Magda Indiveri - “Di ogni cosa resta un poco”. Letteratura e resto

Percorso didattico

(…)
Farafarafara,
Tarataratara,
Paraparapara,
Laralaralara!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la … spazzatura
delle altre poesie
 [1].

All'altezza dell'ultimo anno delle scuole superiori, lo studente si trova a passare dalle parole alate di D'Annunzio ai giochi linguistici dei futuristi; e poiché in fase adolescenziale l'ironia è qualità rara, per ragioni di maturazione e di autocoscienza, è facile che il "lasciatemi divertire" di Palazzeschi non venga sentito nella sua forza eversiva e dissacrante, ma piuttosto come scherzo fine a se stesso, addirittura banale, visto dal pianeta del postmoderno che ben conosce la lingua di scarto della pubblicità. Frustoli di parole, che sono cugini prossimi delle parole dimezzate e corrotte dei messaggi delle chat e dei telefonini.
Un motivo in più allora per fermarsi un po' su questo tema dei residui, degli scarti, con l'obiettivo di far percepire (insegnare a leggere e ad amare la letteratura ha in primo luogo questa finalità: capire qualcosa di più del nostro umano) il profondo valore etico dell'uso letterario del resto.
Non oltre, poiché anche questo percorso vuole essere un frammento, una scheggia, un "compossibile".

1) Resto, avanzo

 

"Resto" è la prima parola e l'ultima del complesso libro di Jacques Derrida Glas. Un libro in realtà mal definibile, che non inizia e non chiude. In un foglio che Derrida aveva aggiunto, non numerato, all'edizione originale, la domanda è posta senza mezzi termini:

Che cosa resta del sapere assoluto? della storia, della filosofia, dell'economia politica, della psicoanalisi, della semiotica, della linguistica, della poetica? Del lavoro, della lingua, della sessualità, della famiglia, della religione, dello Stato ecc.? Che cosa resta, nel dettaglio, del resto? [2]

Un testo per molti versi indecifrabile, che non potrà naturalmente entrare nel corredo delle letture di classe, ma che nel sommerso della cultura del docente prima di diventare lezione (giustappunto un resto, anche per noi), può lanciare bagliori acutissimi. Perché l'infinito scialo di ciò che ogni giorno non comprendiamo, o dimentichiamo, oggi e nella stratificazione dei secoli, non è inerte ma agisce fortemente su di noi.

Nel 1978 (ma degli stessi anni era il testo di Derrida) il filosofo Jean Baudrillard dava del "resto" una definizione chiarissima, che mette in campo un po' tutti gli elementi da cui partire per una riflessione ed una prima discussione:

Il resto è diventato oggi il termine forte. E' sul resto che si fonda una nuova intelligibilità. Fine di una certa logica delle opposizioni distintive in cui il termine debole funzionava come termine residuale. Oggi tutto si capovolge. La stessa psicoanalisi è la prima grande teorizzazione dei residui (lapsus, sogni, ecc.). Non è più un'economia politica della produzione a dirigerci, ma un'economia politica della riproduzione, del riciclaggio – ecologia e inquinamento – un'economia politica del resto. Tutta la normalità è rivista oggi alla luce della follia, che non era che il suo resto insignificante. Privilegio di tutti i resti, in tutti i campi, del non-detto, del femminile, del folle, del marginale, dell'escremento e del rifiuto in arte, ecc. Ma questo non è ancora che una sorta di inversione della struttura, di ritorno del rimosso come tempo forte, di ritorno del resto come sovrappiù di senso, come eccedenza (ma l'eccedenza non è formalmente diversa dal resto, e il problema del dispendio dell'eccedenza in Bataille non è diverso da quello del riassorbimento dei resti in una economia politica del calcolo e della penuria: solo le filosofie sono differenti) [3]. 

Nella sua accezione complessa, sia negativa (scarto, immondezza, residuo, maceria) sia positiva (resto, rimosso, eccedenza, sovrappiù, alone, scia), Palazzeschi "incendiario" coglie i termini della questione a tal punto che su Lacerba tiene una rubrica intitolata "Spazzatura". E in un colpo solo, componendo nel 1910 una poesia fatta di "robe avanzate", ricicla il D'Annunzio delle stirpi canore (i miei carmi son prole/delle foreste...[4]) e l'onomatopeico Pascoli degli scilp…vitt…videvitt…dib dib bilp bilp [5].
Si comporta in qualche modo come i bambini che amano giocare con rimasugli e avanzi. Non è un osservatore qualsiasi a notarlo, ma il grande Walter Benjamin che per il saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica o per le riflessioni sulla storia non dovrebbe mancare per approfondire lo studio del Novecento. Qui è in una scrittura aforistica, particolarmente lucida:

É che i bambini sono portati in misura notevole a frequentare qualsiasi luogo di lavoro in cui si opera visibilmente sulle cose. Si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici o di giardinaggio, in quelli di sartoria o di falegnameria. Nei prodotti di scarto riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro. A loro soli. In questo essi non riproducono tanto le opere degli adulti quanto piuttosto pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo [6].

Emerge il concetto di riuso creativo: gli scarti dei manufatti e degli oggetti trascinano con sé un assemblaggio, una energia ri-creativa diversa, che mette in moto la fantasia (Gianni Rodari ne è stato maestro), instaura rapporti nuovi, in una parola produce invece che riprodurre. É il proliferare dei ready-made; il "trionfo della spazzatura".

2) Poesia e fogna

 

É naturalmente la linea montaliana, poi ripresa da Andrea Zanzotto, quella che del residuo fa la sua chiave interpretativa. Ogni docente ha ben chiaro in quali testi di Montale, anche cronologicamente, far rimarcare questa presenza. Un riepilogo della questione è ben tracciato in un articolo di Zanzotto stesso risalente al 1966, da cui estrapolare alcuni capoversi (tenendo ben fermo quanto sia importante in classe segnalare il legame tra poeti, e come gli uni interpretino gli altri, in forma critica oltre che nella citazione interna ai testi).

La scoria, il detrito, il residuo, riscontro di certo modo del vivere che sente se stesso come ab-iezione, costituiscono un tema che percorre tutta l'opera di Montale e che è stato messo in rilievo fin dalle prime chiose a Ossi di seppia, titolo emblematico che gli si riconnette. (…)
Inizialmente però in queste figure predominano elementi come la maceria e la breccia, che nella loro asprezza, nel loro taglio, alluderebbero a una qualche forma di sicurezza, di resistenza. (…)
Questo tipo di detrito presenta una specie di nettezza originaria connaturata alla pietra, una durezza da monumentum, e talvolta un certo vigore cromatico, conditi di salinità; e il sale è ciò che conserva, che è in rapporto con il perdurare in una forma di "salute". (…)
Si fanno avanti, in seguito, altre immagini; i resti, organici, e non, divengono più sporchi, più limacciosi. Lungo Le occasioni e La bufera e altro, anche se perdurano presenze come la "grana di zucchero" o la "polvere di vetro", in una fermentazione di luminosità febbrile, l'opaco e il terreno-magmatico prevalgono a rapprendere, a invischiare le tensioni improvvise degli "oggetti", appesantiscono le volute maiestatiche dei ritmi
 [7].

Dai residui puliti, dunque, simboleggiati dagli ossi di seppia, Montale va verso una poetica diversa che dieci anni prima, con il suo saggio L'Inno nel fango del 1953, Zanzotto gli avrebbe suggerito. Dopo dieci anni di silenzio poetico e di attività critica e giornalistica molto intensa, dal 1964 fino al 1971 Montale compone i testi di Satura, che sono una pesante condanna morale della società successiva al boom economico.
Il destino del poeta è adattarsi al trionfo della spazzatura. Dove la poesia è fogna, non si possono usare che materiali di reimpiego, riciclandoli e collocandoli su uno stesso piano, a contatto con la cronaca, la divulgazione, l'informazione; un materiale rosicchiato o sperperato. La poesia sopravvive rasoterra, in una modalità di «musica bassa»[8].
In Satura è la sezione Xenia, dedicata alla moglie, quella più frequentata in classe. Vale la pena soffermarsi anche su altro.
La suite in otto parti Dopo una fuga racconta l'incontro del poeta con una giovane donna che per "troppo amore della vita" rischia di perdersi; si susseguono la visita alla clinica in cui è ricoverata, la sua fuga in Indonesia, una gita fatta insieme a Sant'Anna. Proponiamo alla lettura proprio questo testo (VI):

Quando si giunse al borgo del massacro nazista,
Sant'Anna, su cui gravita un picco abrupto,
Ti vidi arrampicarti come un capriolo
fino alla cima accanto a un'esile polacca
E al ratto d'acqua, tua guida, il più stambecco di tutti.
Io fermo per cinque ore sulla piazza
enumerando i morti sulla stele, mettendomici
dentro ad honorem ridicolmente. A sera
ci trasportò a sobbalzi il fuoribordo
dentro la Burlamacca,
una chiusa di sterco su cui scarica
acqua bollente un pseudo oleificio.
Forse è l'avanspettacolo dell'inferno.
I Burlamacchi, I Caponsacchi…spettri
di eresie, di illeggibili poemi.
La poesia e la fogna, due problemi
mai disgiunti (ma non te ne parlai)
 [9].

Si noterà come tutta la gita si fonda sulla visita di resti: quelli umani della guerra ("i morti sulle stele"), quelli materiali della discarica (sterco, acqua bollente), quelli poetici (Caponsacchi è personaggio di un poema di Browning). I riferimenti a poeti del passato (compaiono, negli altri testi della suite, anche Shakespeare e Keats) servono a straniarne la presenza, a veicolare l'idea che la poesia come era concepita in passato non ha più ragione d'essere ("spettri… illeggibili poemi"). Resti, appunto, emersioni, nella discarica: detriti insieme a frammenti preziosi. É la poetica di chi vive, come dice Luperini, "assediato dalle cose" che oramai hanno perso la loro ragion d'essere; un "canto delle scorie" molto vicino ai testi di Zanzotto stesso.

 

3) Il partito preso delle cose inutili

 

Di quanti oggetti inutili è colma la poesia del novecento? Dal XIX secolo in poi il numero delle cose "svuotate" aumenta in una misura e un ritmo prima sconosciuti, poiché il progresso tecnico pone continuamente fuori corso dei nuovi oggetti d'uso. I correlativi oggettivi della modernità diventano le cose inutili perché rotte, scompagnate, inceppate.
Accozzaglia di oggetti; cose inutili o invecchiate o insolite, decadute, desuete, derelitte, in privazione di funzionalità: è interessante la confessione di Francesco Orlando, che in apertura di un suo importante saggio rivela la passione giovanile per gli oggetti desueti, tanto da tenere un quaderno di passi letterari con elenchi di questo tipo, in enumerazione caotica. Da quel quaderno provenne la sua predilezione letteraria e una lunga e approfondita ricerca [10].
Valerio Magrelli (per citare uno dei poeti dell'ultima generazione che dovrebbe entrare in un canone della contemporaneità) popola le sue poesie di meccanismi rotti in cui "dentro qualcosa balla"; di tazze con le crepe; di cocci, di vasi infranti, di armi difettose, di paesaggi di rovine, dove persino i volti sono "consumati a guardarli" [11]. L'arsenale di merci che era il mondo di Marx, a partire dal nostro Gozzano, attraverso scrittori francesi come Robbe Grillet o Ponge, diventa cumulo variopinto di inutilità, cui però non si sa rinunciare, ed anzi, se ne fa oggetto di poesia, quasi a voler far assurgere l'impoetico all'altare del suo riscatto.

"What's that?/ An egg?" Con un uovo entra nell'agone poetico nel 1930 Samuel Beckett [12].

E Giovanni Raboni in una poesia breve sui gusci d'uovo richiama le parole di Zanzotto, ma eleva anche un inno alla grazia della vita breve:

La tenerezza del guscio d'uovo
Dolcemente svuotato con la bocca
E ornato con paesaggi lontani
Siamo in molti a pensare che non c'è
Modo di imballarlo come si deve
Un oggetto così fragile, così breve e così
C'è poco da sperare
Nella salvezza del guscio d'uovo 
[13].

Un oggetto insalvabile: le cose che proliferano nella poesia contemporanea condividono la fragilità ma al tempo stesso non vogliono sparire, arrendersi alla distruzione. Portano con sé un residuo, un guscio, inutile ma comunque irrinunciabile. Chiedono di vivere ancora un poco, pur nella loro inutilità, come lo chiedono le leopardiane mummie risvegliate, oh, solo per un quarto d'ora, nello studio di Ruysch ("che fu quel punto acerbo/che di vita ebbe nome?").

Il medesimo concetto è svolto dal maggior poeta di lingua portoghese insieme a Pessoa, il brasiliano Carlos Drummond de Andrade (1902 -1987), interprete della corrente del modernismo.
Della sua lunga poesia Residuo diamo il testo in originale con la traduzione di Antonio Tabucchi
La poesia è giocata sul semplice meccanismo dell'elenco e della ripetizione. Di tutto è rimasto un poco, e all'inizio è sul poco che batte l'accento, e si oscilla dai sentimenti (paura, tenerezza) alle cose fragili (rose, veli, polvere); poi però vince piuttosto l'idea che qualcosa è rimasto: dalla categoria del grande (il ponte bombardato) a quella del piccolo (il piattino rotto), fino a quella dell'umano (un tratto del viso), e dunque c'è come una consolazione che cresce, fino al riconoscimento che resta qualcosa di noi, una traccia, una scia, una goccia. Resta qualcosa negli eventi storici, (e si pensi alla montaliana "rete a strascico" della storia), l'odore o il profumo della memoria, qualcosa sotto alle grandi cose, ai fenomeni naturali, ai monumenti, alla morte, qualcosa che nel rovesciamento finale è comunque minimo come un bottone o repellente come un topo [14].

 

4) Le parole sono resti

 

Sarà importante, nella lettura contrastiva di originale e testo tradotto, facendo risorsa della non conoscenza del portoghese per puntare l'attenzione sugli aspetti fonici e visivi, far notare come anche nell'operazione di traduzione si abbia a che fare con un resto, qualcosa che esubera o manca rispetto al testo di partenza. Cosa resta, cosa si trasporta?
Non appaia peregrino usare, per lanciare questa riflessione, la frase finale del recente film 21 grammi:

"Quante vite viviamo? Quante volte si muore? Si dice che nel preciso istante della morte tutti perdano 21 grammi di peso, nessuno escluso. Ma quanto c'è in 21 grammi? Quanto va perduto? Quando li perdiamo, quei 21 grammi? Quanto se ne va, con loro? Quanto si guadagna?"

Sarà allora necessario tornare indietro nel percorso a ricercarlo, questo resto. Si analizzi Palazzeschi, come nelle parole privilegia i suoni e ne fa gioco linguistico, assemblaggio fonico; si leggano poi le note d'autore con cui Eugenio Montale accompagna Dopo una fuga:

Sono noti i Burlamacchi, famiglia di protestanti italiani che si rifugiarono in Svizzera (credo a Ginevra) negli anni della Controriforma. Il Caponsacchi, prete che rapì una malmaritata, è l'eroe del poema di Browning The Ring and the Book. Solo ragioni di numero e di suono, quel giorno, mi indussero ad associare questi due nomi [15].

Ragioni di numero e di suono, più che di concetto: come a dire che la poesia partecipa di una dose di sussidiarietà, di aleatorietà. Nel discorso per il conferimento del Nobel Montale difende la poesia proprio perché "inutile". La parola poetica si caratterizza dunque nel suo farsi scarto, residuo, nel suo definirsi per differenza rispetto all'omogeneità totalizzante; è un mondo che si crea espellendosi; si leggano per questo le riflessioni di Vito Bonito al termine del suo saggio Il canto della crisalide [16].
Le parole sono resto, scia, alone. Risonanza. Sopravvivono a se stesse come lacerti, citazioni, frantumi. Si pensi all'intenzione dichiarata di Benjamin, alla cui base c'è una radicata convinzione teorica, di costruire un libro di sole citazioni. Consapevolezza che ogni cosa scritta è resto di altro. Come c'è una persistenza dell'immagine retinica, anche le parole hanno una vita postuma. Si potrebbe riportare l'immagine suggestiva del Cantico dei cantici: "Il giardino è sprangato ma ne escono acque e odore. La porta dell'anima è chiusa ma ogni tanto appare un filo di luce, una lettera passa sotto la porta" [17].
Vita postuma e residuale ma anche autonoma: se le parole si destano di nuovo come le mummie leopardiane, scelgono loro dove stare, e più spesso si tratta di luoghi di scarto, margini di fogli, biglietti, scartafacci; è quel che sostiene Montale nella poesia Le parole.

 

5) Resti di carta

 

E se questo resto si perde? Se arriva deviato o non arriva? Angoscia necessaria nel mestiere dell'insegnante, il fattore "incomprensione", perché mantiene vigili e realistici. Tra le nostre lezioni possiamo sicuramente ascrivere anche "dead letters", quelle lettere smarrite su cui il Bartleby di Melville si incaponisce rifiutandosi un po' alla volta di vivere. Cartoline postali, rifacendoci ancora a Derrida, che non sappiamo se e come giungeranno.
Intermittenze, più che messaggi sensati, frantumi che sono più un levare che un mettere, resti cartacei. L'umiltà del messaggio mai definitivo e completo. Si potrebbe allora proporre la figura reale- non si tratta solo di un personaggio letterario, ma della sua incarnazione – di Robert Walser; della sua "scrittura residuale", "laterale", del suo tenersi lontano dall'evidenza del mondo; di come amasse scrivere su frammenti di carta. Ermanno Cavazzoni in un intervento che figura tra altri presentati a un convegno del 2000 sul grande scrittore svizzero, morto il giorno di natale del 1956, sa porre molto bene la questione:

Mi viene da pensare questo: che è come, da parte di Walser, un "mettersi al servizio" della carta. Cerco di spiegare cosa intendo: scrivere su un foglietto già usato significa non scomodare un foglio nuovo, che probabilmente, per Walser, appare prodotto apposta per lui, come suo strumento, dove lui possa scrivere le sue idee, quindi come qualche cosa che si asservisce a Walser: il foglio viene (mi piace la parola) scomodato; viene cioè messa in piedi una macchina produttiva, una produzione cartaria apposta per questa modesta attività, come se l'estro scrittorio di Walser comandasse implicitamente alla bella carta pulita di stare lì ai suoi ordini ad aspettare subordinatamente di essere scritta. Lo straccio di foglio, invece, è già nato per qualcos'altro, non è stato scomodato per lui. Vedevo che ci sono anche dei piccoli pezzi di documenti, dichiarazioni dei redditi, ad esempio, usati appunto per scriverci sopra, e poi foglietti stracciati, con l'angolo rotto; ecco, tutto questo fa sì che la scrittura perda quell'enfasi che di fronte al foglio bianco tendenzialmente avrebbe. E diventa uno scrivere approfittando delle cose avanzate, non si scomoda nulla, sono cose che sarebbero finite, che sarebbero state buttate via: Walser si mette al loro servizio[18]

I frammenti di carta simbolicamente rappresentano pezzi di vita che potrebbero disperdersi e sparire; la loro destinazione più comune è il fuoco, e il prodotto della combustione è la cenere- resto per eccellenza letterario e al tempo stesso umano. Un pezzetto di carta può celare per sempre un pezzo di vita, ma può anche salvarlo (cosa si perde? Cosa si guadagna?) É necessario leggere a questo punto la toccante testimonianza del poeta Attilio Bertolucci riguardo ad un suo allievo fucilato alla fine della guerra e al pezzetto di carta "blu da zucchero" ritrovato tra le sue cose: la trascrizione di una poesia di Bertolucci stesso che il giovane aveva voluto portarsi con sé al momento dell'arresto: residuo di un residuo a rappresentare una vita.
Resti allora che danno un qualcosa in più, ai quali conviene prestare attenzione perché è in quelli che vibra, a tratti, il senso più vero.
Il percorso può finire con la voce Brandelli scritta da Erri de Luca, poeta e romanziere, per un singolare libretto-dizionario intitolato Alzaia. Dalle sue parole impariamo che ammesso ci sia una salvezza, e ammesso che siamo in grado di insegnarne la strada, essa non può che risiedere in un resto.

Sergio Quinzio pubblicò nel 1980 Dalla gola del leone, un piccolo libro di pensieri di incandescente dolore. Il titolo viene da un verso del profeta Amos (3,12) che traduco "Così ha detto Iod/Dio, come scipperà il pastore da bocca del leone due zampe o una parte d'orecchio, così saranno scippati i figli d'Israele". Quinzio chiama questa salvezza: "misera e paradossale". Cosa se ne fa un pastore di questi magri rimasugli strappati a gran fatica dalle fauci affamate della belva? Il suo gesto non è vano. Deve riportare indietro un segno: il capo di bestiame a lui affidato non è andato perduto per sua incuria ma per una razzia, alla quale ha opposto le sue forze. Senza questo segno il padrone può chiedergli conto della perdita e addebitargliela. Il verso di Amos racconta che una gran parte della vita di ognuno finisce divorata dal tempo senza lasciare traccia. Ma colui che ha avuto in affido la vita può strappare al niente qualche brandello, dimostrando al padrone di essersi battuto per salvare qualcosa. Per misero e paradossale che sia quel rimasuglio, esso è la prova che quel brandello salvato dipendeva da ognuno e che esso era tutto il nostro frutto. Era la nostra resistenza alla parola hèvel, che Qohélet mette a consuntivo della sua indagine sulla vita: "Il tutto è hèvel". Gerolamo la tradusse vanitas. Altri hanno tentato parole diverse. Io leggo in hèvel spreco e contro la spreco c'è il brandello rischioso del pastore di Amos [19].

 

Note:


[1]A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire, in Poesia italiana del Novecento (a cura di E. Sanguineti) Torino, Einaudi, 1971, I, p.357

[2]J. Derrida, Glas, Milano, Bompiani, 2006

[3]J. Baudrillard, Quand on enlève tout, il ne reste rien. "Traverses" (Maggio 1978), 11, pp.12-15, trad. V. Cuomo, Quando si toglie tutto, non resta niente, in www.kainos.it n. .4/5, 2004.

[4]G. D'Annunzio, Le stirpi canore, Alcyone, Torino, Einaudi, 1995.

[5]G. Pascoli, Dialogo, Myricae, Tutte le poesie, Roma, Salerno editrice, 1991.

[6]W. Benjamin, Cantiere, in Strada a senso unico, Torino, Einaudi, 2006, p. 11

[7]A. Zanzotto, Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia-Scatologia) in Fantasie di avvicinamento, Milano, Mondadori, 2001

[8]R. Luperini, Storia di Montale, Bari, Laterza 1986, pp.195 e segg.

[9]E. Montale, Dopo una fuga VI, in Satura II, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, Meridiani, p. 398

[10]F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi, 1994 p.3

[11]V. Magrelli, Poesie (1980-1992) e altre poesie, Torino, Einaudi, 1996

[12]S.Beckett, Poesie, Torino, Einaudi, 2006, a cura di G. Frasca, p. 5

[13]G. Raboni A tanto caro sangue, Milano, Mondadori, 1988

[14]C. Drummond de Andrade, Sentimento del mondo, Torino, Einaudi, 1987, prefaz A. Tabucchi

[15]E. Montale, cit, p. 1120.

[16]V. Bonito, Una luce spoglia di ogni cosa: la realtà, la poesia, l'immondizia in Il canto della crisalide- Poesia e orfanità, Bologna, Clueb, 1999.

[17]Il Cantico dei Cantici (a cura di G. Ceronetti), Milano, Adelphi, 2005, p. 133.

[18]E. Cavazzoni, Sulla Carta, in Per Robert Walser, www.zibaldoni.it

[19]E. De Luca, Brandelli in Alzaia. Milano, Feltrinelli 2005, p. 20