Mara Ferroni - Medusa e le altre. Lo sguardo della donna e l’occhio del poeta tra mito e letteratura

Il presente percorso propone un excursus storico-letterario per verificare come sia stato recepita, accolta, e diversamente codificata in tòpos letterario, l'immagine dello sguardo della donna come veicolo del passaggio di Amore e come strumento che irretisce e annichila l'uomo ed in particolare il poeta.

L'analisi di una "struttura microtestuale profonda" 1 come può essere un tòpos poetico per cercare di individuarne le implicazioni ed il significato nei diversi brani ed opere presi analizzate, è una modalità possibile per l'insegnamento della letteratura, utile per una didattica letteraria che si configuri come breve, non perchè temporalmente ridotta, ma perché sinteticamente comprendente l'essenzialità degli autori e dei testi esaminati

Secondo il principio didattico che vede nella lectio (di origine medievale) la presa in esame e la disanima di diversi brani reciprocamente legati al fine di aprire un confronto ed un paragone tra questi e la vicenda personale di ognuno, tra l'esperienza unica dell'allievo e del maestro, possiamo dire che riflettere sullo sguardo dell'altro attraverso l'elaborazione di un tòpos diventa, contenutisticamente e metodologicamente, occasione di lettura di sé. Dal punto di vista del contenuto ci offre la possibilità di percepire noi stessi nell'altro, di vederci rispecchiati nei suoi bisogni e nelle sue domande, nei suoi tentativi di risposta, interpretandone uguaglianze e diversità. Dal punto di vista più strettamente metodologico, propone come centrale la dinamica del paragone e del confronto e permette di comprendere in modo più sottile, permanenze e mutamenti, sfumature ed evidenze.

Ragionare sulla comunicazione " per veduta", in particolare su quella amorosa, e verificare come tale immagine sia stata topicamente costruita e codificata nella nostra letteratura, diventa per noi e per i nostri alunni, stimolo e occasione per partecipare empaticamente e simpateticamente alla propria e all'altrui esperienza: sentirsi riconosciuti pupille nelle pupille, in conformità all'etimologia stessa di questo termine che descrive l'uomo come la "piccola bambolina", letteralmente pupilla, che si rispecchia nell'occhio dell'altro.

Uno sguardo antropologico

 

Già la grecità arcaica, alla base dell'immaginario occidentale, ha codificato l'idea dello sguardo femminile come strumento di seduzione. È nel mito greco che trova altresì rispondenza il concetto del pericolo insito nello sguardo femminile. E' una figura mitica quella che incarna la possibilità di annichilimento per l'uomo: Medusa, il mostro dai connotati femminili, che Teseo, eroe portatore della razionalità, è costretto a decapitare, per riuscire a bloccarne l'effetto malefico. Medusa ha tratti specificatamente femminili, gli autori ce la descrivono essenzialmente come mostro dalle sembianze di donna, per cui già nel racconto mitico è contenuto un implicito paragone tra la pericolosità del mostro e la sua natura prettamente femminile. Vogliamo partire dal questo racconto mitologico poichè esso testimonia la longevità antropologica della paura insita nel cuore dell'uomo per lo sguardo femminile.

Per rappresentare l'impatto emotivo del mito e suggerire la virulenza della fascinatio di Medusa, ci si può servire della forte rappresentazione caravaggesca. Nel dipinto di Caravaggio, la figura dipinta concentra negli occhi tutta la potenza espressiva del quadro, ed è proprio lo sguardo straniato e spaventato, ciò che immediatamente colpisce l'osservatore. Così anche il Vernant, nel saggio più famoso che è stato scritto su questa figura mitologica, conferma che Medusa "è tutta mostruosa, ma concentra negli occhi la sua arma fondamentale"2.

Ciò che è interessante è il fatto che, paradossalmente, anche nel quadro, lo sguardo del mostro è così spaventato che finisce per essere non tanto il suo, quanto quello di colui che contempla l'occhio di Medusa.

Anche questo concetto è paragonabile con quanto Vernant dice, a proposito di Medusa e di colui che la osserva: " Fissare Medusa è perdere nel suo occhio, la vista, trasformarsi in pietra dura ed opaca. Per il gioco dell'incantesimo, colui che guarda è strappato a se stesso, privato del suo proprio sguardo, investito e invaso della figura che lo fronteggia

Arma fondamentale di distruzione per la Gorgone è quindi lo sguardo. La Gorgone ha due tratti caratteristici, la frontalità e la mostruosità.

Per impietrire, la Gorgone deve essere frontale rispetto all'osservatore, per avvolgerlo in pieno con il suo potere malefico, mentre ha tratti somatici e iconografici totalmente mostruosi. Viene descritta con la testa larga a mò di leone, con occhi sbarrati e sguardo fisso e penetrante, la chioma invece è anguicrinita mentre le orecchie sono ingrandite.

Nel mito della Gorgone si cela il primo nucleo di un'antropologia della gestualità: lo sguardo e l'occhio hanno un indubbia potenzialità di impatto e modificazione del reale.

Guardare negli occhi Medusa provoca una metamorfosi, incrociare il suo stesso sguardo anche solo per un millesimo di secondo implica il rinunciare a se stessi. Perdersi nell'occhio della creatura gorgonica è trasformarsi in pietra insensibile e incapace di razionalità. Come in un incantamento, colui che guarda Medusa, non ha più potere su di sé e privato di uno sguardo che egli possa definire proprio3.

Secondo il mito, nell'età dell'Oro, la donna non esisteva. E non esisteva nemmeno la Morte. Con la creazione della donna, da Pandora in poi, l'età dell'oro si è dissolta. Peraltro anche nella cultura ebraica è una donna a causare la fine dell'Eden. Questo viene irrimediabilmente a dire che, mitologicamente, femminilità e morte sono nate insieme. Già in Esiodo4 troviamo l'idea che esista una complicità tra le forze notturne della donna e le doti di seduttrice che la donna ha insite nella sua natura. Si sente, nell'elemento femminile, una forza che, emergendo dai suoi occhi umidi, come quelli di vacca, e dal suo sguardo, è in grado di infiacchire o addirittura paralizzare la virilità dell'uomo. Sono i tratti di Medusa presenti naturalmente in ogni donna, che agiscono come arma annichilente, propriamente di morte, secondo le bellissime parole di Alcmane: " Attraverso il desiderio che scioglie le membra ella ha uno sguardo più dissolvente di Sonno e Morte"5. Qui la donna, pur avendo valenza gorgonica, utilizza non più l'arma della mostruosità, bensì, al contrario, quella di una sconvolgente e seducente bellezza. Infatti, la donna che, nell'epica greca maggiormente è simbolo di ciò, è Elena, "assassina di uomini", il cui epiteto più ricorrente è "boopis", letteralmente?"dagli occhi di vacca", ossia grandi e languidi, capaci di creare un lago in cui l'uomo annega. Proprio alla bellezza dei suoi occhi, Ecuba e Andromaca imputano la colpa della distruzione di Troia6.

Nella mitologia, poi, sono tanti i mostri alati, dal petto e dal volto di donna che, a partire dall'età arcaica, i Greci e i Romani hanno rappresentato sulle loro tombe perché facessero la guardia ai defunti, impedendo la profanazione del sepolcro. Questi mostri sono rappresentati con artigli da rapace e volto inequivocabilmente femminile.

L'iconografia della Gorgone, in grado di fermare i nemici poteva poi essere istoriata sulle loriche dei generali romani, secondo l'uso mitico che fu già della Dea Atena, a protezione della vita del soldato e come arma contro i nemici. Un esempio di scultura romana locale proveniente dalla colonia romana di Bononia, è il bellissimo busto di supposta datazione neroniana posto all'entrata del Lapidarium del Museo Civico Archeologico di Bologna.

Sono anche altri i settori culturali del mondo antico che ripropongono come fondamentale l'elemento dello sguardo e dei messaggi che tramite l'organo visivo si veicolano. Gli ambiti di riferimento sono tre:

RETORICA
EROS
MAGIA 

a) RETORICA

Nella società antica greco-romana, la comunicazione, in particolare quella che si propone espliciti fini persuasivi, è vista come una sinergia di fattori fisici e mimici che si rivelano essenziali ai fini di una corretta comprensione ed incisività del linguaggio.

In ambito retorico, agli occhi è riconosciuto un ruolo fondamentale. L'oratore deve manifestare la capacità di atteggiare il volto, tenendo alti e severi gli occhi, guardando dritto nelle pupille i giudici: lo sguardo basso o continuamente ondivago è sentito come sintomo di paura e viltà. Nel De Oratore, Cicerone fa pronunciare a Crasso un elogio del potere espressivo dell'occhio: "Ma tutto sta nel viso, e nel viso, gli occhi hanno un ruolo di primo piano[…] i gesti infatti significano l'animo e il volto è l'immagine dell'anima, gli occhi ne sono le spie: questa è l'unica parte del corpo che possa assumere tanti atteggiamenti diversi, quanti i moti dell'animo. Attraverso gli occhi- guardando fisso o con dolcezza, minacciosamente o con gioia- esprimiamo i sentimenti dell'animo, in maniera conforme al tenore del discorso. La natura ci diede gli occhi per significare i nostri stati d'animo, per cui, nel gestire, dopo la voce conta il volto (vultus) ed esso è dominato dagli occhi". 7

Emerge già da questo brano, la metafora dell'occhio come specchio dell'anima e suo muto linguaggio, che avrà grande fortuna anche nei secoli a venire. L'occhio è visto come porta sul cuore umano, come il più vicino all'anima fra tutti gli organi di senso.

b) EROS

La retorica si lega all'ambito dell'innamoramento e quindi, dell'eros, con una parola, estremamente significativa anche per il nostro campo d'indagine: persuasione.

Nel mondo antico, Persuasione è una divinità vera e propria. In greco è chiamata Peitho, è una dea che afferisce alla sfera amorosa e fa parte del corteo di Afrodite. Risulta interessante il suo epiteto di riconoscimento e identificazione, ossia "dal dolce sguardo". Il suo campo d'azione privilegiato è infatti la seduzione e le sue arti sono, quindi, negli occhi. C'è un collegamento ineluttabile, anche nella cultura antica, tra la seduzione e l'utilizzo che una donna fa del proprio sguardo nel tentativo di avvincere a sé un uomo8.

Il gioco di seduzione di Peitho è descritto spesso in termini di malia, di fascinazione che vince e abbatte le difese della mente e in cui le parole non hanno alcuno spazio.

Quindi possiamo dire che anche nell'antichità all'occhio, come si diceva nell'introduzione al capitolo secondo, è riconosciuto una funzione di significazione che è anche capacità di azione sul reale.

c) MAGIA

Il concetto appena esposto potrebbe essere estrinsecato nel termine latino fascinum o fascinatio, che per noi rimanda immediatamente all'ambito erotico. Letteralmente, associato al termine greco baskanìa??vuole indicare l'idea di "guardare storto", guardare con invidia e quindi gettare la malasorte. E' l'atto che, nelle culture popolari, è stato definito come "malocchio".

Un sottile filo rosso collega la fascinazione prodotta dallo sguardo dell'innamoramento a quella causata dal malocchio. I due elementi sono visti come poli estremi di un vasto spettro di stati d'animo. Nell'immaginario antico sono sentiti entrambi come una sorta di incantesimo. Nelle Questioni Conviviali, Plutarco, proponendo una disamina razionale della baskania, la descrive come un fenomeno misterioso che si configura in termini di rovina e di morte e che si accanisce con virulenza particolare su bambini, ma anche sugli adulti e che trova il suo veicolo fondamentale nello sguardo di certi individui. L'occhio, in questo contesto, pare essere classificato come essere animato, come un oggetto misterioso e terribile che si cerca di non nominare o che si nomina in infiniti modi, per esorcizzarne il timore con la carica apotropaica dell'eufemismo.

A livello artistico questo concetto torna in alcune rappresentazioni, per lo più su oggetti da collocare in ambito domestico, come amuleti di prevenzione contro il malocchio.

 

Fenomenologia d'amore

 

Abbiamo visto, finora, un'introduzione generale concernente lo sguardo e l'impatto che l'occhio ha sul reale a livello comunicativo; ora il nostro discorso deve restringersi all'ambito che maggiormente ci interessa, ossia quello amoroso.

Come già accennato, già nel mondo antico, l'innamoramento, al pari del malocchio, doveva anche essere percepito dagli antichi come una sorta di incantesimo e ciò che è più importante una sorte di stregoneria mediata dallo sguardo. In particolare, abbiamo cercato di mettere in luce il fatto che, fin dall'antichità, il mito ha codificato questo importante aspetto di collegamento tra lo sguardo femminile e l'effetto d'annichilimento dell'uomo che provoca.

Ma come avveniva questo passaggio, quali erano gli elementi di riconoscimento. In termini fenomenologici, insomma, come nasceva il sentimento amoroso? Quale funzione concreta svolgevano gli occhi?

Per la trattazione di questo passaggio abbandoniamo il riferimento unico all'antichità, ma, a partire da essa, cominciamo il percorso culturale che ci porterà alla disanima del tòpos letterario.

Restringendo quindi l'ambito da prendere in esame, vogliamo considerare allora quale rilievo ha avuto, a partire dalla classicità, la nascita del sentimento amoroso. In particolare è interessante analizzare alcuni brani filosofici e letterari che si occupano di descrivere la fenomenologia d'amore, ossia l'insieme degli elementi visibili e percepibili che si manifestano nel momento in cui il sentimento amoroso entra nel cuore dell'uomo. Come si vedrà, gli occhi rivestono sempre un ruolo da protagonista. Tuttavia, tra i diversi testi, esistono differenze che vale la pena evidenziare, così anche da mettere in risalto lo scarto culturale tra l'antichità e il mondo medievale.

Il primo brano da cui si deve partire per una riflessione su questi argomenti, anche in contesto scolastico, è necessariamente il brano del Fedro platonico, in cui il filosofo si occupa di definire la natura del sentimento amoroso e quindi anche il suo manifestarsi e il progressivo svolgersi.

Dalla lettura di Platone ricaviamo l'idea della percezione visiva degli occhi dell'oggetto amato come flusso di luce ignea per cui l'amore pare quasi essere descritto come un imbevimento. Significativo poi il fatto che, poco prima, nell'opera, Platone abbia definito l'amore come manìa, una sorta di follia, obnubilamento razionale, che si può tradurre come "patologia della visione dell'oggetto amato".

Il primo oggetto di contemplazione per l'anima è il Bello, dalla cui vista scaturisce tutto il godimento e la realizzazione dell'individuo. L'eros è risvegliato, ogniqualvolta l'amante abbia la visione di un oggetto del mondo sensibile che incarni l'idea di Bellezza. A riprova di questo legame tra amore e visione, si può citare anche Plotino, il quale, nelle Enn. III 5,3 arriva ad ipotizzare un'etimologia per Eros, la cui denominazione poteva derivare "dal fatto che egli ottiene la sua esistenza dalla visione". Dalla filosofia greca, passiamo ad esaminare le differenze che si manifestano, relativamente a questi concetti, con il passaggio al mondo medievale, per tracciare quelle linee generali su cui si innesterà il discorso poetico e l'esame del tòpos letterario. Il testo scelto è il De Amore di A. Cappellano, teorizzazione indispensabile, soprattutto a livello scolastico, per capire il background culturale che arriverà a informare di sè anche la poetica letteraria successiva.

Il brano riguarda ancora una volta la descrizione dei primi istanti della comunicazione amorosa. Il brano di Cappellano apre collegamenti anche con quanto visto per Platone.

I due testi collimano senz'altro nel punto in cui si spiega l'origine fisica e materiale della scintilla d'amore, nell'istante in cui i due sguardi si incrociano, peraltro il volgarizzamento riportato per il testo del Cappellano, usa il latinismo "per veduta" che, con la funzione logica del mezzo, intende sottolineare proprio la funzione degli occhi come concreto veicolo d' amore.

Nonostante ciò, tra i due autori, emergono alcuni punti di divergenza o di differenza. Laddove infatti il filosofo greco parla indistintamente di oggetto di amore, Cappellano si concentra invece, in modo conforme ad una nuova mentalità e moralità sconosciuta al mondo classico, sull'amore prodotto da una visione specificatamente femminile, ribadendo due volte -"ch'abia altra natura" e "quando altri vede alcuna"- il concetto.

Ma nella teorizzazione dell'autore medievale c'è un elemento tipico di questa società, completamente originale rispetto al testo platonico. Si tratta dell'idea che, al momento in cui l'occhio dell'uomo incontra lo sguardo dell'amata, ne segua poi un altro tutto interno all'amante, il cui elemento caratterizzante è il "pensero". La tradizione poetica medievale riprende cioè la suggestione platonica e la sua concezione amorosa: l'amore nasce da "veduta forma che si intende", come scriverà Cavalcanti, e gli occhi sono effettivamente principale strumento di fascinazione, tuttavia essa introduce un elemento nuovo: è necessario un continuo processo di immaginazione all'interno dell'animo dell'amante. Per cui possiamo dire che " la psicologia medievale concepisce l'amore essenzialmente come un'avventura immaginativa e la seduzione dell'oggetto d'amore come potere di insediarsi stabilmente nell'immaginario mentale del sedotto"9. Agamben ha definito, con una formula, questa caratteristica della mentalità medievale, come " carattere fantasmatico dell'amore"10.

Argomenti simili e simili argomentazioni si trovano anche in altri testi che, pur usando forme letterarie non propriamente trattatistiche, si propongono comunque di dare delle definizioni. Interessante, da questo punto di vista, Jacopo Da Lentini per l'introspezione psicologica, di interiorizzazione e intellettualizzazione dell'esperienza amorosa che propone.

Dalla lettura del testo, emerge ancora una volta la lezione del Cappellano: l'amore deriva dal guardare. L'atto della vista è la fonte del "piacimento" e del "nutricamento" dell'immaginazione. Il centro dell'attenzione, però, si sposta ora sul cuore e sui processi interiori del poeta. I termini tramite cui egli esprime il suo stato d'animo, rappresentano i sintomi tipici della malattia d'amore, diagnosticata dalla medicina e dalla psicologia medievali: pallore, tremore, debilitazione, perdita di coscienza.

L'immagine della donna diventa oggetto di contemplazione mentale o sogno di felicità paradisiaca, anche se si tratta di un paradiso ancora tutto terrestre.

In Da Lentini emerge anche un'altra caratteristica della vista: l'occhio è uno specchio sul quale resta impressa l'immagine dell'amata e dal quale essa giunge al cuore e si incide nell'anima. Grazie alla metafora occhi-specchio, l'immagine della donna viene così sempre più a perdere le sue reali connotazioni e si trasfigura in un'immagine psichica, contemplata attraverso un occhio interiore, quello del poeta.

Torna quindi l'idea, tutta medievale, che concepisce l'amore come avventura immaginativa, che, solo apparentemente sembra evitare la concretezza del gesto amoroso, e che vede la seduzione dell'oggetto d'amore come potere di insediarsi stabilmente nell'immaginario del sedotto. Tuttavia, il poeta siciliano si serve della seconda quartina per fare una puntualizzazione. Il testo, nel punto che ci interessa, suona così: "Ben è alcuna fiata om amatore/ sanza vedere so' 'namoramento/ ma quell'amor che strigne con furore/ dalla vista degli occhi ha nascimento". Il poeta fa un esplicito riferimento ad una teorizzazione dell'amore presente nella mentalità e nella cultura del suo tempo, ossia il cosiddetto amor de lohn. L'espressione, così come colui che la ha elaborata formalmente, Jaufrè Rudel, è provenzale.

La puntualizzazione del siciliano pare quasi essere una presa di posizione, di disaccordo e di distacco rispetto a questa teoria e proprio per ribadire l'importanza della vista nel processo amoroso. Da Lentini infatti dice che il furore, cioè l'elemento che connota il vero amore, può nascere solo grazie allo sguardo della donna e alla vista dello stesso da parte del poeta. Sulla trattazione poi del termine furore torneremo più avanti. Comunque, secondo le parole del poeta siciliano, la differenza tra l'amore che si sviluppa nell'amante per la fama dell'oggetto amato e l'amore che nasce dalla mediazione della vista, si snoda proprio in questo concetto. Là abbiamo un amore che trova la sua realizzazione anche nella fisicità tangibile dell'amata e nella realizzazione del desiderio, qui invece un amore spirituale che i critici stessi hanno infatti avuto difficoltà ad interpretare in modo sicuro, proprio per l'ambiguità concettuale sottesa.

Infatti un elemento proprio dell'amor de lohn, oltre che l'eterna lontananza, è anche la perenne irraggiungibilità dell'oggetto amato.

L'innamoramento a distanza è un tòpos tipico della società cortese che si ritrova anche nell'epica tedesca. Nel Niebenlungenlied, la vicenda prende le mosse proprio per il desiderio di Sigfrido di vedere Crimilde, della quale si è innamorato per la continua rinomanza e fama della sua bellezza. Questo motivo tematico passerà poi nella fiaba europea nella quale il principe generalmente si innamora di una donna la cui bellezza è esaltata dalla fama.

Per quanto riguarda poi il discorso sulle varie trattazioni e teorizzazioni che sono state fatte sulla fenomenologia e sul nascere dell'amore, l'ultimo brano da esaminare è tratto dal "Bestiario d'Amore" di R. De Fournival. La natura di questi testi tipicamente medievali quali potevano essere i bestiari, ci induce a collocarli nell'ambito delle trattazioni teoriche, per il carattere di pseudoscientificità che essi si proponevano. La notazione biografica secondo la quale l'autore del bestiario, R. De Fournival, fosse un chirurgo, può supportare l'affermazione precedente ed essere d'aiuto nella comprensione del testo.

I due animali su cui si concentra la riflessione che ci interessa, sono il corvo ed il leone.
Per quanto riguardo questo passo, si può sottolineare come, per acquisizione della medicina del tempo, esistesse una via di collegamento preferenziale tra gli occhi e il cervello identificato come la parte razionale del corpo dell'uomo. Il concetto sotteso al brano è che Amore, cattura sì l'uomo, per la vista, come fa il corvo sull'uomo morto, ma oltre a ciò, gli estrae anche il cervello, lo lobotomizza, lo priva delle sue facoltà mentali. Dobbiamo lasciare in ombra, per ora, questo concetto, ma sarà ampiamente ripreso più avanti.

Ecco quindi che con la fine della lettura del Bestiario e con le testimonianze citate, si sono create le premesse concettuali e culturali per passare ad esaminare come il concetto della fenomenologia amorosa sia codificato nelle immagini e nei topoi nell'ambito poetico.

 

Dalla fenomenologia alla nascita del tòpos poetico

 

a) TROVATORI

La presa in esame dell'orizzonte culturale e letterario dei trovatori e quindi dell'idea, forse troppo stereotipata dai manuali, di Amor Cortese, è fondamentale per la comprensione dell'evoluzione dell'immagine poetica di cui si vuol parlare, ossia lo sguardo della donna.

La lettura di due brani potrebbe essere interessante. Il primo è un testo molto rappresentativo dell'ambito culturale cortese, pubblicato generalmente sui manuali scolastici, ossia "Quando vedo l'allodoletta muovere"di B. de Ventadorn, il secondo invece è un brano poetico molto meno conosciuto che ha peraltro la particolarità di essere stato composto da una di quelle nobildonne che nel XII secolo si davano all'esercizio poetico come trovatrici. Si tratta de L'Amore vrai della Contessa di Dio.

Il testo del Ventadorn, laddove dice precisamente " da quando mi ha lasciato guardare nei suoi occhi", che si potrebbe parafrasare con "da quando mi ha regalato il suo sguardo", è ripreso specularmente dal brano della trovatrice , quando ella, al verso 9, dice "Come vorrei una sera tenere/ il mio cavaliere, nudo, tra le braccia/ ch'egli si riterrebbe felice/ se solo gli facessi da guanciale/ che ne sono più incantata/ di quanto Fiorio da Biancifiore/ io gli dono il mio cuore, il mio amore, la mia ragione, i miei occhi e la mia vita".

L'immagine che emerge da questo confronto è quella degli occhi e dello sguardo come la ricompensa che la donna concede all'uomo in cambio del suo omaggio, secondo le dinamiche ritualistiche così caratterizzanti e strutturali della società feudale.

Gli occhi quindi, lo sguardo, e tutto quello che a ciò è sotteso, ossia la concretizzazione dell'amore, sono il premio, la ricompensa, il domnei, che la donna concede al poeta in cambio del suo omaggio. In ciò trova rispondenza l'idea del rapporto tra uomo e donna nell'amor cortese come rapporto di vassallaggio tra la domna- feudatario e il poeta-vassallo.

A testimonianza di ciò si può citare un passo di E. Koehler: " Come prima si pretendeva dal signore che egli ricompensasse i suoi servitori con un feudo, ora la domna deve ricompensare con la considerazione sociale (onor) - e quindi anche col saluto veicolato in primis dall'atteggiamento degli occhi - il servizio d'amore. In un joc partit, Lanfranco Cigala sostiene che per molti è più importante il prestigio sociale ottenuto con il servizio d'amore che il compimento stesso dell'amore."11

In conclusione, si può dire che, nella codificazione del tòpos da parte dei trovatori provenzali, gli occhi della donna non sono solo veicolo d'amore, ma vera e propria ricompensa d'amore che l'amata concede al poeta e primo passo di quel rituale di corteggiamento così rigido e preciso secondo i dettami delle corti provenzali del XII secolo che da questo prendeva appunto il nome di amor leial.

Emergono anche altri elementi a cui si può accennare. Un primo elemento d'interesse è la presenza, di cui si è già parlato, dello specchio. Lo sguardo della donna è paragonato ad uno specchio in cui il poeta ha avuto, in un primo tempo, il permesso di guardare. Ma ora la nobildonna lo rifiuta e all'amante, sconsolato, non resta che ritirarsi, rinunciando all'amore e alla fiducia verso le donne.

Ciò che gli rimane è una sconfitta in quanto oltre all'amore, ha perduto anche se stesso, dal momento che, per dirla con il Fournival, l'amata, come un corvo, gli ha sottratto prima gli occhi e poi il cervello. A testimonianza di ciò, si può citare il verso in cui il poeta dice " Da quando mi sono guardato in te, o specchio, non sono stato più mio", paragonando se stesso a Narciso. Sul questo mito dell'antichità si tornerà in seguito.

b) POETI SICILIANI

Anche la poetica siciliana mostra diversi e interessanti esempi del motivo dello sguardo della donna che provoca l'amore dell'uomo. Oltre al testo, già preso in esame di J. Da Lentini, un altro importante documento in cui gli occhi della donna sono paragonati ad uno specchio nel quale l'uomo si guarda fino a perdersi, risulta essere il componimento redatto da Stefano Protonotaro, particolarmente rappresentativo per la peculiarità dell'originale facies linguistica. Il titolo è "Pir meu cori alligrari".

In questa poesia ritroviamo l'episodio aneddotico, peraltro già presente nei bestiari medievali, della tigre che, intenta nell'atto di rimirarsi superbamente in uno specchio che i cacciatori le hanno dato per ingannarla, non si accorge che gli uomini le sottraggono i tigrotti. Ella assalita da un'enorme dolcezza per il proprio autocompiacimento, si distrae e, dimentica di quanto le sta intorno, permette ai cacciatori di rapirle i cuccioli.

A livello lessicale, si può notare che il termine usato dal Protonotaro è "miraturi " derivato dal provenzale mirador, che darà origine anche all'inglese mirror. Il termine è compreso all'interno del campo semantico che implica proprio l'idea del guardare iterativamente, ripetutamente fino a perdersi nell'immagine come stregati.

L'episodio paradigmatico serve al Protonotaro per creare una similitudine tra l'azione della tigre che si perde nella contemplazione di sé nello specchio e l'uomo che si perde nello specchio rappresentato dagli occhi della donna12. Così la bellezza dello sguardo femminile ha sul poeta l'effetto che lo specchio ha sulla tigre, secondo le parole del bestiario d'Amore: " Collaborò dunque la vista alla mia cattura? Si, io fui catturato per mezzo della mia vista più facilmente di quanto non lo sia la tigre con lo specchio quando le hanno portato via i cuccioli, se incontra uno specchio, essa non può fare a meno di fissarvi lo sguardo. […] per questo dico fui catturato per mezzo della vista e dell'udito, tanto che non c'è da stupirsi se in tal modo perdetti intelletto e memoria. Perché l'udito e la vista sono le due porte della memoria e sono anche i due sensi più nobili dell'uomo"13.

Nella cultura occidentale, lo specchio è un simbolo ricorrente dell'immaginario letterario ed iconografico. Lo specchio ha due valenze:

Rinvia al fascino ambiguo del doppio, della riproduzione fedele che è anche però una realtà illusoria, perfettamente congruente, ma priva di spessore. È strumento di conoscenza imperfetta14.
Rinvia al peccato di ùbris, di tracotanza, di presunzione di sé. Nella iconografia medievale lo specchio è proprio visto come lo strumento utilizzato dalle donne per prepararsi alla seduzione, tanto che in alcune rappresentazioni medievali dell'episodio omerico delle Sirene di Ulisse, a queste creature bellissime, vengono messi tra le mani, non tanto strumenti musicali, quanto specchi. In questo caso, l'iconografia vuole alludere alle parvenze che ingannano i sensi, seducono gli occhi e irretiscono gli uomini nelle maglie del peccato. 

Un mito ricorda entrambi questi due significati dello specchio. E' il mito di Narciso, raccontato dalle bellissime pagine di Ovidio15. Il racconto dell'episodio di Narciso testimonia essenzialmente la fallacità della conoscenza di se stessi e della realtà circostante dovuta alla mediazione dei sensi, anche quello della vista16.

c) STILNOVISMO

Abbiamo visto come nei poeti precedentemente analizzati, il tòpos dell'amore che nasce dallo sguardo della donna come specchio per il poeta, era, al tempo stesso, strumento di annichilimento razionale e quindi di perdita di individualità.

Passando all'analisi dello Stilnovismo, si può notare come anche in questa scuola poetica sia presente la stessa immagine.

Concentrando la nostra attenzione, in particolare, su uno dei più noti poeti afferenti alla scuola poetica che Dante definirà del dolce Stilnovo, ossia G. Cavalcanti, vediamo come l'idea dello sguardo femminile che cattura l'uomo, esista, ma possa assumere anche altre caratteristiche. L'occhio dell'amata provoca nel poeta una perdita razionale, eppure suscita anche sintomi propri della sofferenza carnale. Lo sguardo della donna viene, in diverse occasioni, paragonata ad un dardo che ferisce il corpo del poeta e provoca in lui dolore e male fisico. L'imbevimento da parte del poeta della vista dell'amata entra in lui come un cancro e lo distrugge. Le parole chiave più caratteristiche e ricorrenti diventano sbigottimento, tremore, lacrime, sospiri. L'amore è descritto come passione dei sensi. Infatti la vista, come diceva anche il bestiario, è, insieme all'udito, uno dei sensi fondamentali: la natura dell'amore è violenta e sensuale tanto che il poeta pensa che essa discenda direttamente dagli influssi di Marte.

Il testo del Cavalcanti preso in esame è il sonetto Voi che per gli occhi mi passaste 'l core. Vedi anche il testo di Guinizzelli.

La tematica centrale del componimento è incentrata sulla descrizione degli effetti dell'innamoramento sul poeta o, per meglio dire, nel nostro contesto, gli effetti causati dallo sguardo della donna. La bellezza della donna esercita il suo influsso sull'anima sensitiva dell'uomo. Cadendo in balia dell'anima sensitiva, l'amore che è in origine luminoso, perde la sua qualità e diventa forza oscura che esclude ogni dominio razionale. Da qui scaturiscono gli effetti sconvolgenti dell'amore sul soggetto che ama: esso appare come una forza che distrugge fisicamente.

Nel testo si susseguono immagini di violenza distruttiva e l'impianto poetico, si basa sull'idea dell'amore allegoricamente rappresentato come una vicenda bellica. Il dolore e la sofferenza provati a causa degli occhi dell'amata portano quasi ad un desiderio di annichilimento che ricorda un'esperienza di trance mistica. Ma, mentre l'annullamento proprio della mistica religiosa provoca effetti di gioia e di ebbrezza17, l'esperienza amorosa cavalcantiana, sembra sfociare solo nella disperazione.

Lessicalmente troviamo un'insistenza ripetuta su termini aspri e intensi, quasi tesi a visualizzare l'esperienza fisica di dolore.

Per meglio approfondire questi aspetti insiti nella poetica di Cavalcanti, è illuminante la lettura del mito virgiliano di Orfeo ed Euridice18.

Le due facce dello sguardo amoroso che dagli occhi della donna veicola l'amore all'uomo, la faccia che provoca furor e quella che provoca sofferenza e dolore, si ritrovano nella subita dementia con cui Virgilio descrive il gesto terribile di Orfeo, che conducendo fuori dell'Ade la sposa, un tempo morta, non si trattiene e, per un'insana follia, si volta per guardarla, contravvenendo al comando impostogli.

La lettura del brano delle Georgiche di Virgilio testimonia come in un solo sguardo sta colpa di Orfeo; la punizione di Proserpina si applica proprio nell'istante in cui gli occhi dei due amanti s'incrociano anche per un solo istante, provocando la fine del loro amore.

Orfeo è un poeta, ma fallisce. E' significativo che colui che gli antichi ritenevano il sommo poeta, lo sciamano che colloquiava con la divinità tramite l'ispirazione poetica, cioè Omero, " Colui che non vede", celasse nel suo nome il segreto della vera conoscenza.

d) DANTE

Dante e Cavalcanti erano amici. Più giovane l'uno, più maturo l'altro, ma comunque amici. Come in un normale rapporto di amicizia, dobbiamo pensare che parlassero, dialogassero, litigassero, si scambiassero le opinioni le idee che nascevano in loro, leggessero vicendevolmente i versi e i tentativi poetici l'uno dell'altro.

Proprio come in molte amicizie, però, i punti di vista e le rispettive Weltanschauungen erano profondamente diverse. Il criterio di interpretazione della realtà, l'accettazione o meno della presenza religiosa e infine la concezione dell'amore e dell'elemento femminile non arrivavano alle medesime conclusioni. Inserendo questo dato nel nostro percorso, dobbiamo concludere che anche il punto di vista sullo sguardo femminile si basa su presupposti teorici differenti.

Per l'analisi di Dante è stata scelta la lettura e il commento della Vita Nuova, testo-itinerarium in cui Dante, secondo la definizione di Singleton, descrive le diverse fasi dell'innamoramento per Beatrice. Quella che maggiormente ci interessa ai fini di questo percorso, è la fase iniziale. Essa prende le mosse dal saluto di lei, la cui potenza espressiva doveva essere, presumibilmente, concentrata negli occhi e nello sguardo più che nella parola. In una società come quella medievale, infatti, dove l'elemento gestuale più che quello orale o scritto, dove la ritualità, più che l'interpretazione personale, segnalavano l'esistenza di una disciplina dei comportamenti che poteva contribuire a riformare l'uomo interiore19, dobbiamo pensare che Beatrice abbia concentrato tutta la sua espressività nell'atteggiamento del vultus.

La lettura della Vita Nuova si può soffermare principalmente su alcuni capitoli scelti, nei quali l'elemento dell'occhio femminile può fungere da punto di vista per ripercorre le tappe fondamentali della vicenda amorosa di Dante per Beatrice. I capitoli della Vita Nuova che ci interessano sono: III, X, XI, XVIII, XXXXVII.

Il primo incontro del poeta con "quella ch'è sul numero delle trenta" pare affine, nella concezione degli spiriti20, a Cavalcanti. Nella fase iniziale del rapporto amoroso, che costituisce la vicenda tematica della Vita Nuova, la fenomenologia amorosa segue i presupposti stilnovistici. Gli occhi del poeta significano l'amore: " Dicea Amore, però che io portava nel viso tante de le sue insegne che questo non si povria ricovrire" 21. Ma il percorso di Dante, nell'elaborazione di una propria visione del sentimento amoroso, va oltre rispetto a quello dell'amico Cavalcanti.

Chiave di volta, per il suo cambiamento è la negazione del saluto da parte di Beatrice. Ella abbassa lo sguardo ed elimina la possibilità di una comunicazione, anche silenziosa.

La negazione dell'occhio di Beatrice è vissuta da Dante come obbligo a dover fare a meno del dato sensibile22. La beatitudine da allora in poi, afferma Dante, consisterà in "quelle parole che lodano la donna mia".23

Dante ha oltrepassato la concezione del rapporto amoroso che era stata propria dei trovatori. Lo sguardo dell'amata non è più la ricompensa tipica dell'amore trobadorico. Gli occhi del poeta che fissano lo sguardo di Beatrice, non sono quelli fisici, bensì quelli del cuore e della mente. Il suo guardare la donna non è effetto dell'humanitas24, ma della caritas, ossia la capacità di riconoscere Dio nell'uomo.

L'amore per Beatrice trova appagamento in Dante grazie alla descrizione della bellezza di lei, caratterizzata essenzialmente dalla luminosità degli occhi. Da essi, però, non ci si attende cenno di risposta. La lettura di "Donne ch'avete intelletto d'amore" testimonia ciò.

Questo concetto è esplicato al verso 51-56 della medesima canzone, dove Dante dice: "De li occhi suoi, come ch'ella li mova,/ escono spirti s'amore inflammati/ che feron gli occhi a qual che allor la guati,/ e passan sì che 'l cor ciascun retrova/ voi le vedete Amor pinto nel viso,/ là 've non pote alcun mirarla fiso.

In questa strofa sono molte le riprese cavalcantiane: il verso 51 "De li occhi suoi, come ch'ella li mova", tiene presente l'espressione " O Deo che sembra quando li occhi gira", mentre le parole che indicano la ricomparsa del tòpos che stiamo analizzando, riprendono il verso di Cavalcanti "Voi che per gli occhi mi passaste 'l core". Tuttavia in questo contesto esistono delle differenze. In Dante vengono infatti eliminati gli accenni distruttivi e guerreschi presenti nel sonetto del Cavalcanti. L'accento rimane maggiormente posto sulla bellezza della sguardo, più che sugli effetti che provoca. Ciò è evidenziato anche dall'inversione, che, collocando il termine "occhi" in posizione incipitaria, gli conferisce un maggior risalto.

A questo passaggio corrisponde, quindi, anche una riconciliazione della frattura interiore che l'amore originava in Cavalcanti, secondo la definizione ossimorica di Eros glukupikros presente in Saffo25.

Interessante per il tema che ci interessa la lettura del capitolo XXXVII, brano che solitamente le antologie scolastiche, per evidenti ragioni antologiche, non riportano.

In questo passo, Dante apre un colloquio significativo in prima persona con i suoi occhi, ammonendoli con "L'amaro lagrimar che voi faceste/ oi occhi miei, con così lunga stagione".26

Beatrice è ormai morta e Dante è irretito dallo sguardo di un'altra donna. Il poeta percepisce questa comunicazione, seppur muta, come un tradimento a Beatrice e, deprecando la vanitas delle sue pupille, imputa agli occhi di essere veicolo sensibile di un amore tutto terreno e, implicitamente, mette distanza tra uno sguardo sensuale e uno sguardo spirituale che è quello che egli deve a Beatrice.

Questo sguardo spirituale è l'arma che la divinità ha concesso a Dante, nuovo Perseo, per decapitare ancora una volta l'occhio di Medusa che annichilisce e fa peccare.

Beatrice quindi non ha più uno sguardo umano. I suoi occhi che "lucevan più di una stella" si appoggeranno pietosi su Dante, smarrito nel labirinto del peccato, e lo porteranno alla conoscenza di Dio, termine ultimo e supremo della verità e della felicità.

Ma un'altra Santa, insieme alla Madonna, vuole la salvezza di Dante, una santa a cui il poeta, secondo un passo del Convivio27, doveva essere devoto: è Santa Lucia, semanticamente connessa alla luce e all'illuminazione della verità, tanto che allegoricamente la figura di Lucia è interpretata come la rappresentazione della Grazia Illuminante, che schiarisce la mente con gli occhi della fede.

Le tradizioni martirologiche la connettono alla protezione dell'organo della vista. Non per nulla, ella viene quasi sempre rappresentata con un piattino su cui tiene i suoi occhi o con un fiore i cui petali sono pupille. L'iconografia è simbolica, ma il messaggio pare essere molto chiaro: Lucia è vigile, controlla i suoi occhi e quelli di chi si affida a lei.

Mi pare di potere affermare quindi che l'occhio, evidentemente strumento di conoscenza sensibile, debba, per Dante, essere sorvegliato, staccato da sé.

Torna il desiderio che era già stato di Narciso, cioè quello di separarsi da se stesso. La vera conoscenza in fondo si nutre proprio di ciò, cioè del mettere distanza tra il soggetto che conosce e l'oggetto che si vuole conoscere.

e) PETRARCA

La quantità di materiale che Petrarca offre riguardo al tema che ci siamo prefissati è ingente. I testi del Canzoniere in cui compare la parola "occhi" o altri termini della medesima area semantica, sono moltissimi e testimonianza di ciò è, in particolare, la presenza delle tre canzoni definite, appunto, dai critici "canzoni degli occhi".

Il nostro itinerario attraverso Petrarca si concentra essenzialmente sulla lettura del Canzoniere e prende le mosse dal sonetto III, in cui il poeta descrive il momento in cui è stato colpito dall'amore per Laura. E' il giorno del Venerdì Santo, giorno di passione, in cui la cristianità piange la morte corporale di Cristo.

I fedeli piangono, ma il poeta non partecipa al comune dolore. Nell'esigenza propria della cultura medievale di dare un significato particolare a ciò che è universale, la coincidenza tra l'innamoramento e il giorno tragico per la religione cristiana suggerisce il significato attribuito da Petrarca alla sua personale storia d'amore: un traviamento morale, caratterizzato da un prolungato oscuramento della divinità, un primo giovenile errore, che implica con il verbo "errare", la presenza di un percorso delirante, letteralmente fuori dal solco, un vagabondare che non si connota mai veramente come pellegrinaggio perché la meta appare e scompare a intermittenza.

Laddove Dante si rappresenta come" uscito fuor della pelago alla riva"28, Petrarca amerà definirsi nave in tempesta alla ricerca di un saldo porto, trovato, almeno apparentemente, soltanto alla fine del Canzoniere ai vv. 66-71 della Canzone alla Vergine29.

Nel componimento III, la cui forma metrica è quella di un sonetto, i versi che egli usa per descrivere il momento dell'innamoramento, cioè il 3 e 4, sono significativi: " quando i' fui preso, et non me ne guardai, chè i be' vostri occhi, donna, mi legaro"

Il motivo riprende il tòpos tematico di cui abbiamo parlato, e l'ascendenza immediata è stilnovista. La metafora insita nel verbo legare, connota, ancora una volta, gli occhi dell'amata come laccio che, letteralmente, irretisce, il cuore e la mente del poeta.

Petrarca, come Perseo e come già Dante, vede la sua Medusa in compagnia di Amore, ma, al contrario degli altri due, si trova di fronte a lei senza armi e senza strumenti di difesa poiché al poeta "tempo non parea da far riparo contra colpi d'Amor" .

E' inerme e i versi 9-11 ci confermano ciò: "Trovommi Amor del tutto disarmato/ et aperta la via per gli occhi al core,/ che di lacrime son fatti uscio et varco".

Nelle orecchie di Petrarca risuona senz'altro il motivo cavalcantiano visto precedentemente e il tòpos secondo le sfumature presenti già in Da Lentini.

Ecco che gli occhi sono quindi a pieno titolo corresponsabili dell'innamoramento di Petrarca, esperienza umana che egli sente in perenne contrasto con quella religiosa.

Rispetto, infatti, ai precedenti poetici, in Petrarca si avverte una rottura tematica. In primo luogo la figura del soggetto è rappresentata come autentica complessità psicologica. L'io si presenta come frantumato, sempre costretta a dialogare con se stesso, a rivolgersi, a dividersi nelle voci discordi dei propri desideri e delle proprie intenzioni. Un significativo esempio di contrasto di questo tipo è presente nel sonetto LXXXIV laddove il poeta inscena una diatriba tra lui stesso e i suoi occhi. Nel dialogo egli prende le parti del cuore, che, a suo dire, non ha avuto colpa nell'innamoramento per Laura, ma ha subito lo smacco degli occhi responsabili di aver aperto quell'uscio e quel varco tramite cui Amore ha raggiunto il cuore e vi ha preso dimora.

Il sonetto inscena un vero e proprio tribunale e nel testo compaiono le parole giudicii, biasmo, ed infine la parola-chiave colpa.

L'amore per Laura è percepito come colpa, come traviamento, delirio, Laura e la sua persona fisica sono avvertite come ostacolo alla salvezza e la figura femminile non è, come accadeva in Dante, mezzo per il raggiungimento del divino.

E' significativo, ai fini del percorso che abbiamo intrapreso, che il primo elemento che connota Laura come presenza fisica concreta seppur evanescente nei tratti descrittivi, siano proprio gli occhi. Si veda la lettura del sonetto XC.

E' un elemento di assoluta novità quello che Petrarca introduce in questo testo rispetto alla tradizione poetica a lui precedente. Le donne angelo dello Stilnovismo e la stessa Beatrice non avrebbero potuto mostrare l'invecchiamento perché fisse in una dimensione atemporale. Laura invece è sottoposta al fluire del tempo e noi lo avvertiamo con i versi 3-4 : e 'l vago lume oltra misura ardea/ di quei begli occhi , ch'or ne son sì scarsi . L'occhio interessato a questo deperimento è proprio quello della donna.

Il tòpos che ci interessa quindi pare subire una rottura, una brusca inversione di tendenza che ci testimonia come la figura di Laura sia terrena e come i suoi occhi siano il veicolo per farci comprendere ciò.

Laura è chiusa nell'orizzonte del suo sguardo, nell'orizzonte di quei micidiali specchi, che le sono propri, e dallo scontro tra il desiderio e la sua irrealizzabilità si crea quel sentimento che Petrarca nel Secretum definirà quiddam inexpletum, che non gli permetterà mai un reale compimento e una realizzazione della sua esistenza. Dopo la morte di Laura, anche il fantasma del suo corpo continuerà ad attrarre il poeta.

Per mostrare l'angoscia suscitata nel poeta dalla perdita del corpo fisico di Laura, si può porre l'attenzione sull'utilizzo dell'aggettivo soave, del sonetto CCLXVII.

Questo attributo deriva dal verbo latino suadere, ed appartiene quindi al campo semantico che riguarda l' attirare a sé, il convincere. Ritorna dunque il richiamo alla divinità Peitho, che, non per nulla, era una dea del corteggio di Afrodite e aveva un epiteto significativo " dal dolce sguardo".

Con la morte di Laura l'amore del poeta non si estingue, ma subisce una trasformazione: è un'immagine mentale e comincia ad esserci la presa di coscienza riguardo alla vanità e alla caducità della bellezza terrena. Come se togliesse il velo, Petrarca offre, nell'ultimo componimento del Canzoniere, consacrato dalla tradizione come Canzone alla Vergine, il giudizio finale sull'esperienza amorosa. Il poeta infatti, invocando la Vergine, come modello unico di femminilità, deprecando il proprio sbandamento verso la donna che egli definisce al v. 111 "Medusa"30.

Il percorso ritorna, come in una sorta di ringcomposition, all'elemento da cui aveva preso le mosse. Il maldestro tentativo petrarchesco di ricomporre il mosaico dei fragmenta della sua anima, fallisce sotto l'occhio mostruoso della Gorgone, divenuto ormai lo sguardo stesso del poeta.