. Si tratta di una didattica attiva e individualizzata nella quale il docente svolge un ruolo di tutoraggio dello studente. I fanciulli per Quintiliano andavano educati diversamente, in base alla loro indole, il che equivale all’odierna personalizzazione degli apprendimenti, ed era compito del buon maestro scoprire il carattere di ciascuno e regolare di conseguenza il processo educativo. Decisamente  contrario ai castighi fisici, disapprovava aspramente le percosse perché:

[…] è cosa vergognosa ed adatta agli schiavi, e comunque costituisce una forma di violenza, demotiva dal momento che i bambini più recalcitranti si abitueranno presto anche alle percosse. A nessuno deve essere concessa troppa licenza nei riguardi di un’età debole ed esposta ai soprusi.[6]

   Il gioco invece era  ritenuto necessario per i fanciulli perché per il suo tramite si poteva completare l’educazione e individuare le inclinazioni dei singoli. Valorizzava il ludus per rendere più leggero il processo dell’apprendimento. Ribadiva la superiorità dell’attività ludica sulle altre purché non diventasse ozio, ma stimolasse lo spirito creativo ed emulativo del fanciullo e fosse utile oltre che piacevole (miscere utile dulci).  I castighi d’altra parte rendevano l’allievo più caparbio, erano da condannare perché non avevano nessuna efficacia, avvilivano o facevano diventare più ostinato e svogliato il discepolo ed erano adatti solo agli schiavi: in quest’ultimo aspetto Quintiliano rifletteva la mentalità del suo tempo. Il maestro doveva essere una sorta di ‘padre’ per gli allievi, non eccessivamente severo, né troppo permissivo. Gli allievi avrebbero dovuto rispettarlo come un padre, in un processo di collaborazione reciproca tra docenti e discenti. Doveva altresì essere tollerante e paziente, correggere l’errore dell’allievo ed elogiarlo, ma sempre nella giusta misura. Suggeriva criteri meritocratici: premi per i più bravi, senza accorgersi che i meno dotati si sarebbero sentiti umiliati o emarginati.
Tra i principali segni di intelligenza nei fanciulli erano ritenuti importanti la buona  memoria e la capacità imitativa perché il bambino riproduce ciò che impara. [7] Il timore, al contrario, inibisce e paralizza alcuni bambini e quindi il metodo autoritario era da respingere. Del resto alcuni bambini erano formati dalla costante applicazione mentre altri davano migliori risultati attraverso il libero slancio e l’intuizione.
Per Quintiliano il fanciullo ideale era quello che

la lode stimola, il successo incoraggia e che quando è sconfitto piange. Questo dovrà essere educato facendo leva sull’ambizione, questo sarà punto dai rimproveri, questi sarà stimolato dai richiami […].

   Sosteneva altresì la necessità di un apprendimento graduale, in cui bisognava

[…] concedere a tutti una qualche pausa di riposo perché non vi è nessuna cosa che possa sostenere una continua fatica e perché il desiderio di imparare dipende dalla volontà che non può essere costretta.

   Il gioco era dunque vissuto come epifania dell’innata vitalità nei fanciulli e come  un valido stimolo ad apprendere, anche se andava regolato entro giuste proporzioni. Vi erano poi alcuni giochi utili ad aguzzare l’intelligenza dei fanciulli, quando gareggiavano ponendosi a vicenda domande di ogni genere. Infine bisognava ammonire il fanciullo a non commettere mai azioni dettate da passioni egoistiche, malvagie ed incontrollate.

3. Il gioco nella pedagogia moderna

La scoperta del gioco come attività principale e tipica del bambino è una scoperta relativamente recente, ma in tutte le epoche la società ha riconosciuto la profonda  valenza didattica del gioco come preludio alle predisposizioni dell’uomo futuro. Friedrich Froebel (1782-1852) [8] ha infatti equiparato il gioco alla vita stessa del fanciullo, perché compendia i suoi aspetti fondamentali: fantasia e azione. Il fanciullo è impregnato di essenza fantastica in quanto attribuisce un’anima, una vita a tutto ciò che lo circonda, come accadeva nelle culture primitive fondate su religioni animistiche. Egli presta i suoi modi di sentire alle cose che fantasticamente si animano. Perciò il bambino, soprattutto nei suoi primi anni, ascolta incantato favole, fiabe e racconti, come se fossero vere, senza cogliere la loro finzione creativa. Froebel valorizzava la fantasia nei suoi ‘giardini dell’infanzia’ e volle che i giochi fossero compiuti attraverso un materiale che doveva servire ad alimentare la libera creatività. Il fanciullo è anche azione, curiosità, esplorazione, manifestazione dell’attività creatrice dello spirito. Agire, muoversi, saltare sono necessari per il suo sviluppo fisico e spirituale. La vita della fanciullezza si esprime nel gioco che è la vita stessa del fanciullo ovvero il suo lavoro. Da una parte il gioco assume un valore psicologico per l’educatore, perché il bambino è lì che esprime la sua spontaneità, dall’altra è principio educatore, perché dal gioco trae stimoli efficaci ed utili per la sua maturazione. L’infanzia prepara la fanciullezza che, a sua volta, è premessa dell’adolescenza e così via fino alla formazione completa dell’adulto. Per Froebel non si può diventare veramente uomini se non si è stati veramente bambini; attribuiva in tal senso un significato duplice al gioco: da una parte permetteva di conoscere l’animo del fanciullo, promuovendo il processo di formazione, dall’altra investiva l’educazione e l’insegnamento ponendo le basi per l’autoapprendimento e l’educazione. Giovanni Gentile (1875-1944) osservava:

Un grande educatore, il Froebel, aveva insegnato come si fa ad intendere il gioco, vivendo la vita del bambino, amando e penetrando dentro il suo animo […] affermando che il gioco è il lavoro del bimbo […] insomma non è il bimbo che gioca, ma lo stesso spirito.[9]

   Anche Vittorino da Feltre (1373-1446), pedagogista umanista, operò un rinnovamento della scuola del tempo con la fondazione della ‘casa giocosa’ ove favoriva i giochi all’aria aperta senza cadere nell’ozio, scrivendo a tal proposito che  «il moto e l’agitazione del corpo giovano loro mirabilmente». Il gioco nell’età pioneristica della pedagogia moderna assunse sempre più un carattere educativo: John Locke (1632-1704) [10] approfondì il concetto di interesse, esaminò gli stimoli dell’agire infantile, il desiderio di divertimento, fino a giungere a formulare la teoria del gioco come lavoro del fanciullo. [11]
Jean Jacques Rousseau [12] lo superò trasformando il lavoro scolastico in gioco. Con l’avvento dell’attivismo il fanciullo diventa il soggetto e protagonista dell’attività educativa e il gioco evolve in mezzo di apprendimento.
Maria Montessori (1870-1945) [13], figura centrale dell’attivismo pedagogico italiano, definì il gioco come esercizio psicofisico e come strumento di sviluppo delle attitudini sensorie, mezzi indispensabili per la crescita e la maturazione dell’individuo, finalizzati all’apprendimento nella sua ‘casa dei bambini’.
Le sorelle Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi (1870-1945), sottolinearono che il gioco deve essere frutto dell’iniziativa e dell’invenzione creativa del bambino, libero, spontaneo, non legato alla creazione selvaggia. Il bambino ama raccogliere e conservare oggetti occasionali cominciando ad edificare il ‘museo delle cianfrusaglie’ ,[14] ordinate in base al colore, alla forma, alla somiglianza etc. In effetti il gioco deve liberare dall’impulsività e dalla passività favorendo l’ordine interiore ed esteriore dell’individuo.  
Per John Dewey (1859-1952) [15] il gioco rappresenta il naturale percorso per giungere al lavoro. Il gioco ‘fare del fare per il fare’ e il lavoro inteso come ‘fase del costruire’ corrispondono rispettivamente alla prima e alla seconda fase evolutiva del fanciullo. Quest’attività diventa mezzo di educazione sociale che muove dagli interessi del bambino facendo leva sul suo ruolo attivo nella progressiva costruzione dei saperi attraverso la ‘transazione’ tra organismo e ambiente.
Per lo psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980) [16] il gioco è stato uno strumento privilegiato per l’analisi dei diversi stati cognitivi. Con la sua gli teoria attribuisce una funzione biologica come ripetizione attiva ed esperimento che fa mentalmente assimilare ed accomodare le situazioni ed esperienze nuove. Gioco ed imitazione sono parti integranti dello sviluppo dell’intelligenza che si evolve attraverso la fase senso-motoria, nella quale il bambino si affida ai sensi e la fase preoperatoria, quando impara che le parole possono avere diversi significati e fungere da simboli. Piaget ha distinto i vari giochi considerando la teoria della ‘ricapitolazione’, secondo la quale il bambino, durante l’infanzia, rivive nei giochi le tappe più salienti della storia culturale dell’uomo: gattona come l’uomo, caccia e si nasconde come faceva l’uomo allo stato selvaggio, alleva i piccoli animali come i nomadi, scava la terra come gli agricoltori delle età preistoriche, replica gli stessi caratteri dello stato tribale nei giochi di gruppo. Piaget osservava che i giochi di esercizio, i primi ad apparire, sono quelli ripetuti dal bambino più volte senza mai stancarsi (ad esempio creare e distruggere più volte delle forme di sabbia).
Erik Homberger Erickson (1902-1994)[17] descrive i giochi che si svolgono sia nell’autosfera, ovvero eplorazione delle proprie sensazioni corporee, nella microsfera, ambiente vicino al bambino, e infine  nella cromosfera sociale.
Karl Groos (1861-1946) ritiene che il gioco riproduce costumi, riti e credenze caricati di significato culturale; all’opposto, lo storico olandese Johan Huizinga (1872-1945) considera il gioco come cultura, infatti tutte le manifestazioni culturali sono modellate sul gioco da cui si costruisce e nasce lo spirito di ricerca e il rispetto delle regole, ma soprattutto la stessa civiltà umana: «Da molto tempo sono sempre più saldamente convinto che la civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco».[18]
Ovide Decroly (1871-1932)[19] utilizzava il gioco come mezzo culturale e di apprendimento nella sua scuola rinnovata. Questo tipo di scuola diventa ‘una scuola della vita per la vita’, fondata sul ‘fare per il fare’ e sui ‘centri d’interesse’. Anche l’apprendimento della lettura doveva avvenire attraverso ‘giochi educativi’ che servivano a rendere gradevole la fatica di impossessarsi dei segni alfabetici e del linguaggio scritto, applicando il metodo globale o deduttivo.

4. La strutturazione ludica  nell’attuale scuola dell’infanzia

La valorizzazione del gioco costituisce ancora oggi il fondamentale indirizzo metodologico, strumento trasversale, fonte primaria e insostituibile dell’esperienza infantile. Il gioco promuove positivamente la strutturazione della personalità infantile e può essere utilizzato come un vero e proprio mezzo didattico. Le odierne concezioni pedagogiche  vedono nel gioco uno strumento utile nell’interazione comunicativa attiva tra il maestro e l’alunno. Il gioco aiuta il bambino ad esprimersi in modo spontaneo nell’attività scolastica. Per il bambino rappresenta simultaneamente un momento di conoscenza piacevole, ma essendo pur sempre un ‘lavoro’, cioè un’attività che richiede sforzo  fisico e/o mentale, stimola la capacità sensoriale e le abilità motorie. Il gioco, non essendo esperienza vera ma simulata, può essere fonte di apprendimento: è l’attività più confacente per introdurre gli alunni nel mondo della conoscenza. Il bambino attraverso il gioco apprende con gioia e riesce a compiere alcune scoperte personali soprattutto attraverso l’attività manuale e manipolativa.
Nel gioco di squadra, in particolare, viene introdotto alla vita di gruppo e sperimenta la soddisfazione di partecipare all’attività collettiva offrendo il proprio contributo personale. Il gioco di gruppo diventa l’attività privilegiata per sviluppare le abilità di relazione e per vivere insieme momenti coinvolgenti. Attraverso i giochi collettivi i bambini imparano gradualmente ad affermare se stessi, ad adattarsi alla realtà, ad assimilare la realtà non contro, ma con gli altri, a indirizzare l’aggressività in modo da trasformarla in capacità di collaborazione, di comprensione, di rispetto e di benevolenza. Il bambino impara ad essere complementare agli altri, a fare la sua parte, a controllare le emozioni, a coltivare i primi sentimenti di solidarietà, altruismo e generosità, a stimolare la creatività, a inventare sempre nuovi ruoli, vivere i ruoli più significativi assunti dagli adulti, imitare personaggi, proiettare in modo libero e spontaneo la  sua realtà psichica e i suoi vissuti personali. Attraverso il mimetismo o mimicry, il bambino ‘finge’ spesso di essere altro da sé, imita gli adulti e quanto lo attornia esprimendo la propria libertà dai condizionamenti spaziali e temporali della realtà.
Attraverso la grande varietà dei giochi, quali i giochi motori, simbolici, di manipolazione, di drammatizzazione, di imitazione o finzione in cui il bambino si identifica con il personaggio fittizio che ha simulato, di role playing, di costruzione e sociali emergono le particolari predisposizioni dei bambini. Il tutto sempre sotto l’attenta ‘regia educativa’ dell’insegnante al quale spetta l’onere di predisporre ambienti ricchi di opportunità diversificate, di programmare con cura la scelta, l’ordine di successione e le modalità di svolgimento dei giochi medesimi. In questi casi l’educatore diventa un attento osservatore, oltre che svolgere la funzione di animatore e coordinatore. Ma l’insegnante è soprattutto un esperto nei processi formativi istituzionali ovvero un professionista capace di organizzare esperienze educative significative, più che di trasmettere contenuti disciplinari, nei quali il bambino svolga un ruolo attivo che lo coinvolga totalmente. La scuola dell’infanzia, in particolare,  accogliendo i bambini dai tre ai cinque anni, li abitua a stare insieme, favorire l’apertura mentale a conoscere se stessi e a scoprire il mondo. In essa viene riservato un posto preminente alle occupazioni libere e guidate, attività che l’insegnante utilizza per stimolare i bambini a fare, a guardare, a giudicare. Accade così che l’esperienza stessa diventi la vera ‘maestra di vita’. 
Tra le esperienze più coinvolgenti quella ludica è sicuramente la più significativa  anche per il testo degli Orientamenti nella scuola dell’infanzia del 1991, nella sezione IV, Didattica e Organizzazione efino al D.M. 254 del 16 novembre 2012 nei qualiviene ribadito:

Il gioco costituisce, in quest’età, una risorsa privilegiata di apprendimento e di relazioni. Esso, infatti, favorisce rapporti attivi e creativi sul terreno sia cognitivo che relazionale, consente al bambino di trasformare la realtà secondo le sue esigenze interiori, di realizzare le sue potenzialità. […]. L’insegnante evitando facili improvvisazioni, invia al bambino, attraverso la ricchezza e la varietà delle offerte e delle proposte di gioco, una vasta gamma di messaggi e di stimolazioni […].

Gli Orientamenti sembrano specificamente indirizzare dalla scuola della mera comunicazione verbale a quella più efficace della manualità e dell’operatività, attuate attraverso  le pratiche del gioco, ora leggero e vivace, ora serio ed appassionato. Nel contesto educativo apprendere deve diventare non un pesante ‘carico culturale’, ma un ambiente di vita, di relazioni e di apprendimenti accogliente, motivante e piacevole.        Varie possono essere le tipologie di gioco applicabili, ma tre sono le più indicate come strumento di educazione nella scuola dell’infanzia e primaria: il gioco spontaneo o di finzione, il gioco guidato e il gioco didattico.
Il ‘gioco spontaneo’ difficilmente coinvolge un gruppo allargato, di solito è limitato a piccoli gruppi o è circoscritto al singolo bambino. La tendenza naturale del bambino a svolgere attività ludiche libere e sotto svariate forme fa sì che si venga a stabilire un prezioso equilibrio tra la sua crescita fisica e la sua maturazione psichica consentendogli altresì la soddisfazione dei bisogni e degli interessi propri della sua età. Il gioco spontaneo non prevede regole esplicite, prevalgono piuttosto le regole autoreferenziali, stabilite dallo stesso bambino, in autonomia. Il ruolo dell’adulto educatore rimane esterno, di semplice osservatore che investiga il suo modo di essere e di vivere, per raccogliere informazioni sulle modalità comunicative e relazionali da lui privilegiate e sul clima sociale della sezione. Nel gioco spontaneo la predisposizione degli spazi è essenziale poiché  la capienza dei locali, gli arredi e gli oggetti in essi contenuti condizionano la qualità intrinseca del gioco. Già negli anni ’70 furono riscontrate connessioni tra le capacità ludico-simboliche espresse nel gioco di finzione e le più importanti competenze maturate nelle aree linguistica, cognitiva e sociale. [20]
Nel ‘gioco guidato’, invece, sono gli insegnanti che propongono situazioni di gioco, anche tradizionali (giochi di movimento, girotondi, giochi cantati), feste di animazione, giochi al chiuso o all’aperto. Le regole sono dirette dall’esterno e l’insegnante assume un ruolo propositivo, di animatore che illustra, gestisce e conclude il gioco creando il setting ludico, cioè quella particolare situazione ludica in cui è previsto il rispetto di regole predeterminate. Nell’attuare il gioco, con tutte le sue implicazioni relazionali, affettive e cognitive che lo caratterizzano, occorre mantenere costante il livello di attenzione, controllare il grado della motivazione ed evitare il calo improvviso dell’attenzione quando il gioco è troppo lungo e genera noia.
Nel gioco le emozioni hanno infatti un’influenza decisiva. La dimensione affettiva,  le emozioni positive e il buon umore favoriscono maggiormente l’attenzione e attivano i processi del pensiero, al contrario gli stati d’animo negativi abbassano la resa delle capacità cognitive. [21] Il bambino perciò impara meglio e con maggiore facilità se è sereno, se è emotivamente coinvolto nelle attività che svolge, se ciò che fa è interessante ed ha un senso per sé stesso.
Il ‘gioco didattico’ infine è connesso con l’apprendimento di specifiche abilità e competenze. Sono attività rivolte a gruppi di medie dimensioni, con materiali, regole prestabilite e consegne specifiche.

5. La psicopatologia del gioco

Il gioco è un linguaggio pedagogico perché consente di comprendere il carattere del bambino, di esprimere il suo mondo interiore, di rivelare la misura della normalità del suo sviluppo, è un mezzo per la crescita complessiva e non semplicemente uno strumento per conseguire apprendimenti di ordine tecnico-cognitivo. Il linguaggio ludico favorisce la liberazione della psiche del bambino da situazioni conflittuali, da stati di tensione e da possibili crisi affettive. Il gioco, in tutte le sue molteplici declinazioni, risponde pertanto alle sue esigenze più profonde perché attraverso esso si libera da esperienze penose ed inquietanti, disciplina le sue esuberanti energie, istituisce relazioni con le cose e con gli altri, sperimenta la gioia di superare gli ostacoli. Il bambino nel gioco dimostra se ha paura di determinati oggetti, se è angosciato al punto da rifiutare di giocare, quali giochi e materiali ludici preferisce, se predilige giochi di movimento e di destrezza, se parla mentre gioca, se e come reagisce ai suoni ed ai rumori.
Questa speciale dimensione fu intuita in modo perspicace fin dai primi decenni del Novecento da Sigmund Freud [22], il medico viennese al quale si deve la nascita della psicoanalisi destinata ad esercitare un’enorme influenza sull’indagine e la comprensione degli aspetti più oscuri e complessi dell’uomo contemporaneo. Fatti come i sogni, i lapsus, le dimenticanze, le amnesie, le rimozioni, gli atti mancati, le apparenti sbadataggini etc. un tempo trascurati, diventarono strumenti per scavare e indagare nel profondo dell’uomo, cioè nell’abisso del suo inconscio. Gli impulsi rimossi e divenuti latenti possono infatti risorgere in forme sostitutive, mascherate e indirette, anche nella finzione del gioco che rappresenta la soddisfazione alterata e compensativa di un desiderio inespresso, represso o rimosso ed aiutano ad incanalare le pulsioni egoistiche, aggressive o autodistruttive dell’io su strade alternative, creative e positive quali l’attività artistica, la scienza, l’educazione, la tecnologia, quelle che Freud chiamò  le ‘vie della civiltà’ attraverso le quali l’istinto umano sublimato trova i suoi sbocchi liberatori e costruttivi. Con Freud il gioco venne considerato in virtù dello sviluppo psicologico e affettivo del bambino, come attività mediante la quale si esteriorizzano le sue fantasie.
In tempi più recenti, Hans Zulliger (1893-1965) [23], psicologo e pedagogista, osservò che i casi di nevrosi infantile, possono essere risolti attraverso il gioco, mezzo mediante il quale molti ragazzi difficili e non socializzati riescono a stabilire i primi rapporti di vera collaborazione con i compagni, visto che il gioco è attività mediante la quale il bambino si libera dei propri complessi, acquista fiducia in sé e può socializzare.

6. La sicurezza di un buon  gioco

Il bambino trae vantaggio dai giochi proprio perché essi rispondono ai suoi bisogni. Bisogno di movimento, di esplorazione dell’ambiente, di imitazione dell’adulto, di sperimentazione di nuovi ruoli. Grazie ad esso prende coscienza delle proprie possibilità manuali e può apprendere molto presto ad esercitare la sua volontà. Impara a scoprire le forme, i colori, le proprietà, la piacevolezza della consistenza tattile degli oggetti più usuali che riconosce come a lui familiari. Così facendo esercita ed affina tutti i suoi cinque sensi. Il bambino deve perciò disporre di periodi durante i quali è lasciato ai suoi giochi in piena libertà, ma ha anche bisogno di essere guidato per compiere sempre nuovi progressi. Si stabilirà così un’armonia nei suoi rapporti con gli oggetti inanimati e in quelli con gli esseri viventi.
Uno dei mezzi più importanti per stimolare il bambino al gioco è il giocattolo che si configura come un amplificatore dell’esperienza ludica e non un ninnolo banale per intrattenerlo o distrarlo. [24] Nell’universo ludico infantile i giocattoli sollecitano i processi di simbolizzazione, perdono la loro rigida funzione e si caricano di valenze affettive in una prospettiva personale. Nel giocattolo il bambino proietta il suo io, entra in relazione diretta con la realtà esterna, elabora una propria visione che obbedisce alle leggi della sua logica infantile. Quando un giocattolo è ‘buono’, nel senso che è stato costruito per raggiungere determinati scopi educativi, può costituire il punto di partenza per suscitare interessi particolari del bambino, per offrire preziosi alimenti per la sua immaginazione. Spesso però sono i giocattoli più semplici e destrutturati quelli che meglio raggiungono lo scopo, mentre i giochi troppo sofisticati o strutturati non offrono motivi di divertimento superiori ad altri meno complessi, ma con maggiore possibilità fantasiose e creative. I giochi strutturati, per quanto attraenti, vengono utilizzati per poco tempo dai bambini i quali, non potendo esercitare la loro immaginazione e creatività, dopo un iniziale interesse, spesso li abbandonano. I giochi elettronici, sostituendo quelli tradizionali di movimento, hanno conseguenze negative perché mortificano le sfere cerebrali delle rappresentazioni mentali, basate sulla fantasia nel creare o inventare personaggi dell’immaginario, trasformano il pensiero creativo e divergente in semplici dita che premono  pulsanti o sfiorano convulsamente sensibili touch screen. La scelta dei giocattoli è dunque molto importante: è preferibile scegliere giocattoli di misura adatta alla mano del bambino, lavabili e dai colori vivaci. Tutto può fungere da giocattolo perché il bambino con la sua fantasia creerà e immaginerà gli oggetti più vari, gli strumenti per generare e osservare gli avvenimenti. Anche i giocattoli più rudimentali nelle sue mani si convertiranno in valori inimmaginabili per gli adulti assumendo la funzione di un autentico ‘laboratorio’ del pensiero per conoscere e padroneggiare il mondo con i suoi meccanismi  sociali ed emotivi.
In tema di sicurezza esistono norme precise che devono essere scrupolosamente osservate. Il pericolo di incidenti è costante: ecchimosi, tagli, fratture, lesioni, intossicazioni. Frequente è il caso di bambini troppo piccoli che giocano con oggetti di minime dimensioni che possono facilmente essere ingoiati, o giocattoli in tessuto che possono contenere ovatta o altre fibre tossiche e che, in caso di sdrucitura, possono facilmente essere ingerite o inalate. Una soluzione al problema è la rigorosa attuazione della direttive europee che prevedono l’applicazione del marchio ‘CE’ autentico,  a garanzia della sicurezza dei giocattoli in commercio.
Dopo avere analizzato tutti gli aspetti positivi che i bambini possono trarre dal gioco, non bisogna dimenticare che ogni eccesso e abuso comporta un’alterazione dei valori etici e morali che in età adulta potrebbero portare alla ricerca di nuove emozioni, anche estreme, espressione del malessere attuale  della nostra società. La validità del gioco quindi sta nello spazio giusto che gli attribuiamo, nel tipo di gioco che usiamo e soprattutto nell’uso che ne facciamo. Il gioco come strategia metodologica, resta comunque uno strumento di enorme importanza in quanto sviluppa abilità di tipo cognitivo, emotivo, sociale, relazionale, ponendo il bambino nelle condizioni di pensare prima di agire, di mettere alla prova le sue possibilità, di ricercare soluzioni alternative, di migliorare le capacità percettive e le prestazioni intellettuali, di progredire verso nuove forme di movimento e di comportamento, di favorire in ultima analisi l’arricchimento della percezione del sé, la ricerca e la costruzione graduale e progressiva della propria  identità.


Bibliografia

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V. D’Urso, Psicologia delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 1988.

Pubblicato il 27/06/2018

[1] R. G. Romano, L’arte del giocare. Storia, epistemologia e pedagogia del gioco, Lecce, Pensa Multimedia, 2000.

[2] J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi,1945.

[3] S. Bucci, Educazione dell’infanzia e pedagogia scientifica. Da Froebel a Montessori, Roma, Bulzoni, 1990.

[4] U. E. Paoli, Vita romana. Usi, costumi, istituzioni, tradizioni, Milano, Mondadori, 1990.

[5] Quintiliano, Institutio oratoria I,2,20: “Nec sum adeo aetatium imprudens ut istandum protinus acerbe putem exigendamque plane operam […]. Lusus his sit, et rogetur et laudetur et numquam non fecisse se gaudeat, aliquando ipso nolente doceatur alius, cui invideat, contendat interim et saepius vincere se putet: praemiis etiam, quae capit illa aetas, evocetur. […]”.

[6] Quintiliano, Institutio oratoria I, 3: “Caedi vero discentes, quamlibet et receptum sit et Chrysippus non improbet, minime velim. Primum quia deforme atque servile est et certe (quod convenit si aetatem mutet) inuria est; deinde quod, si cui tam est mens illiberalis, ut obiurgatione non corrigatur, is etiam ad plagas ut pessima quaeque mancipia durabitur. Postremo quod ne opus erit quid hac castigatione, si assiduus studiorum exactor astiterit”.

[7] Quintiliano, Institutio oratoria III,1, 3: “Tradito, sibi puero, docendi peritus ingenium eius in primis naturamque perspiciat. Ingenii signum in parvis praecipuum memoria est. Eius duplex virtus facile percipere et fideliter continere. Proximum imitatio […]”.

[8]   F. Froebel, L’educazione dell’uomo, Milano, La Nuova Italia, 1993.

[9] G. Gentile, La riforma dell’educazione, Firenze, Le Lettere, 2003.

[10] J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Bari, Laterza, 1999.

[11] L. Volpicelli La vita del gioco, Roma, Armando, 1962.

[12] J. J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, 1782.

[13] M. Montessori, La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 2000.

[14] F. Altea, Il metodo di Rosa e Carolina Agazzi. Un valore educativo intatto nel tempo, Roma, Armando, 2011.

[15] A. Mariuzzo, Dewey. Pedagogia, scuola e democrazia, Brescia, Editrice La Scuola, 2016.

[16] J. Piaget , B. Inhelder, La psicologia del bambino, Torino, Einaudi, 2001.

[17] E. H. Erickson, I giocattoli del bambino e le ragioni dell’adulto, Roma, Armando, 1981.

[18] J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 1945.

[19] R. Mazzetti, Ovide Decroly e l’educazione nuova, Roma, Armando, 1945.

[20] A. Bondioli, D. Savio Osservare il gioco di finzione, Bergamo, Junior, 1994.

[21] V. D’Urso, Psicologia delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 1988.

[22] A. Guidi, La funzione del gioco dal bambino all’età adulta. L’orientamento psicoanalitico lacaniano sul gioco,  Pisa, Ets, 2013.

[23] H. Zulliger, I ragazzi difficili, Firenze, Giunti, 1974.

[24] A, Nobile Gioco e infanzia,, Brescia, La Scuola, 1997.