Magda Indiveri e Jessy Simonini - Il popolo mite di Anna Maria Ortese

Proposte per una lettura in classe

Le prime biciclette andavano già, scintillando, lungo il filo del marciapiedi, con un'allegrezza, una lievità che richiamavano il volo; riaperte le mostre dei negozi, levate le saracinesche dei caffè, dei bar, formatisi i primi gruppi intorno alle edicole dei giornali, ci siamo resi conto di un fermento, una animazione, una gioia intensa, tutti i segni avvisatori di una vacanza, una solennità popolare, di cui non sapevamo niente e che ci appariva proprio per questo più eccitante, meravigliosa.[1]


La gioia di cristallo che Anna Maria Ortese esprime nel suo resoconto di viaggio da Bologna carica nell’aggettivo “popolare” (“una solennità popolare”) una sensazione di meravigliata positività. Ma è possibile che “popolare” porti in sé il piacere dell’unione, della meta comune, della condivisione? E’ il 1949 e l’Ortese si trova a Bologna all’alba di una giornata di festa, nella data di una manifestazione politica. Colti da sussulto e turbamento, Anna Maria e i suoi accompagnatori registrano l’arrivo di “un fiume arricchito da mille torrenti” : una  “folla umana” che “facesse pensare … alla tensione di una freccia sulla corda dura dell’arco”.  Tutto concorre all’unisono, alla vibrante univocità delle bolognesi e dei bolognesi, e la lettura ad alta voce della descrizione, oggi, in un’aula di quinta superiore, risuona e lascia la sua eco.
La sorpresa trova spiegazione davanti ai giardini Margherita, dove si tiene la festa de l’Unità: la scrittrice, dopo la descrizione viva dei visi delle persone che accorrono, mette a fuoco il colore delle bandiere “rosse, morbide, sfavillanti”,  “come tante grandi fiamme accese qua e là, sotto il cielo sereno, fiamme tutelari, magiche” per rappresentare la particolarità della manifestazione, così diversa da altre immagini memorizzate ed evocate.
E’ popolare quindi, in questa accezione, quel condividere che rende gli uomini più umani, una umanità alla ennesima potenza perché composta delle parti migliori di ognuno, in totale fiducia e mitezza, qualità non comune che la Ortese esalta più volte nelle sue opere. Non il popolo della protesta o della ribellione, ma il popolo mite, implicitamente consapevole della sua forza e con il quale Ortese sente una forma di fratellanza, una vicinanza scevra, forse, di implicazioni ideologiche, ma che si risolve tutta nella categoria pre-politica dell'umano in senso largo, in un'Italia che "si animava, usciva dalla miseria, dalla vergogna, dal lutto" e in cui "la vita, vera estasi, incominciava"[2].

Del tutto diversa la descrizione di una situazione simile da parte di Franco Fortini:

E anch’io ho saputo in una torma oscura
come la tua, ma a Bologna, una festa
di bandiere rapprese; e poi, fra i resti
dei cori, i vecchi-infanti nella dura ira

del neon.[3]


Il testo fortiniano non risponde alla Ortese, ma fa parte di un dialogo a distanza tra Fortini e Pasolini. Tuttavia, è facile costruire un parallelo fra la "festa di bandiere rapprese" fortiniane, che fanno pensare al sangue coagulato, a una rovina che si intreccia inevitabilmente alla dimensione del politico, e le bandiere come "fiamme tutelari" nel testo di Ortese.
Corre alla mente la grande macchia rossa  del quadro di Renato Guttuso “I funerali di Palmiro Togliatti” (1972) che campeggia su una parete del Mambo, il museo d’arte moderna bolognese.
“L’uomo era con l’uomo per l’uomo”: questa la formula della Ortese che riassume il segno positivo dell’aggettivo “popolare”: uno stare insieme dove l’individuo esiste per l’altro. Tanto che la scrittrice dice che “Bologna ci appariva ad un tratto la terra promessa. […] Una mano stringeva un’altra. Uno sguardo s’appoggiava a un altro” ed è incantata  che “tanti uomini, un città intera, festeggiassero così mitemente, così umanamente se stessi, la loro fatica, libertà, bontà.”  Mite diventa nella riflessione ortesiana sinonimo di umano, ma in una accezione molto ampia, tanto che nel saggio  pubblicato postumo Le piccole persone, dedicato agli animali, la mitezza è caratteristica altissima dei viventi.

Sono piccole persone mute, un immenso popolo muto, e generalmente mite […] Senza fraternità non vi sono uomini ma contenitori di viscere, e un popolo fatto di contenitori non esiste, o non è un popolo.[4]

In “Saluto di notte”, breve racconto di un sogno pubblicato nella raccolta In sonno e in veglia,  il giovane che la salva porta il mantello “con mite autorità”. Al risveglio

Dov’era ora? Esisteva? Era davvero così mite? Seppi, tempo dopo, che esisteva realmente, era persona grandemente colta e mite.[5]

Una pagina prima  la scrittrice aveva spiegato il senso di quel “mite”, quando dice che “può capitare che vite oscure siano illuminate, forse per un semplice attimo, e la certezza di altre vite fraterne si affacci in questa notte”. Dunque la fraternità è quel valore che rende miti e permette il meraviglioso, cioè la “pietà dell’altro”.

Del resto, “Beati i miti perché erediteranno la terra” è la terza delle otto beatitudini nell’evangelico discorso della montagna, e sul senso di quell’ “ereditare” molti interpreti convergono sull’accezione del possedere, abitare la terra in piena sintonia, farne casa propria. Interpretazione che si adatterebbe alla visione della Ortese, alla franca e serena consapevolezza del popolo scorto a Bologna, a quel motto indimenticabile che la scrittrice pronunciò in una intervista del 1977:  “Scrivere è tornare a casa”[6]

Nel quinto racconto  de Il mare non bagna Napoli, dal titolo “Il silenzio della ragione”, la Ortese  riferisce le parole che le rivolse Ermanno Rea, scrittore napoletano; “Di’ la verità, a te il popolo non ti piace!” Ecco, si potrebbe dire che Anna Maria ama il popolo mite, quello scoperto a Bologna, quello che è  assimilabile, in un certo senso,  al popolo animale.  La scrittrice ribadisce nell’intervista che ora chiude Corpo celeste:

La mia idea di patria è modesta. Amo ciò che è piccolo, amo le cose e creature infinitamente piccole, mute, che ci guardano con coraggio. Essi si appellano a noi dal fondo della loro tristezza e innocenza…ecco la mia idea di patria: lo sguardo mite e interrogante della Tartarughina del Levante, lo sguardo calmo degli Ultimi. Ho lì la mia casa, i miei inni, le memorie, le fiammanti e lacere – per tutti i venti dell’inverno – care Bandiere.

Un pensiero così fuori dalle righe, così originale non può essere escluso dai programmi dell’ultimo anno di scuola superiore, ma deve, al contrario, trovare spazio nella didattica della letteratura italiana.

Anna Maria Ortese in classe

Ridotto agli ultimi mesi di programma, spesso trattato in maniera sommaria e superficiale, il Novecento, e in particolare il secondo Novecento, trovano a fatica, nella didattica dell'italiano alle superiori, uno spazio davvero rilevante. A questo elemento, si aggiunge un'altra assenza significativa: quella delle autrici femminili che pur sono state, e non soltanto nel XX secolo, una voce sempre più forte e degna di nota nel dibattito letterario e intellettuale italiano e che occorre a nostro avviso studiare, anche in una prospettiva di genere.
E' con queste premesse che si è scelto di proporre ad una quinta superiore un'autrice che forse per troppo tempo è stata fuori dal canone dell'insegnamento della letteratura e della quale, soprattutto negli ultimi anni, si stano riscoprendo e ripubblicando quasi tutte le opere che compongono un corpus ricco e disorganico. Anna Maria Ortese non è, però, stata solamente una scrittrice prolifica e, come si vedrà, appartata ma, al contrario, è stata una protagonista della cultura del proprio tempo, capace anche di scelte difficili e coraggiose, come ci dimostrano il suo profilo biografico e alcuni dei suoi interventi, uno su tutti, il già citato racconto dal titolo "Il silenzio della ragione"[7], che apre una rottura difficile da sanare con la comunità degli intellettuali napoletani degli anni Quaranta raccolti intorno alla rivista "Sud" e della quale la stessa Ortese faceva parte.
Parlare di Anna Maria Ortese in classe consente, così, non soltanto di far scoprire agli studenti una parte per loro nuova della letteratura italiana del Novecento, ma anche di aprire riflessioni ben più ampie sul meridionalismo (e sull'esistenza di una letteratura di impronta "meridionalista"), sull'Italia dell'immediato dopoguerra e sul suo panorama intellettuale, sulla letteratura italiana delle donne, per proporre soltanto alcuni dei possibili assi di lettura. Ed è su questa linea di coerenza che ci si è indirizzati nel momento del lavoro in classe, cercando di offrire spunti ulteriori e aperture ad altri autori della stessa epoca, pur seguendo sempre come traccia un ridotto corpus di testi della nostra autrice.
Nata a Roma nel 1913, la città a cui si associa consuetamente Anna Maria Ortese è, però, Napoli, città che "il mare non bagna", come richiama il titolo dell'opera con la quale vinse, nel 1953 il premio Viareggio (lo stesso anno in cui lo vinse, tra l'altro, Carlo Emilio Gadda), Il mare non bagna Napoli; formula che, successivamente, è stata più volte utilizzata da altri autori per connotare Napoli come una sorta di centro della paralisi e del degrado, in una lettura che, negli anni in cui il libro uscì, fu da più parti criticata come non conforme al vero[8]. Il mare non bagna Napoli resta, tuttavia, l'opera più conosciuta e diffusa di Anna Maria Ortese, un punto di partenza imprescindibile per capire molti degli aspetti della scrittura di Ortese e del suo scandaglio su quello che, molti decenni prima, Matilde Serao aveva definito "il ventre di Napoli"[9]. "La città involontaria" è un buon esempio di questa operazione di scandaglio, di una discesa nell'ipogeo dei Granili, grande edificio napoletano dove, nell'immediato dopoguerra e fino all'anno della sua demolizione, vivono gli indigenti della città: quella di Ortese è una vera e propria radiografia, che indaga gli spazi e i paesaggi oscuri della povertà partenopea, in una doppia tensione fra rappresentazione del reale e invenzione, i cui confini sono sempre labili. La raffigurazione di Napoli trova spazio anche in un racconto lungo come Mistero Doloroso, ma in un periodo storico tutto diverso, alla fine del Settecento, in un'atmosfera quasi magica che ricorda quella de Il cardillo addolorato, romanzo ortesiano ambientato nella stessa epoca. Anche Mistero Doloroso potrebbe trovare, in classe, un suo spazio, in particolare come lettura integrale da proporre agli studenti, magari in parallelo con un altro romanzo ambientato nella stessa epoca e in ambito meridionale, La lunga vita di Marianna Ucria di Dacia Maraini.
Quelli proposti sono soltanto alcuni esempi che non riescono, forse, a dare un quadro chiaro e completo della ricchezza e della vastità della produzione di Anna Maria Ortese, che attraversa numerosi generi e forme, e che non è semplice riassumere in poche formule semplificatorie, né si riduce soltanto alla città di Napoli, che pure è uno dei luoghi centrali della sua opera letteraria. Non bisogna, infatti, lasciare da parte la produzione saggistico-giornalistica, con i saggi contenuti nel grande volume de La lente scura, che riportano soprattutto resoconti di viaggio degli anni Quaranta e Cinquanta: una lente opaca e critica per guardare da un'altra angolatura l'Italia e l'Europa dell'immediato dopoguerra, le città, il loro cambiamento, come nel caso dell'articolo dedicato a Bologna che abbiamo evocato. La riflessione di Ortese sulla città, del resto, può essere proposta alla classe in un confronto con un articolo scritto da Pier Paolo Pasolini che definisce Bologna "città consumista e comunista"[10] e che ne offre, a quasi trent'anni di distanza, un ritratto particolarmente disincantato, molto diverso da quello della nostra autrice.
Restano degni di nota i saggi di carattere letterario e personale, come per esempio quelli contenuti in Corpo celeste, un breve e disorganico testo di poetica, che aiutano ad entrare con più consapevolezza nella biografia e nell'educazione intellettuale dell'autrice, nelle sue letture e passioni; è, invece, nei saggi venati da un sentimento animalista ed ecologico raccolti molto di recente ne Le piccole persone, che si struttura come una vera e propria mistica del rapporto con la natura e con gli animali, definiti "piccole persone", altro tema centrale nella poetica di Anna Maria di cui si è già accennato.
La vastità del corpus letterario di Ortese, al quale vanno aggiunti alcuni romanzi e numerose raccolte di racconti, come quelli onirici e visionari de In sonno e in veglia, impone naturalmente dei tagli e delle scelte precise, che consentano di riassumere in un numero esiguo di lezioni gli aspetti principali dell'autrice, mettendo l'accento su alcuni aspetti preminenti, in particolare il rapporto con la comunità intellettuale italiana[11] e la dimensione intimamente civile di una prosa che, tuttavia, ha un rapporto stretto con la visionarietà e lo spazio obliquo dell'onirico[12].
Quello che è centrale portare in classe è, forse, l'eredità di un'autrice che si pone al di fuori dai canoni e dai cataloghi, fuori dai grandi movimenti poetico-letterari del Novecento e dai circoli intellettuali della sua epoca; un'autrice il cui corpus ricchissimo occorre, a nostro avviso, recuperare, con un lavoro di analisi e di riflessione critica da condurre in classe e che si apra a spunti di storia culturale, editoriale e letteraria del secondo Novecento, ad autori oramai da tempo obliati (come ad esempio Raffaele La Capria, che nella primavera del 2016 ha pubblicato, in una raccolta, un ricordo molto particolare di Anna Maria Ortese[13]). Dallo studio di un'autrice "appartata", si potranno forse trovare spunti nuovi di discussione e riflessione, aperture e percorsi interdisciplinari nei quali accompagnare gli studenti.

Scrittrice appartata, “impopolare”?

"Appartata" è, forse, un aggettivo riduttivo e semplicistico. Il mondo di Anna Maria è un mondo fatto di incontri e conoscenze, di rapporti e viaggi, di amicizie che in certi casi finiranno per esaurirsi ma che è utile richiamare. I ritratti di Anna Maria Ortese da parte di protagonisti del mondo intellettuale e letterario a lei contemporaneo non sono pochi, e possono essere un buon punto di partenza per la trattazione dell'autrice in classe; conoscerla, approfondirla, ma iniziare a farlo con gli occhi degli altri, ad esempio quelli di Rossana Rossanda, ne La ragazza del secolo scorso:

Mi è rimasto in mente un episodio minore. Anna Maria Ortese, figuretta riservata, sempre vestita di nero, i capelli stretti da una fascia nera sopra il bel viso, passava silenziosamente i giorni alla Casa della cultura perché non aveva una vera casa. In uno dei primi reportage sull'Urss che le aveva chiesto un settimanale aveva scritto d'una immensa povertà e solitudine, che suonavano come una sterminata colpa. Era Ortese, era la sua assonanza con il dolore dei miseri, ma mi esasperò perché non dubitai che fosse vero. La investii: non hai capito la fatica, l'isolamento di quel paese; perché non scrivi anche che tutti hanno un lavoro, tutti hanno la scuola, tutti hanno gli ospedali? E non vedi che è sotto attacco? Il nostro era un rapporto quotidiano, discreto- non chiedeva mai nulla - e le feci male.
Il giorno dopo venne a casa mia con un assurdo mazzo di fiori e come aprii la porta non riuscì ad articolare parola, ci abbracciammo piangendo. Lacrimavo cercando del cognac per tirarla su, era pallidissima, non ci dicemmo quasi niente, e andammo via strette insieme. Non l'ho dimenticato.


O, anche, quelli affettuosi di Ginevra Bompiani, nel suo recentissimo Mela Zeta[14]:

"Non riesco a rispondere bene alle lettere," mi disse [Anna Maria] quando ci rivedemmo un anno dopo, "le cose che si scrivono per lettera, vanno perdute. Bisogna stare attenti, fare economia, queste cose servono per scrivere libri".
Lasciandomi, quel giorno, per la strada, mi disse: "Scriva, lavori. Non c'è nient'altro, sa?" Eravamo state sedute per un'ora, lei, sua sorella e io, nella saletta buia di quel bar di Rapallo. Lei piccola, minuta, con un fazzoletto annodato sotto il mento. La sorella più larga, piena, parlava benevola di cani e gatti. Tessevano entrambe l'elogio della gente della città, buonissimi, gentili, pietosi con gli animali. La sorella raccontava episodi che illustravano questa grande bontà. Conosco anch'io questa bontà: è la bontà di provincia. Questa bontà (e la tristezza che la accompagna) è il terriccio in cui cresce di solito la scrittura in Italia. È, per lo più, fatta di pessimismo. Di sfiducia nella grazia.


I due estratti proposti appartengono a due periodi molto diversi: all'immediato dopoguerra il primo, negli anni in cui Rossanda si occupa di cultura per il Pci; alla fine degli anni Ottanta, possiamo presupporre, il secondo[15]. Nel profilo tracciato da Ginevra Bompiani, una lettura di poche pagine che si può proporre anche nella sua interezza[16], emergono alcuni tratti del carattere aspro e lunatico di Anna Maria e si tratteggia la natura indissolubile del suo rapporto con la sorella Maria ( che si ritrova poi nella Juana del Porto di Toledo), con la quale vivrà tutta la vita. E, in questa prospettiva, si innesta il riferimento agli "animali", una delle passioni della Ortese: non animali, bensì, "piccole persone":

L'uomo, infatti, riconoscendo che anche gli animali hanno una faccia (due occhi, spesso supremamente belli e buoni, naso, bocca e fronte), ammettono implicitamente che gli animali sono suoi fratelli, o anche semplici "antenati", conviventi oggi con la sua storia, sono meravigliosi oppure comuni "diversi",  e quanto lui partecipano del mistero e il dolore e il cammino della vita. Sono piccole persone mute, un immenso popolo muto, e generalmente mite, ma senza un diritto al mondo, e di cui ciascuno può fare ciò che vuole, e lo fa, macchiando la terra di un solo interminabile delitto, per il quale non c'è mai un gastigo.[17]

I saggi contenuti all'interno de Le piccole persone ci testimoniano così di un pensiero sempre più radicale e minoritario, ma anche di una particolare empatia verso gli animali, che sono deboli e oppressi, in balia dell'uomo, responsabile di un "interminabile delitto" nei loro confronti. Si respira, qui, uno spiritualismo già individuabile in altre opere in prosa, in cui la natura può sì essere un locus amoenus, ma è anche invaso da una tristezza irredimibile.
Nel ricordo di Rossana Rossanda, invece, emerge in primo luogo un riferimento all'indigenza di Anna Maria Ortese, alle difficoltà economiche che segneranno buona parte della sua vita e che la spingeranno, in seguito, a trasferirsi nella Rapallo di cui parla sempre Bompiani e a percepire, per prima in Italia, il vitalizio previsto dalla Legge Bacchelli, in seguito ad una raccolta di firme su Il giorno. E, poi, a quella che viene definita come "assonanza con il dolore dei miseri", una formula che testimonia lo sguardo politico e compassionevole di Ortese, la sua vicinanza reale ed affettiva ai poveri, agli indigenti. Sia per la sua condizione effettiva di indigente, sia per una sua particolare inclinazione, reperibile in molti luoghi della sua produzione narrativa, verso i più deboli, che trovano spesso cittadinanza nella sua scrittura. Il richiamo all'Unione Sovietica, e ad un reportage di un viaggio scritto verso la metà degli anni Cinquanta[18], è poi utile per sottolineare un altro tratto della sua biografia: Anna Maria Ortese non è organica ad un partito o a un movimento politico, non è "del Pci", che considera le sue posizioni come eterodosse[19], e non ha paura di scrivere senza alcun filtro ciò che vede della Russia, mettendone in luce la povertà, la solitudine. Anche a costo di essere esclusa: da Rossana Rossanda, che non la capisce e inizialmente la rimprovera; dalle donne comuniste con le quali si trova a viaggiare, che, come riporta una sua testimonianza[20], la escludono dai loro discorsi per tutto il soggiorno; da una comunità di intellettuali sostanzialmente "organici", che si sono sentiti profondamente offesi da un racconto come Il silenzio della ragione, nel quale non mancano le critiche ad un'intera generazione di scrittori impegnati della sua Napoli.

Il popolo larva

Eppure, Anna Maria Ortese ha col popolo una sintonia, un'empatia che si può individuare in pochi altri autori della sua generazione; una vicinanza, come si diceva, scevra di implicazioni politiche reali (seppure con uno sguardo che è senz'altro politico, nell'intimo), ma che porta con sé la traccia di un destino comune: anche Anna Maria, in qualche modo, è parte di quel popolo, ne condivide i drammi, le difficoltà. Ne Il mare non bagna Napoli, questa fratellanza con i "poveri e semplici" trova nel racconto La città involontaria (di cui, nel nostro caso, si è proposta in classe un'analisi dettagliata e guidata di alcuni estratti) una delle sue rappresentazioni più efficaci.

Una delle cose da vedere a Napoli, dopo le visite regolamentari agli Scavi, alla Zolfatara, e, ove ne rimanga tempo, al Cratere, è il III e IV Granili, nella zona costiera che lega il porto ai primi sobborghi vesuviani

Come per la visita a Bologna, anche qui il testo – una interessante ibridazione tra il resoconto e il racconto – comincia con le indicazioni di riferimento sul luogo.  Una periferia di Napoli, un sito non previsto dagli itinerari turistici, un luogo da “rimuovere” che richiama le parole violentemente appassionate di Matilde Serao un secolo prima (in classe è utilissimo ed è una grande scoperta inserire tra le letture veriste canoniche alcuni estratti da Il ventre di Napoli, il saggio che a partire dal 1884 la giornalista-scrittrice dedicò alla sua città a rischio distruzione):

BISOGNA SVENTRARE NAPOLI Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l'altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s'impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest'altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perchè siete ministro? [21]

Quella stessa situazione di degrado molti anni dopo la Ortese denuncia entrando e mostrando l'edificio dei Granili:

Sui due lati di ciascun corridoio si aprono ottantasei porte di abitazioni private, quarantatrè a destra, quarantatré a sinistra, più quella di un gabinetto, contraddistinte da una serie di numeri che vanno da uno a trecentoquarantotto. In ognuno di questi locali sono raccolte da una a cinque famiglie, con una media di tre famiglie per vano. Il numero complessivo degli abitanti della Casa è di tremila persone, divise in cinquecentosettanta famiglie, con una media di sei persone per famiglia. Quando tre, quattro o cinque famiglie convivono nello stesso locale, si raggiunge una densità di venticinque o trenta abitanti per vano.
Gli uomini che vi vengono incontro non possono farvi nessun male: larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole, di questi beni non serbano quasi ricordo. Strisciano o si arrampicano o vacillano, ecco il loro modo di muoversi.


L’accumulazione di porte e di famiglie favorisce il senso di infinito degrado, di una enumerazione insensata,  di una massa indistinta dalla quale emergono uomini-larva che hanno perso i beni basilari come vento e sole, e che strisciano o vacillano come ombre.

Nel centro e verso la fine di questo condotto, si muovevano senza alcuna precisione, come molecole in un raggio, delle ombre; brillava qualche piccolo fuoco; veniva, da dietro una di quelle porte, una ostinata, rauca nenia

Questo popolo di diseredati, di reietti, viene visitato dalla Ortese in una indagine che fa da specchio alla situazione raccontata ne “Gli occhiali”: sia in forma di invenzione che in forma di resoconto la Ortese non chiude gli occhi, li tiene ben aperti di fronte alla realtà che altri scrittori si negano.  Il “popolo di larve”, di “ombre” in un ambiente che non può non far pensare all’inferno dantesco, quell’inferno che il novecento ha eletto a luogo paradigmatico della propria storia, è la versione senza diritti e senza consapevolezza del popolo mite e felice della giornata bolognese. Il particolare delle bandiere segna come uno stigma la differenza: fiammanti, o lacere. Una immagine che ricorre in più testi:

Perché io parlo dei poveri, dell’esercito dei poveri, che in nessuna città, come in questa, è mai stato più grande e ha sventolato più lacere bandiere.[22]

Una nuova humanitas

Bandiere "lacere", bandiere "fiammanti" sono due formule che ci riportano a due rappresentazioni opposte del popolo ortesiano: da un lato, la "città involontaria", la Napoli dei Granili; dall'altro, la "terra promessa", la Bologna comunista, quasi una enclave in cui le bandiere rosse possono sventolare orgogliose  e irriverenti sui giardini in cui si tiene una festa de l'Unità. Ma in entrambi i casi, l'obiettivo, il "programma politico" (o, almeno, il programma di politica della letteratura) di Ortese sembra essere lo stesso: parlare di un mondo con il quale sente una particolare vicinanza, un'empatia tutta personale; parlare, in breve, dei poveri e dei semplici. Che essi siano attraversati dal dolore e dall'indigenza più nera, dall'ombra della morte che si fa strada fra i corridoi angusti dei Granili; che essi siano un popolo luminoso e vivo, attraversato dalle speranze, in una "domenica dopo la guerra", per evocare Vittorio Sereni, a una festa di partito, col pensiero rivolto al futuro, a quel mondo nuovo da costruire insieme all'altro.
Parlare dei poveri, dei semplici, conservando la purezza dello sguardo e un'unica ideologia: quella dell'humanitas nel suo senso più ampio. Quello di una scrittrice che è "amica al vivente", come titola un articolo degli anni Ottanta, capace di empatia, vicinanza, fratellanza con il popolo, che sia esso sommerso, dimenticato dalle autorità, o che sia esso mosso dal comune sentire una passione civile. I suoi occhi attenti e affratellati guardano, allora, in direzione di questo popolo, delle sue bandiere: ne ricostruiscono i caratteri; si aprono in uno sguardo meravigliato e timido, di fronte a quella che è una terra promessa in cui è possibile vivere in pace e di cui vale la pena ricomporre, nella prosa, la mistica. Ed è proprio attraverso questo particolare sguardo sulle cose, che si compone anche la sfera del politico, questa nuova humanitas su cui campeggia, per riprendere l'articolo su Bologna, il ritratto di Maria Margotti evocato nel testo. "Visi forti, voci allegre, sguardi buoni", e poi il volto di Maria Margotti, senhal della sensibilità ortesiana per gli ultimi. La "Maria Margotti", epica bracciante su cui il sindacato e il PCI hanno tessuto una narrazione quasi eroica, appena dopo il suo assassinio, per mano di un carabiniere, nel maggio del 1949, in pieno scelbismo, diventa uno dei simboli più nitidi di questo popolo di poveri e semplici.
Fuori dalle ideologie, dalla politica partitica, dagli occhi più viziati e costruiti di Rossana Rossanda, ad esempio. Ma sempre e comunque, e senza dubbio, "scrittrice del popolo", non nel senso che ne avrebbe dato  uno Zdanov[23], ma in un senso tutto diverso: quello di chi nel popolo, nei suoi riti, nelle sue difficoltà, trova una forma di vita, e la fa entrare in letteratura. E merita di entrare anche in classe, magari prima di parlare di un altro autore che nel popolo trova, a sua volta, una forma di vita, e il cui canto popolare risuona, pochi anni dopo l'uscita dell'articolo di Ortese, ma già bagnato di disincanto. E' il Pasolini de Le ceneri di Gramsci, di "Canto popolare":

[...] Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.
[24]

Pubblicato il 19/06/2017

 

Note:


[1] A.M. Ortese, Bologna, forse una terra promessa, in La lente scura, Milano, Adelphi, 2004. Apparso su “Milano-Sera”, 15-16 settembre 1949.

[2] Ead., Poveri e semplici, Firenze, Vallecchi, 1967.

[3£ F. Fortini, Al di là della speranza, 1957 in Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.

[4] A.M. Ortese, Le piccole persone, Milano, Adelphi, 2016

[5] A.M. Ortese, In sonno e in veglia, Milano, Adelphi, 1987

[6] A.M. Ortese, Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997

[7] Il silenzio della ragione, in Il mare non bagna Napoli, Torino, Einaudi, 1954.

[8] M. Farnetti, Anna Maria Ortese, Milano, Bruno Mondadori, 1998.

[9] Matilde Serao, Il ventre di Napoli,Milano, Treves, 1884.

[10] P.P. Pasolini, Bologna, città consumista e comunista, in Lettere luterane, Milano, Garzanti, 2009.

[11] Anche Rossana Rossanda, nel suo La ragazza del secolo scorso,Torino, Einaudi, 2005, cita il proprio incontro particolarmente goffo con Anna Maria Ortese, in occasione di un incontro alla Casa della Cultura di Milano, istituzione culturale vicina al Partito Comunista Italiano.

[12] Come nota, ad esempio, Silvia Contarini in un suo utile saggio (Tra cecità e visione. Come leggere «Il mare non bagna Napoli» di Anna Maria Ortese).

[13] R. La Capria, Ai dolci amici addio, Roma, Nottetempo, 2016.

[14] G. Bompiani, Mela zeta, Roma, Nottetempo, 2016.

[15] In seguito, la Bompiani si riferisce ad un articolo su Anna Maria Ortese, Amica al vivente, apparso sul numero 21 di Leggere, nel 1990.

[16] E che può consentire alla classe di entrare in contatto con un'autrice contemporanea di rilievo.

[17] A.M. Ortese, Le piccole persone, cit.

[18] Anna Maria si recò in Russia in treno, con una delegazione dell'Unione Donne in Italia

[19] Si possono postulare simpatie progressiste, ma alcune lettere a Prunas della fine degli anni Quaranta fanno intendere una lontananza dalla visione marxista, che si spiega poi nello spiritualismo ortesiano percepibile in molti dei suoi racconti

[20] «Furono pessime con me. Per venti giorni non mi parlarono, io non sapevo perché, ero disperata. Alla fine una ragazza russa mi disse: ‘Anna, loro dicono che tu hai scritto un libro contro il comunismo’. Era Il mare non bagna Napoli, non era contro il comunismo, raccontava la città di Napoli».

[21] M. Serao, Il ventre di Napoli, cit.

[22] A.M. Ortese, L’infanta sepolta, Milano, Adelphi, 2000.

[23] Zdanov (1896-1948), ideologo della politica culturale sovietica negli anni di Stalin; per zdanovismo si intende la critica a forme d'arte e di cultura considerata come "decadente" o "cosmopolita" e il richiamo, rivolto ad artisti e scrittori, a lavorare nel solco dell'ideologia marxista-leninista. Una perfetta dichiarazione zdanovista, nell'Italia degli anni quaranta, fu quella che il Pci di Pordenone coordinò all'espulsione dal partito di Pier Paolo Pasolini: «Prendiamo spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese».

[24] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957.