Lucia Olini (ADI / SD) - Non siamo nati per leggere, ma leggiamo per vivere

L’educazione alla lettura a scuola

 

Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum

et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile.

Certis ingeniis inmorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat.

Nusquam est qui ubique est.

Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias.[1]

Seneca, Ad Lucilium, 2

 

 

Le metafore del lessico senecano condensano in suggestive sententiae il valore della lettura come nutrimento dell’animo e l’incontro con gli autori come surrogato dell’amicizia. Il fascino che emana da quelle pagine lontane non ha perso la sua forza, ma pare ancora parlarci, e addirittura offrirci uno spunto non occasionale alla riflessione sulle ragioni della lettura a scuola, sulle quali ci interroghiamo quotidianamente, nel difficile compito di realizzare una educazione alla lettura che dialoghi con il curriculum dell’insegnamento linguistico-letterario.

Chiedersi se sia un dovere della scuola, e in particolare degli insegnanti di lettere, ‘educare’ alla lettura, significa infatti anche esplicitare quali compiti attribuiamo alla lettura e quali benefici educativi possano derivare da essa.

La lettura ha nel percorso formativo una funzione strumentale: veicola cioè delle esperienze, non agìte nella concretezza spaziale e corporea, ma tanto importanti da indurre già lo scrittore antico a ricorrere alla metafora del libro ‘amico’. Il mezzo del quale la lettura si serve è il linguaggio, vale a dire un sistema simbolico che riproduce l’esperienza nelle dimensioni immaginativa, memoriale, emotiva.

A partire da questa suggestione senecana dunque intendo articolare questo breve intervento attraverso quattro tappe: lo sviluppo del linguaggio e della comunicazione, la specifica forma della comunicazione letteraria, la conquista della parola scritta, l’utilità della letteratura. Non c’è una successione logico-argomentativa cogente tra questi quattro momenti, che scelgo tra i tanti aspetti che si potrebbero osservare: mi propongo semplicemente di sollecitare qualche riflessione e di contribuire in minima parte a un dibattito sul valore formativo di discipline che troppo spesso vengono messe all’angolo, o considerate esclusivamente per gli apporti che possono dare a un’educazione vagamente sentimentale o a un’infarinatura di cultura generale tanto generica da non interferire sull’acquisizione di saperi più ‘spendibili’ (come si usa dire), ai quali pare debbano essere indirizzate precipuamente le energie intellettuali dei giovani.

La mia tesi è che invece la lettura e l’educazione letteraria siano indispensabili per una formazione scolastica adeguata ai cittadini di ogni tempo e, mi sentirei di dire, agli esseri umani che devono imparare a stare al mondo, tanto più in una realtà in rapida trasformazione come quella attuale.

Per portare un po’ di acqua al mio mulino devo uscire dai confini strettamente disciplinari e ricorrere, pure un po’ corrivamente, ad altri saperi.

 

Una specie che comunica…

Inizio da qualche osservazione sul linguaggio, oggetto di attenzione non solo da parte dei linguisti e degli storici, ma anche dei neuroscienziati e degli studiosi dell’evoluzione: lo studio del linguaggio è uno degli ambiti di ricerca che con maggiore evidenza hanno dimostrato, negli ultimi decenni, i vantaggi della contaminazione dei saperi.[2] Posto che la nascita del linguaggio articolato è un fatto non solo biologico ma anche culturale, sono interessanti le indagini che hanno collegato lo sviluppo del linguaggio con le tappe evolutive attraverso le quali il Sapiens si è imposto sulle altre specie umane.

Yuval Noah Harari, in Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità,[3] scrive che le diverse specie umane convissero a lungo sul pianeta, non apparvero in successione, tuttavia a partire da un certo momento (circa 70 mila anni fa) la specie Sapiens prese il sopravvento. Come poté accadere? Per molto tempo si opposero due tesi sulla questione:

-        quella dell’ibridazione, secondo la quale quando i Sapiens iniziarono a migrare si mescolarono con le altre specie;

-        quella del rimpiazzamento, secondo cui i Sapiens non si fusero con le altre popolazioni umane ma le sostituirono.

Le due tesi comportano conseguenze diverse: se fosse vera la teoria del rimpiazzamento significherebbe che tutti gli esseri umani avrebbero più o meno lo stesso bagaglio genetico, quindi sarebbero infondate tutte le teorie razziste; se invece fosse vera quella dell’ibridazione significherebbe che differenze genetiche tra le diverse popolazioni potrebbero esserci.

Il problema venne risolto nel 2010 quando uscirono i risultati di una ricerca sul genoma di Neanderthal e si scoprì che una porzione di genoma neanderthaliano era presente in tutte le popolazioni, dunque la teoria dell’ibridazione sembrerebbe più fondata. Tuttavia i Neanderthal, così come altre specie, si sono estinti. Harari ipotizza che una piccola parte di ogni specie sopravvisse e si mescolò con Sapiens, la maggioranza delle altre specie venne sterminata:

Ci sono buone ragioni per credere che l’incontro fra i Sapiens e i Neanderthal si sia risolto nella prima e più drastica campagna di pulizia etnica della storia.[4]

 

Come potè avere il sopravvento Sapiens? Grazie al linguaggio.

Lo snodo fondamentale fu quella che Harari chiama la «rivoluzione cognitiva», che consistette nella comparsa di nuovi modi di pensare e comunicare, nel periodo tra 70 e 30 mila anni fa. In questo arco temporale Sapiens si impose sopra tutte le altre specie, e questo avvenne grazie a due caratteristiche del linguaggio: la sua duttilità e la sua possibilità di essere impiegato come mezzo per socializzare. In sostanza l’evoluzione di Sapiens va connessa con la economicità del suo linguaggio e con la sua capacità di realizzare, attraverso il linguaggio, costrutti sociali complessi. Ma Harari attribuisce un ruolo fondamentale alla verbalizzazione di cose che non esistono nella realtà: 

 

Per quanto ne sappiamo, solo i Sapiens sono in grado di parlare di intere categorie di cose che non hanno mai visto, toccato o odorato.

Leggende, miti, dèi e religioni comparvero per la prima volta con la rivoluzione cognitiva. In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: «Attento! Un leone!» Grazie alla Rivoluzione cognitiva, Homo sapiens acquisì la capacità di dire: «Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù». Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens. […]

Il punto è che la finzione ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. […] Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare in maniera flessibile e in comunità formate da moltissimi individui […] I Sapiens sono in grado di cooperare in modi estremamente flessibili con un numero indefinito di estranei. Ecco perché governano il mondo, mentre le formiche mangiano i nostri avanzi e gli scimpanzé sono rinchiusi negli zoo o nei laboratori di ricerca.[5]

 

Lo sviluppo della facoltà immaginativa, dunque, connesso con le forme di linguaggio articolato elaborate dalla specie Sapiens, non solo ha dato origine alla civiltà, portando i vichiani bestioni fuori dallo stato di natura (e questo l’aveva capito già Cicerone!), ma ha permesso lo sviluppo stesso dell’uomo. 

 

… e che immagina

Anche Mario Barenghi in Poetici primati[6] ha di recente focalizzato l’interconnessione tra fattori biologici e fattori culturali nella nascita del linguaggio e dunque nella vicenda evolutiva. La cultura non solo ci ha portato fuori dall’età della pietra, ma, appunto, ci ha resi umani.

 

Ai meccanismi innati di regolazione e di controllo si è aggiunto un insieme di indicazioni acquisite che tendevano ad accumularsi, formando un patrimonio di istruzioni, schemi comportamentali, strutture simboliche. In altre parole: la cultura. La quale intrattiene con l’uomo un rapporto di reciprocità: come scrive Geertz, «senza uomini certamente non c’è cultura, ma allo stesso modo, e cosa più importante, senza cultura non ci sarebbero uomini».[7]

 

Nella lunghissima storia evolutiva del Sapiens le condizioni ambientali hanno determinato mutamenti comportamentali: tutti i comportamenti volti a favorire la socializzazione hanno influito sullo sviluppo cerebrale, e sulla nascita del linguaggio articolato, che, essendo un fatto non solo biologico ma anche culturale, va studiato con gli strumenti dell’antropologia.[8]

Dimensione biologica e dimensione culturale cooperano. Ciò che caratterizza la specie umana è una decisiva dipendenza da fattori extracorporei: l’evoluzione è stata favorita da una sorta di «incompletezza» dell’uomo, cioè «un grado limitato di specializzazione».[9]

In sostanza ci sono due tratti che ci connotano:

-        un certo grado di incompletezza e dunque di bisogno,

-        la aggregazione sociale.

Sull’origine del linguaggio la discussione è ancora aperta. Le posizioni degli studiosi sono diverse: in generale, se le esigenze comunicative sono un tratto innato della specie Sapiens, il linguaggio articolato, esito di un’evoluzione biologica e comportamentale, nasce da un bisogno di organizzare la vita sociale e si avvale della dovizia neurologica del Sapiens. Insieme alla socialità vanno considerate le altre forme di comunicazione corporea, che hanno contribuito a rafforzare i legami tra gli individui all’interno del gruppo.

Nel processo evolutivo, uno dei vantaggi del linguaggio articolato è stato quello di sganciare la comunicazione dall’hic et nunc: il linguaggio cioè ha introdotto nell’orizzonte immaginario l’elemento del tempo.

Il passaggio successivo porta alla letteratura, cioè agli usi creativi del linguaggio. Posto che i cambiamenti derivano dalle risposte a stati di necessità, negli usi poetici del linguaggio si intrecciano una serie di ragioni pratiche, emotive, cognitive.

Seguendo un complesso filo ragionativo, Barenghi arriva a individuare nella letteratura uno «strumento», che dà accesso a saperi complessi di tipo relazionale, autoriflessivo, soggettivo. La letteratura non solo ci dice qualcosa su di noi, ma ci «colloca» rispetto alla realtà.

La letteratura svolge una duplice funzione: allontana dalla esperienza quotidiana, ma allo stesso tempo aiuta ad entrarvi più profondamente. Essa inoltre incrementa le nostre competenze sociali:

 

Le opere letterarie ci consentono appunto di allargare in forma virtuale, per via di simulazione e di immedesimazione, il campo della nostra esperienza, e quindi di arricchire la nostra cassetta di attrezzi di altri strumenti mentali, di nuovi modelli di condotta e/o di interpretazione dei fatti: nuove tracce per imbastire reazioni e risposte, nuove coordinate per dare senso a ciò che accade. Perché noi umani, per natura, rifuggiamo dal caso.[10]

 

Lettori per natura?

Se le più antiche esperienze di uso non funzionale del linguaggio, cioè le prime elaborazioni letterarie, sono sorte nel dominio dell’oralità, da qualche migliaio di anni la letteratura si è insediata saldamente nel terreno della parola scritta, e oggi, per quanto alcune forme di comunicazione artistica continuino a servirsi di altri canali, la lettura è la strada maestra della espressione letteraria, ed è l’oggetto centrale della mia riflessione, al quale finalmente mi avvicino in modo un po’ contrappuntistico ricorrendo a due contributi che, benché siano separati solo da dieci anni, sembrano appartenere a epoche molto diverse della riflessione sull’esperienza del leggere, e tuttavia mi pare che dialoghino fecondamente.

Il primo, più recente, è l’ultimo saggio della neuroscienziata Maryanne Wolf, il secondo è un saggio del 2010 di Vittorio Spinazzola.[11]

Wolf, neuroscienziata cognitivista con una formazione letteraria, dopo aver studiato il funzionamento del cervello che legge e i disfunzionamenti che impediscono l’acquisizione della lettura ,[12] si è concentrata sulle trasformazioni nei circuiti neuronali apportati dall’avvento del digitale.

Mentre la parola, o, meglio, la comunicazione orale, è una delle funzioni umane basilari e dunque appartiene alla serie delle facoltà geneticamente proprie della specie Sapiens, la lettura, spiega la studiosa, non è un’attività naturale o innata: si tratta di un’abilità culturale e non genetica. Non solo: la lettura, conquista relativamente recente della specie Sapiens, ha determinato nella struttura e nelle funzionalità del cervello umano una serie di trasformazioni e di nuove connessioni importantissime, come hanno dimostrato le neuroscienze, che (va detto) in molti casi hanno comprovato con evidenze sperimentali quanto in passato era stato intuito. Così spiega la neuroscienziata:

 

È la capacità di costituire questo numero vertiginoso di connessioni che consente al cervello di andare oltre le sue funzioni originarie per formare un circuito completamente nuovo dedicato alla lettura. Un nuovo circuito cerebrale era necessario, perché leggere non è un processo naturale e neppure innato; in realtà è un’invenzione culturale innaturale che esiste da appena seimila anni. In qualsiasi ‘orologio dell’evoluzione’ la storia della lettura occupa poco più del proverbiale rintocco prima della mezzanotte, eppure questa serie di abilità è così importante nella sua capacità di modificare il cervello umano, che sta accelerando l’evoluzione della nostra specie, nel bene e qualche volta nel male.[13]

 

La relazione con la parola scritta dunque ha significativamente e velocemente (rispetto ai tempi lenti dell’evoluzione) trasformato il nostro cervello, e gli sviluppi che ci attendono accelereranno ulteriormente questi processi.[14]

Il fatto di appartenere a una civiltà della scrittura e della lettura rischia di indurci a dare per scontate cose che non lo sono affatto, e le acquisizioni delle neuroscienze sono ormai bagaglio indispensabile dei docenti che hanno a che fare con la parola scritta. Anche la lettura, insomma, non si può considerare prassi immutabile destinata a perpetuarsi naturaliter nella nostra didattica.

 

Eppure leggiamo

Una decina di anni fa, prima degli sviluppi recenti delle neuroscienze e della conoscenza del funzionamento delle reti neuronali, Vittorio Spinazzola, tra gli altri, raccoglieva nel volume L’esperienza della lettura[15] contributi scritti lungo un arco temporale di circa trentacinque anni. 

Molto attento alla evoluzione della pratica della lettura, e di conseguenza all’influsso che i diversi contesti socio-culturali esercitano su di essa e sul rapporto tra lettore e autore, Spinazzola prende avvio da una ricognizione dei tratti della modernità, ritornati attuali dopo la stagione effimera del postmoderno.

Caratteristica dell’età moderna è la fluidificazione e diversificazione dell’orizzonte letterario, non più unitario come era nell’antichità.[16]

Nel capitolo Lavoro letterario e valori critici la disamina della situazione attuale, in cui il mercato si è imposto come uno dei protagonisti della ricezione letteraria, evidenzia l’importanza della scuola e la funzione degli insegnanti:

 

La crisi del sistema scolastico, specificamente per quanto riguarda il sapere umanistico, non è che la manifestazione ultima e più clamorosa della crisi generale che ha ormai investito tutti gli aspetti dell’istituzione letteraria progettata secoli fa dalla borghesia, nella sua fase ascensionale. Insegnare, e apprendere, la letteratura è diventato sempre più arduo, da quando la teoria e la militanza critica si sono rivelate incapaci di tenere il passo con la complessità dei fenomeni di acculturazione espressiva caratteristica delle società borghesi industrialmente evolute.[17]

 

Entra nel vivo delle pratiche di lettura nel capitolo La fatica di leggere, tenendo conto sia delle dinamiche commerciali cui oggi la letteratura deve sottostare, sia degli aspetti socio-economici, a causa dei quali non tutti possono godere in pari modo del diritto alla lettura.

Per quanto le letture scolastiche abbiano una dimensione prescrittiva, e perciò spesso respingente, la lettura esige di assoggettarsi a un sistema di norme, come ogni attività che richiede il possesso di un codice.

Alla domanda di senso fondamentale (perché si legge) Spinazzola risponde che si legge per rispondere a un bisogno, colmare una mancanza: «L’immaginazione consente un’evasione da se stessi, che coincide con il ritrovamento della propria personalità».[18]

La lettura, inoltre, aiuta anche a ricostituire il legame individuale con la realtà esterna.

Sono molteplici i piaceri della lettura, che, nel caso dei testi letterari, implicano anche il godimento della bellezza.

La dimensione dell’immaginazione è lo snodo che resta centrale anche nella riflessione didattica. Alla scuola spetta dunque il compito di favorire lo sviluppo di una facoltà che, nel contesto comunicativo e economico attuale, spesso è mortificata, ad onta della molteplicità parossistica degli stimoli percettivi cui gli adolescenti sono sottoposti. 

La lettura ha una natura discorsiva e ricorsiva, richiede l’esercizio della memoria, e si accampa tra due coordinate, ugualmente importanti: il coinvolgimento emotivo e la riflessione conoscitiva.

Di conseguenza nella lettura c’è sempre una dimensione di argomentazione, che richiede l’esercizio di analisi:

 

L’ermeneutica moderna insiste a giusto titolo sulla circolarità del procedimento che lega e rinvia la puntualizzazione del particolare significante alla ricostruzione dell’insieme che gli dà significato: non per niente “comprendere” vuol dire appunto collegare. Ma questo circolo minaccia di diventare vizioso, quando si ritenga che l’operazione interpretativa abbia sempre e solo un carattere di scientificità, tradizionalmente intesa, senza lasciar luogo a fattori intuitivi.[19]

 

L’evoluzione sociale ha portato anche a un cambiamento nella percezione della lettura, che pare trovarsi a un bivio tra intrattenimento e utilità. Da un lato si cerca una lettura leggera e superficiale, che non impegni e che piuttosto diverta: 

 

In una società industriale urbana, caratterizzata dal pluralismo e dalla permissività, […] sono le preoccupazioni etiche, didascaliche, politiche a venir colpite da biasimo, mentre la lettura estetica inclina a trapassare, a lasciar luogo a una lettura ludica, volta solo a favorire la divagazione e il rilassamento fisiopsichico. Per tal modo, la lettura migliore è senz’altro fatta coincidere con la meno faticosa. La degradazione e l’impoverimento dell’atto di leggere sono indiscutibilmente gravi. Non bisogna però spaventarsene troppo.

La lettura letteraria assolve sempre anche una funzione ludica.[20]

 

D’altro lato, benché siamo ormai lontanissimi dall’epoca dell’impegno e degli intellettuali legislatori,[21] non è tramontato il dibattito sulla ‘produttività’ della lettura:

 

In questo orizzonte la questione conclusiva, ossia la produttività della lettura, va impostata sulla coincidenza maggiore o minore di due risultati: la modifica della consapevolezza di sé che il lettore aveva prima di cominciar a leggere; e il cambiamento dell’immagine dello scrittore, quale egli se la configurava in via preliminare. […]

Davvero produttiva è la lettura che, appagando i miei desideri, me ne fa germinare di nuovi, in quanto mi induce a rimetter in causa tutto me stesso, nei miei criteri di sensibilità e di gusto letterario così come nella mia concezione del mondo.[22]

 

La letteratura ‘serve’?

Il riconoscimento di una utilità della lettura non significa di per sé attribuire alla letteratura un ruolo ancillare; tuttavia è tangente al tema dell’impegno, che è tornato ad essere oggetto di discussione grazie al recente pamphlet di Walter Siti che, con la consueta intelligenza, non priva di una postura provocatoria, si esprime ‘contro l’impegno’.[23] La disamina di Siti è ampia e sostenuta da dovizia di esempi. Prende posizione contro la consuetudine, ormai invalsa, di domandarsi  non tanto che cosa è la letteratura, ma piuttosto a che cosa serva, se essa cioè abbia una qualche efficacia.  Contesta l’idea che alla letteratura si chieda un ‘messaggio’ più che lo stile, senza, ormai, la carica politica che accompagnava l’engagement sartriano. Critico anche contro quelle che sospetta essere mode corrive (la biopoetica, il darwinismo letterario), Siti riporta al centro la barra del timone, e sottolinea che al cuore dell’esperienza letteraria c’è l’avventura conoscitiva.

Ricorda la riflessione di Gino Roncaglia sulla granularità del digitale[24], che ostacola la complessità. E difende i diritti di una lettura lenta e integrale.[25]

 

Il maggiore obiettivo della letteratura – scrive -  non è la testimonianza ma l’avventura conoscitiva. E non è un problema di «purezza» ma quasi il contrario, di ambiguità: soltanto la letteratura, tra i vari usi della parola, può affermare una cosa e contemporaneamente negarla; perché ambigua è la nostra psiche, ambiguo il nostro corpo – le ambiguità rimosse possono portare a esiti controproducenti, a false euforie. L’ambiguità, lo spessore, la polisemia fanno emergere quel che non si sa ancora; per questo la letteratura non può prestarsi a fare da altoparlante a quel che già si crede giusto. La si umilia, così; per questo dare importanza allo stile non è diserzione – non tutte le battaglie si combattono con fucile ed elmetto. […] Dal basso del mio non essere un cittadino esemplare, e forse nemmeno una bella persona, formulo comunque l’ipotesi che un tipo oggi maggioritario di engagement, nell’ansia di andare oltre la letteratura, finisca invece per non sfruttarne a pieno le potenzialità, insomma per farle del male.[26]

 

Conclude quindi che «Il vero bene che la letteratura può fare agli uomini» è «di inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa».[27] Sottoscrivo queste considerazioni, riservandomi qualche dubbio sulla questione della relazione tra letteratura e testimonianza, pensando ad esempio alle forme ibride, nelle quali la testimonianza assume piena dignità di elaborazione letteraria.[28]

Siti parla di avventura conoscitiva, e mi pare una formula militante cui aderire senza riserve, anche nella faticosa navigazione a vista che si intraprende quotidianamente in classe. A sostegno della insostituibile efficacia di questa esperienza, voglio convocare due grandi scrittori del tardo Novecento, che, da posizioni diversissime, hanno saputo interpretare il senso che la letteratura continua a mantenere nell’accompagnare la vita di ogni essere umano. Innanzitutto la voce di Mario Vargas Llosa nel discorso del Nobel:

 

La letteratura è una rappresentazione fallace della vita che, tuttavia, ci aiuta a capirla meglio, a orientarci in quel labirinto in cui nasciamo, viviamo e moriamo. Essa ci risarcisce delle disgrazie e delle frustrazioni che la vera vita ci infligge, e grazie a essa riusciamo a decifrare, per lo meno parzialmente, quel geroglifico che è l’esistenza per la maggior parte degli esseri umani, soprattutto per noi che coltiviamo più dubbi che certezze, e confessiamo la nostra perplessità rispetto ad argomenti come la trascendenza, il destino individuale e collettivo, l’anima, il senso o il non-senso della storia, tutto ciò che è più vicino o più lontano rispetto alla conoscenza razionale.[29]

 

Ma anche Italo Calvino, con un’Ironia non priva di profondità, 65 anni fa scriveva nel saggio Il midollo del leone:[30]

 

Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare a impararlo.[31]

 

Forti di questa fiducia nel potere conoscitivo, sociale e dunque politico, della letteratura, continuiamo a portare a scuola i libri, a combattere una battaglia per la quale vale la pena spendersi, tentando di negoziare il lavoro con gli studenti che ci sono affidati e con la consapevolezza che il nostro statuto di intellettuali non ci permette di arrenderci, di rinunciare, ma esige il coraggio anche di essere démodé se necessario, e di continuare a svolgere quel compito fondamentale di mediazione che dà consistenza alla funzione docente.

Chiudo allora circolarmente ritornando all’immagine senecana dalla quale sono partita, e prendo a prestito l’immagine da una grande studiosa, Lina Bolzoni, che, nel saggio dedicato alla lettura nell’età moderna Una meravigliosa solitudine, scrive che la lettura è da intendersi «come dialogo con i libri, come incontro con gli autori che hanno dato loro vita».[32]

 

 

15 febbraio 2022

 


[1] «Bada inoltre che, in codesta lettura di molti autori e di libri di ogni genere, tu non vada vagando dall’uno all’altro. Devi acquistare dimestichezza con autori scelti e nutrirti di essi, se vuoi trarne qualcosa che rimanga stabilmente nell’animo. Chi vuol essere da per tutto, non sta in nessun luogo. Chi passa la vita in continuo vagabondaggio, troverà molti ospiti, ma nessun vero amico», L. A. Seneca, Lettere a Lucilio, trad. di Giuseppe Monti, Milano, Rizzoli, 1985, pp. 60-61. L’immagine dei libri come amici peraltro è topica nel mondo classico e ricorre anche in Cicerone.

[2] Per qualche essenziale riferimento bibliografico su questo specifico ambito mi limito a citare il sapiente contributo di Remo Ceserani, Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline, Milano, Bruno Mondadori, 2010; Lamberto Maffei, Elogio della parola, Bologna, Il Mulino, 2018; Stefano Redaelli, Klaus Colanero, Le due culture. Due approcci oltre la dicotomia, Roma, Aracne Editrice, 2016; Terza cultura. Idee per un futuro sostenibile, a cura di Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo, Milano, Il Saggiatore, 2011; Humanities e altre scienze. Superare la disciplinarità, a cura di Monica Cini, Roma, Carocci, 2017.

[3] Firenze Milano, Giunti Bompiani, 2019.

[4] Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi, cit., p. 29.

[5] Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi, cit., pp. 36-37.

[6] M. Barenghi, Poetici primati, Saggio su letteratura e evoluzione, Macerata, Quodlibet, 2020.

[7] Ivi, p. 50.

[8] «Prima di affrontare la questione della nascita del linguaggio – o meglio, del decisivo investimento sulla comunicazione linguistica che in un arco di tempo più o meno lungo ha scavato una distanza apparentemente incolmabile tra gli umani e gli altri vertebrati – occorre una precisazione preliminare. Quando entra in gioco il linguaggio, è chiaro che all’evoluzione naturale (e qui s’intenda: biologica) s’è aggiunta un’evoluzione di altro tipo, cioè quella culturale. L’evoluzione culturale riguarda i tratti comportamentali che non dipendono da modifiche dell’organismo, ma che sono acquisiti tramite apprendimento. Ebbene, per quanto concerne il rapporto natura / cultura la cosa migliore è chiedere lumi all’antropologia, che da sempre si occupa di tali questioni. Un limpido riepilogo di un dibattito ormai plurisecolare è offerto da Francesco Remotti, in un volume del 2013 dall’eloquente titolo Fare umanità.» M. Barenghi, Poetici primati, cit., p. 44.

[9] Ivi, p. 49. A proposito della “incompletezza” Barenghi ricorda l’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola 1486 (p. 46).

[10] Ivi, pp. 119-120. Poco oltre Barenghi tratta la relazione tra la narrativa e la storia (p. 122), e introduce la riflessione sull’empatia, tema cruciale per gli studi evoluzionistici: anche in chiave evoluzionistica risulta vantaggioso anteporre il bene collettivo al tornaconto individuale (pp. 123 e ss.). Negli ultimi anni lo sviluppo delle neuroscienze e la loro applicazione all’ambito narratologico ha frenato il prevalere della dimensione cognitiva e ha dato maggiore spazio a quella relazionale e empatica. In questa direzione si muovono anche numerosi studi di M. Nussbaum.

[11] M. Wolf, Lettore vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale, Milano, Vita e pensiero, 2018; V. Spinazzola, L’esperienza della lettura, Milano UNICOPLI, 2010.

[12] Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Milano, Vita e pensiero, 2009.

[13] M. Wolf, Lettore vieni a casa, cit., p. 22.

[14] Cfr. R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari, Laterza, 2000; Id., Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Milano, Garzanti, 2012; S. Dehaene, I neuroni della lettura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009; R. Casati, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Roma-Bari, Laterza, 2013.

[15] V. Spinazzola, L’esperienza della lettura, cit., p. 16.

[16] Ivi, p. 9.

[17] Ivi, p. 16.

[18] Ivi, p. 106.

[19] Ivi, p. 118.

[20] Ivi, pp. 132-133.

[21] Cfr. Zygmunt Baumann, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

[22] V. Spinazzola, L’esperienza della lettura, cit., p. 121.

[23] W. Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Milano, Rizzoli, 2021.

[24] Cfr. G. Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Roma-Bari, Laterza, 2010; Id., L’età della frammentazione. Cultura de libro e scuola digitale, Roma-Bari, Laterza, 2018.

[25] Cfr W. Siti, Contro l’impegno, cit., p. 46. Sul libro di Siti si è espresso Claudio Giunta, che in Su «Contro l’impegno» di Walter Siti (u.c. 19 dicembre 2021) lamenta il piglio troppo blando e indulgente del saggio nei confronti della letteratura di consumo che sta dilagando e scala le classifiche. Giunta peraltro fa cenno anche alla scuola e alla possibilità che essa ponga un argine alla deriva verso la semplificazione e la sciatteria: «Provvederà la scuola a correggere, a riorientare? Può darsi, ma a me pare che anche a scuola, forse soprattutto a scuola, la pressione dell’ambiente culturale mediatizzato tolga sempre più campo alle difficili virtù predicate da Siti (complessità, mediazione, ambiguità) e tenda sempre più spesso a dissolvere la letteratura in quella pedagogia morale che Siti, a ragione, trova così respingente».

[26] Ivi, pp. 89-90.

[27] Ivi, p. 261.

[28] Cfr. G. Alfano, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014; e anche A. Manganaro, Le altre voci dell’antiepopea di Svetlana Aleksievič, in Id., Per la didattica della letteratura, Acireale Roma, Bonanno, 2020, pp. 103-119.

[29] M. Vargas Llosa, Elogio della lettura e della finzione, Torino Einaudi 2010, p. 30.

[30] Conferenza letta a Firenze il 17 febbraio 1955 per la sezione fiorentina del Pen Club su invito di Anna Banti; ripetuta in seguito in varie città italiane. Pubblicata su «Paragone», n. 66, giugno 1955.

[31] I. Calvino, Il midollo del leone, in Id., Una pietra sopra, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano, 1995, pp. 21-22.

[32] L. Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 2019, p. XVI. Dato che spesso gli autori appartengono al passato, la lettura si configura anche come un «dialogo con i morti», una specie di «rito negromantico»: l’immagine è sicuramente suggestiva, come se leggendo noi riportassimo in vita i defunti.