Tre esempi di paura nel racconto fantastico latino
Nell’ambito del corso di Didattica della Lingua e della Cultura Latina tenuto dalla Prof.ssa Lucia Pasetti (Università degli Studi di Bologna) nell’A.A. 2014-2015 e incentrato sul ‘fantastico’ nella letteratura latina di età imperiale, abbiamo avuto modo di analizzare alcuni testi in cui il tema della paura assume una notevole rilevanza. A partire da tali testi, che sono stati oggetto delle nostre attività di laboratorio, abbiamo cercato di elaborare un percorso didattico fruibile da insegnanti e studenti di scuola media superiore. L’intento è fornire gli strumenti adatti per cogliere gli elementi essenziali del modo fantastico, attraverso una selezione mirata della bibliografia specifica e della documentazione. [1]
Come è noto, il concetto di fantastico ha trovato la prima teorizzazione sistematica nel saggio di Tzvetan Todorov Introduction à la littérature fantastique (1970)[1] nel quale vengono colti i caratteri fondamentali di un genere letterario con uno sviluppo storico preciso, limitato ad un settore della narrativa europea di età positivista. La caratteristica più evidente messa a fuoco da Todorov è la contiguità tra la realtà quotidiana e il sovrannaturale: nella narrativa fantastica si verifica un evento che non si può spiegare con le leggi del mondo naturale; chi percepisce l’avvenimento vive un’hésitation tra due possibili interpretazioni di quanto accade: potrebbe trattarsi di un fatto anomalo, ma che ammette una spiegazione razionale (ad esempio, il fenomeno percepito potrebbe essere il risultato di un’allucinazione o di un accesso di follia), oppure di un’irruzione del puro soprannaturale nella vita quotidiana. Tra i tanti contributi all’ampia riflessione sul fantastico innescata da Todorov[2], ci sembra utile richiamare quello di Remo Ceserani che mette in discussione la todoroviana definizione del fantastico come genere letterario, proponendo piuttosto quella, più flessibile e meno restrittiva, di modo letterario[3]: come il modo comico rispetto al genere commedia, l’elegiaco rispetto all’ elegia, il satirico rispetto alla satira, anche il fantastico attraversa generi ed epoche diverse. Sulla base di questo presupposto è possibile, dunque, rintracciare i procedimenti che caratterizzano il modo fantastico in diverse espressioni della letteratura moderna, come pure nelle letterature antiche. In questo contributo prenderemo in esame tre esempi latini di racconto fantastico, tratti rispettivamente dal Satyricon di Petronio (in particolare dalla Cena Trimalchionis, 62), dalle Metamorfosi apuleiane (21-30), e da una lettera di Plinio il Giovane (7.27). In tutti e tre i casi si tratta di storie fantastiche in cui entrano in gioco stregonerie, lupi mannari e fantasmi, ma soprattutto quei procedimenti tipici del fantastico che enfatizzano nel lettore la percezione della paura. Ad esempio, in Apuleio e Petronio, la narrazione è condotta in prima persona direttamente dal protagonista in modo da favorire la proiezione delle paure del narratore sul lettore, inevitabilmente portato ad identificarsi con il narratore-protagonista. Inoltre, in tutti e tre i racconti emerge la presenza di un oggetto mediatore [4] , una prova concreta (e perturbante) del contatto del protagonista con il sovrannaturale: un oggetto, dunque, che attesta un pauroso passaggio di soglia. Infine, nelle narrazioni antiche è possibile individuare la tipica struttura a climax: una concatenazione di fatti che da un evento iniziale conduce fino alla catastrofe, attraverso un crescendo di inquietudine che culmina nel terrore.
Nei capp. 21-30 del libro II delle Metamorfosi si colloca la terrificante novella di Telifrone, uno dei tanti narratori secondari che si inseriscono nella cornice del romanzo apuleiano. Durante una cena in casa della ricca Birrena a cui partecipa anche il protagonista Lucio, Telifrone, anch’egli ospite della matrona, inizia il suo racconto maledicendo i fusces aves (Apul. met. 2, 21, 3) che tanto dolore gli hanno arrecato, e facendo così già presagire agli altri commensali e al lettore un finale tragico per la sua avventura[5]. La vicenda è ambientata a Larissa, in Tessaglia, dove Telifrone era giunto, ancor giovane, diversi anni prima. Al suo arrivo, trovandosi a corto di denaro, non aveva esitato ad accettare l’offerta tanto curiosa quanto remunerativa di un anziano del posto: mille sesterzi per vegliare un defunto una notte intera e impedire alle streghe di deturparne il corpo. Il giovane, che stenta a ritenere vera una cosa del genere, viene prontamente messo in guardia da un passante (2, 23, 2-3):
“Iam primum” respondit ille “perpetem noctem eximie vigilandum est exertis et inconivis oculis semper in cadaver intentis nec acies usquam devertenda, immo ne obliquanda quidem, quippe cum deterrimae versipelles in quodvis animal ore converso latenter adrepant, ut ipsos etiam oculos Solis et Iustitiae facile frustrentur; nam et aves et rursum canes et mures immo vero etiam muscas induunt” [6].
Nell’antichità, la tradizione indicava la Tessaglia come terra di streghe e fattuchiere, esseri spaventosi abituati a compiere terribili rituali servendosi di cadaveri freschi e formule magiche capaci di evocare potentissime forze oscure da cui ottenere poi favori o predizioni[7]. Celeberrimo è, ad esempio, l'episodio dell'incontro tra Sesto Pompeo e la maga Eritto, nel libro VI del Bellum Civile lucaneo, nel quale il destino della fazione pompeiana viene rivelato da un soldato morto riportato in vita dalla strega.
Il nesso deterrimae versipelles fa riferimento alle effettive trasformazioni delle streghe[8]. Versipellis (da verto + pellis) compare in un contesto analogo anche in Plauto (Amph. 123 e Bacch. 657) e in Lucilio (670 M.); in Petronio (62, 13) e in Plinio il Vecchio (nat. 8, 80), invece, è riferito al lupo mannaro[9].
La prospettiva di un lauto guadagno e l'ardore giovanile convincono Telifrone ad accettare l’incarico. Chiuso a chiave nella camera ardente, il giovane inizia la sua lunga veglia di difesa contro le streghe, che tanto abili sono nel tramutarsi in qualunque essere vivente pur di raggiungere i loro scopi. Al calare delle tenebre, però, accade qualcosa di inquietante (2, 25, 2-5):
cum ecce crepusculum et nox provecta et nox altior et dein concubia altiora et iam nox intempesta. Mihique oppido formido cumulatior quidem cum repente introrepens mustela contra me constitit optutumque acerrimum in me destituit, ut tantillula animalis prae nimia sui fiducia mihi turbarit animum. Denique sic ad illam: “Quin abis,” inquam “inpurata bestia, teque ad tui similes musculos recondis, antequam nostri vim praesentariam experiaris? Quin abis?” Terga vortit et cubiculo protinus exterminatur. Nec mora, cum me somnus profundus in imum barathrum repente demergit, ut ne deus quidem Delphicus ipse facile discerneret duobus nobis iacentibus quis esset magis mortuus[10].
Si verifica qui il primo contatto con il soprannaturale. Telifrone, che con spavalderia aveva accettato il lavoro bollando gli avvertimenti dell’anziano come ineptiae e nugae (Apul. met. 2, 23, 4), inizia a perdere il suo ardore. Con la successione di brevi sintagmi (si noti il ricorso al cum inversum: cum ecce, con ellissi del verbo ad indicare il brusco arrivo della notte, e cum repente) l’autore sottolinea l’escalation della tensione drammatica e la subitanea successione degli eventi. La paura che Telifrone inizia a provare in questo frangente è vera e propria formido, il «timor panico che paralizza»[11]. Questo processo viene reso efficacemente dal comparativo cumulatior, che indica l’accrescersi della paura[12]. Per farsi forza, il giovane si rincuora con delle cantationes, proprio come Nicerote nell’episodio del Satyricon di Petronio analizzato oltre (cfr. infra).
Improvvisamente, come tutto quello che avviene nel corso di questa notte, nella camera ardente entra una donnola dall’aspetto sinistro (nel sintagma repente introrepens, l’allitterazione dell’aspro suono /r/ indica la ripugnanza di Telifrone nei confronti della mustela), che guarda il giovane con un’intensità tale da farlo sentire a disagio. Il racconto mette in luce come, a dispetto delle piccole dimensioni (la donnola è tantillula, diminutivo di terzo grado di tantus, nonché hapax apuleiano) e così fiducioso di sé (prae nimia sui fiducia), la bestiola provochi una grande tensione. Del resto, come osserva Mautizio Bettini[13], nella cultura popolare europea la donnola appare spesso come animale latore di sventura: in diverse aree linguistiche le vengono attribuite denominazioni eufemistiche col fine di ingraziarsela (donnola in italiano, belette in francese...), segni di un vero e proprio tabù linguistico. Il nome latino mustela è di origine incerta, ma sicura pare la sua associazione a livello etimologico con mus (topo). Il motivo risiede non solo nel fatto che i due animali vengono tradizionalmente indicati come nemici (la donnola è predatrice di topi), ma anche perché condividono il medesimo habitat. Non, è un caso, dunque, che Telifrone inviti l’animale a tornare tra i topi suoi simili [14].
Non può quindi trattarsi di un innocuo animale: quanto detto prima sulla capacità metamorfiche delle streghe suggerisce al lettore che si tratti effettivamente di una strega trasformata.
Memore delle parole del vecchio, Telifrone scaccia la bestia in malo modo definendola impurata, insulto ricorrente nel linguaggio dei comici[15], ma ecco che all’improvviso un sonno pesantissimo cala su di lui. La subitaneità di questo sonno indotto, resa dal nesso nec mora, ricorda da vicino le parole del passante udite dal giovane la mattina precedente (Apul. met. 2, 22, 2-6), che paiono alfine essersi avverate. Il ricordo di quell’ammonimento induce il lettore a temere il peggio, ma il mattino seguente avviene un inatteso colpo di scena: al risveglio, infatti, il timore che le streghe abbiano deturpato il cadavere attanaglia Telifrone, che si affretta a controllare l’entità dei danni provocati dalla sua negligenza, ma una sorpresa lo attende (2, 26, 2):
Tandem expergitus et nimio pavore perterritus cadaver accurro et admoto lumine revelataque eius facie rimabar singula, quae cuncta convenerant[16].
Contro ogni aspettativa, il cadavere è intatto! Nonostante il profondo sonno che ha colto Telifrone, le streghe non hanno deturpato il corpo. Egli dunque non dovrà risarcire i famigliari, ma anzi gli spetterà un lauto compenso di ben mille sesterzi. Questa volta la paura che coglie il giovane è il pavor, ovvero la manifestazione degli «aspetti fisici del timore, il batticuore e il brivido»[17].
Apparentemente, la veglia sembra essersi conclusa nel migliore dei modi: il guardiano viene calorosamente ringraziato dalla famiglia per la sua diligenza e pagato secondo quanto pattuito, ma una sua parola di troppo – che risulta di pessimo augurio – fa si che venga cacciato via dai presenti in malo modo. Pesto e malconcio, il giovane si ritrova poco dopo nella piazza della città, dove sta avvenendo il trasporto del feretro. Il funerale è interrotto dallo zio materno del defunto che accusa di veneficio la vedova; la donna, d’altra parte, si dichiara innocente. Per provare le proprie affermazioni, l’anziano decide allora di ricorrere nientemeno che alla testimonianza del defunto, che tornerà in vita grazie alle arti magiche del sacerdote egizio Zatchlas. Il sacerdote è una figura, per molti versi, eterodossa: è giovane, le modalità da lui seguite nell’attuare il rito non sono le più usuali[18] e, cosa forse ancora più strana, eleva la sua preghiera tacitus, come fanno i maghi[19]. Zatchlas compie il suo rituale e il morto, seppur a malincuore, torna in vita, confermando le accuse mosse dallo zio a sua moglie, che però continua a negare sostenendo che la testimonianza del defunto è inaffidabile. A questo punto, per provare la sua veridicità, il morto redivivo racconta quello che è successo veramente la notte precedente (2, 30, 1-8):
“Dabo,” inquit “dabo vobis intemeratae veritatis documenta perlucida et quod prorsus alius nemo cognoverit indicabo.” Tunc digito me demonstrans: “Nam cum corporis mei custos hic sagacissimus exsertam mihi teneret vigiliam, cantatrices anus exuviis meis inminentes atque ob id reformatae frustra saepius cum industriam eius fallere nequivissent, postremum iniecta somni nebula eoque in profundam quietem sepulto me nomine ciere non prius desierunt quam dum hebetes artus et membra frigida pigris conatibus ad artis magicae nituntur obsequia. hic utpote vivus quidem sed tantum sopore mortuus, quod eodem mecum vocabulo nuncupatur, ad suum nomen ignarus exsurgit, et in inanimis umbrae modum ultroneus gradiens, quamquam foribus cubiculi diligenter obclusis, per quoddam foramen prosectis naso prius ac mox auribus vicariam pro me lanienam sustinuit. Utque fallaciae reliqua convenirent, ceram in modum prosectarum formatam aurium ei adplicant examussim nasoque ipsius similem comparant...” His dictis perterritus temptare formam adgredior. Iniecta manu nasum prehendo: sequitur; aures pertracto: deruunt. Ac… frigido sudore defluens evado [20].
Non sfugge a Stramaglia, che in un bell’articolo del 2003[21] analizza gli elementi di magia presenti in questo episodio, come la prova offerta dal redivivo per dimostrare la propria sincerità, presenti qualche difetto. Zatchlas, infatti, come rileva Anna Drake[22], sfrutta l’espediente tipicamente forense della falsa inferenza: se una delle prove offerte è vera, allora lo sono anche tutte le altre, così, se è vero che le orecchie e il naso di Telifrone sono di cera, allora è vero anche che la moglie è colpevole di veneficio. Per quanto non vi sia ragione di dubitare delle parole del morto, tali prove servono unicamente a confermare che quanto temuto da Telifrone è effettivamente avvenuto: le streghe, nonostante la sua veglia, sono riuscite ad appropriarsi di ciò di cui necessitavano, e magari – immagina – proprio sotto le mentite spoglie della donnola che aveva scacciato. La scoperta della terrificante realtà avviene in un crescendo di angoscia condiviso dal lettore e dal personaggio: le parole del defunto rivelano come il suo lento risveglio al richiamo delle streghe sia stato bruscamente interrotto da Telifrone che, in uno stato di trance, è andato incontro alla mutilazione del viso al posto suo. Il «superamento dell'esitazione», secondo Todorov, o il cosiddetto «passaggio di soglia», secondo Lugnani, avviene nel momento in cui lo sventurato Telifrone, colto da gelido terrore per le parole del cadaver, si porta la mano al naso e alle orecchie e scopre con angoscia che sono simulacri di cera, veri oggetti mediatori del racconto. La vittima delle exitiabiles operae delle streghe è stato proprio lui, Telifrone, che per un’amara coincidenza, o forse per i fusces aves citati in Apul. met. 2, 21, 3 (cfr. supra), si trova ad essere omonimo del morto: proprio questa omonimia ha reso possibile lo scambio di persona. In preda al terrore e pervaso da sudore freddo – entrambi elementi tipici del racconto dell’orrore – fugge senza voltarsi indietro e senza far più ritorno a casa per la vergogna. Il terrore di Telifrone è totale, tant’è che nel finale della narrazione egli si definisce perterritus, aggettivo in cui il preverbio perfettivo indica lo stato d’ansia assoluto conseguente alla scoperta dei terribili avvenimenti di cui è stato inconsapevole e sfortunato protagonista.
Encolpio, Ascilto e Gitone siedono alla tavola di Trimalchione e dei suoi ospiti, nel corso della sontuosa cena. Per intrattenere i convitati al banchetto, il padrone di casa esorta con lusinghe il liberto Nicerote a raccontare una precisa vicenda a lui accaduta, evidentemente già narrata in altre occasioni. Viene inaugurata, dunque, una breve sezione della cena petroniana[23] dedicata a due novelle di paura: al racconto di Nicerote su un licantropo segue infatti la storia di streghe, narrata dallo stesso Trimalchione (63). Nicerote dichiara esplicitamente l’intento del suo racconto: divertire i presenti (itaque hilaria mera sint), o almeno alcuni di loro; il narratore liberto teme infatti lo snobismo degli scholastici Encolpio, Ascilto e Gitone, che costituiscono parte del suo pubblico, ed esprime il timore che possano deriderlo. Stando a Plinio il Giovane[24], gli antichi usavano intrattenere gli ospiti nelle occasioni conviviali con la narrazione di varia miracula: l’espressione attinta dalla paradossografia vuole sottolineare la natura fuori dall’ordinario e incredibile dei fatti oggetto della narrazione, il cui scopo è suscitare forte emozione nell’uditorio. Avvalorano la consuetudine di questa pratica anche le testimonianze di altre pagine letterarie, tra cui il già menzionato racconto di Telifronte nelle Metamorfosi di Apuleio[25], narrato proprio nel corso di un convivio.
Il narratore petroniano chiarisce subito che la storia risale agli anni ormai remoti della giovinezza, quando lui era ancora uno schiavo privo di mezzi. I dettagli menzionati conferiscono realismo[26] e attuano una precisa strategia di autenticazione: garantire veridicità e massima oggettività è infatti una prerogativa del racconto fantastico antico, in cui il narratore, nell’intento di ottenere la fiducia del pubblico, sottolinea continuamente che i fatti narrati sono veri e realmente accaduti[27]. I richiami minuziosi a tempi e luoghi, e la dichiarazione di avere assistito o partecipato in prima persona agli eventi sono tra i procedimenti extradiegetici[28] più spesso sfruttati a questo scopo. Il narratore racconta dunque di essersi invaghito di Melissa, la moglie di un oste; quando viene a sapere della morte del locandiere, decide di farle visita per confortarla, approfittando dell’assenza del padrone. A tarda ora si mette in cammino in compagnia di un ospite, un soldato, che per caso alloggia a casa del suo dominus (62, 3-4):
Erat (…) miles, fortis tamquam Orcus. [3] Apoculamus nos circa gallicinia, luna lucebat tamquam meridie. [4] Venimus inter monimenta: homo meus coepit ad stelas facere, sed ego eo cantabundus et stelas numero[29].
Fortis tamquam Orcus,un’espressione dal sapore proverbiale – Gianotti traduce con «forte come la morte» – introduce il misterioso compagno di Nicerote, che viene così sottilmente associato al mondo infero. I due personaggi, del resto, appaiono fin da subito immersi in un’atmosfera ominosa, che lascia presagire sviluppi inquietanti: il loro cammino comincia di notte, il momento che, nel folklore romano è il più propizio per l’intervento di agenti soprannaturali. In particolare, la vicenda inizia circa gallicinia: il termine(composto di gallus e canĕre) indica le due ore successive alla mezzanotte, l’ora antelucana in cui appunto il gallo inizia a cantare[30], quella stessa ora che in Grecia veniva definita lykophos, «la luce dei lupi», perché ritenuta particolarmente favorevole alla trasformazione dei licantropi. Inoltre la luna è piena, come sottolinea il sintagma allitterante luna lucebat: un’altra condizione che agevola lo scatenarsi delle forze magiche, secondo le credenze tradizionali. Infine, Il luogo in cui giungono Nicerote e il soldato è un cimitero, spazio liminare, al confine tra mondo dei vivi e dei morti, e dunque più che mai adatto a favorire il contatto con quelle forze infere che forniscono l’energia necessaria all’attuazione della magia; i monimenta citati potrebbero peraltro alludere alle statue collocate lungo la via Appia, luogo nel quale secondo le credenze tradizionali si potevano manifestare i lupi mannari. In questa situazione inquietante, la tranquillità d’animo di Nicerote sembra vacillare, al punto che l’uomo cercare di esorcizzare la paura canticchiando, proprio come fa Telifronte nella novella di cui è protagonista[31]; Nicerote si mette poi a contare le lapidi come macabro passatempo, mentre il compagno urina. L’ atmosfera, già satura di inquietudine, viene poi irrimediabilmente sconvolta da un avvenimento straordinario (62, 5-9):
[5] Deinde ut respexi ad comitem, ille exuit se et omnia vestimenta secundum viam posuit. mihi anima in naso esse, stabam tamquam mortuus. [6] At ille circumminxit vestimenta sua, et subito lupus factus est. nolite me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium tanti facio. [7] Sed, quod coeperam dicere, postquam lupus factus est, ululare coepit et in silvas fugit. [8] Ego primitus nesciebam ubi essem, deinde accessi, ut vestimenta eius tollerem: illa autem lapidea facta sunt. [9] Qui mori timore nisi ego? Glaudium tamen strinxi et † matavitatau † umbras cecidi, donec ad villam amicae meae pervenirem[32].
L’evento soprannaturale di cui già si percepiva il timore, alla fine, si compie: il soldato si trasforma improvvisamente in un lupo mannaro. Al prodigio segue l’oscura e misteriosa pietrificazione degli abiti dell’uomo. La metamorfosi del licantropo è ifatti preparata da un rito magico: l’uomo si spoglia dei vestiti e crea un cerchio magico[33] volto a proteggerlo durante la trasformazione. La subitaneità del processo è sottolineata dall’incalzante sequenza di indicativi perfetti (respexi, exuit, posuit, circumminxit): si susseguono una serie di azioni puntuali[34] che culminano con factus est, con una sottolineatura dell’estemporaneità data dall’avverbio subito. Il soprannaturale irrompe così nel racconto, con quella improvvisa violenza, peculiare della narrazione fantastica, che ne accentua l’effetto sorprendente e, in questo caso, spaventoso[35]. Il licantropo si manifesta attraverso due caratteristiche fondamentali: l’ululato e le fattezze da lupo. Il registro adottato da Petronio per la rappresentazione del lupo mannaro non è più quello della licantropia arcadica tradizionale[36]: la trasformazione non viene percepita come passiva, ossia un castigo per essersi macchiati di crimini abominevoli, ma è volontaria, il soldato è infatti un mago che si trasforma in lupo, proprio come fanno le streghe, che sono solite apparire sotto le fattezze di gufi o altri animali. Di fronte alla visione del soldato che si spoglia, la reazione di Nicerote è di terrore; evidentemente l’atmosfera paurosa contribuisce a rendere allarmante un’azione che di per sé potrebbe semplicemente sembrare strana. Sul piano linguistico la paura viene resa mediante espressioni spiccatamente fisiche: mihi anima in naso esse, il modo di dire «avere l’anima nel naso», deriva dalla credenza che, al momento della morte, l’anima fuoriesca dal corpo attraverso un’apertura, ossia il naso o la bocca; l’immagine di prossimità alla morte per il narratore è in effetti rafforzata anche da stabam tamquam mortuus. Dinnanzi al secondo prodigio, ossia l’inquietante trasformazione dei vestiti in pietra (deinde accessi, ut vestimenta eius tollerem: illa autem lapidea facta sunt), il turbamento del narratore è espresso attraverso un dubbio retorico: Qui mori timore nisi ego? ossia «Se qualcuno è mai morto di paura, chi altri sarebbe potuto essere se non io?»; l’espressione insiste ancora una volta sull’idea che l’evento soprannaturale e le sue implicazioni avvicinano il protagonista alla morte. La seconda metamorfosi, ossia la pietrificazione degli indumenti, contribuisce a delineare la climax della paura; sotto il profilo narratologico, questa trasformazione offre al personaggio di Nicerote la conferma di avere davvero assistito a un rito magico, i vestimenta fungono dunque da oggetto mediatore. Profondamente atterrito, l’uomo brandisce una spada di ferro, oggetto che tradizionalmente si riteneva atto a stornare gli spiriti maligni, come trapela da alcune fonti letterarie, quali Virgilio e Apuleio[37], quindi Nicerote risponde ad un atto magico con un’altra magia. Il narratore è perfettamente conscio che quanto sta raccontando è assolutamente incredibile, cerca perciò di avvalorare ciò che dice attraverso le consuete strategie di autenticazione, in questo caso il giuramento di non mentire «per tutto l’oro del mondo», nolite me iocari putare; ut mentiar, nullius patrimonium tanti facio, una promessa particolarmente calzante per un liberto arricchito di fronte a un uditorio composto da convitati appartenenti alla medesima estrazione. Dopo la fuga del lupo tra i boschi, con la spada in mano, il nostro si dirige verso la casa della sua amata (62, 10-14).
[10] In larvam intravi, paene animam ebullivi, sudor mihi per bifurcum volabat, oculi mortui, vix umquam refectus sum. [11] Melissa mea mirari coepit, quod tam sero ambularem, et “si ante,” inquit “venisses, saltem nobis adiutasses; lupus enim villam intravit et omnia pecora tamquam lanius sanguinem illis misit. nec tamen derisit, etiam si fugit; servus enim noster lancea collum eius traiecit”. [12] Haec ut audivi, operire oculos amplius non potui, sed luce clara Gai nostri domum fugi tamquam copo compilatus, et postquam veni in illum locum in quo lapidea vestimenta erant facta, nihil inveni nisi sanguinem. [13] Ut vero domum veni, iacebat miles meus lecto tamquam bovis, et collum illius medicus curabat. intellexi illum versipellem esse, nec postea cum illo panem gustare potui, non si me occidisses. [14] Viderint alii quid de hoc exopinissent; ego si mentior, genios vestros iratos habeam[38].
Nicerote, per osì dire, somatizza il terrore e lo sgomento: entra in casa di Melissa quasi come uno spettro (in larvam intravi) tanto è cereo e sconvolto e sta per «rimettere l’anima», paene animam ebullivi: se prima l’aveva nel naso, ora a fatica riesce a trattenerla; il sudore gli scorre lungo tutta la schiena(sudor mihi per bifurcum volabat) e gli occhi sono vitrei, da morto, (oculi mortui); a stento l’uomo si riprende(vix umquam refectus sum). Le reazioni di Nicerote, quasi morto di paura, sono dunque al centro della narrazione. A questo punto Melissa gli racconta che un lupo ha attaccato il suo podere e si è avventato sulle pecore, sgozzandole tutte: dal suo racconto emerge la straordinaria ferocia tradizionalmente attribuita al licantropo. Quando poi la donna aggiunge che l’animale è stato trafitto al collo con una lancia, Nicerote è assalito da un’angoscia terribile, che addirittura gli impedisce di prendere sonno. Decide quindi di tornare a casa in gran fretta, «come l’oste derubato»: il riferimento a una favola esopica in cui figura anche un lupo mannaro è scopertamente allusivo. Lungo la strada, Nicerote si ferma nuovamente presso il cimitero, stavolta i vestimenta pietrificati sono scomparsi, e al loro posto resta solo del sangue. La visione dell’oggetto mediatore non può che accrescere sospetti e paure. Giunto a casa, Nicerote trova il soldato sdraiato sul letto, mentre il dottore è intento a medicargli la ferita sul collo. Si attua così lo scioglimento della Spannung: alle allusioni e ai sospetti si sostituisce la lucida e istantanea consapevolezza che il soldato è davvero un licantropo. Il termine adoperato per indicare il lupo mannaro è versipellis, che, derivato da pellem vertere, designa dunque l’atto di trasformare volontariamente il proprio aspetto[39]; questo composto nominale è pertanto adatto a descrivere maghi, streghe o divinità in virtù della loro attitudine alla metamorfosi e si addice anche al lupo mannaro, che è appunto l’esito di una metamorfosi volontaria. All’incertezza e alla sospensione del giudizio segue, a questo punto, una reazione di orrore e la determinazione a interrompere, per il futuro, ogni contatto con l’uomo-lupo (nec postea cum illo panem gustare potui). Il racconto si chiude, infine, con un marcato sigillo di autenticazione, l’espressione ego si mentior, genios vestros iratos habeam; il genius, divinità tutelare dell’uomo romano, è uno spirito vitale che accompagna l’individuo dal giorno della nascita fino all’ora della morte: in definitiva Nicerote rivolge l’ennesimo anatema contro a se stesso per ribadire la veridicità del suo racconto. E quando la storia si conclude nello stupore generale dell’uditorio, tocca a Trimalchione rimarcare l’attendibilità del suo ospite: si qua fides est, ut mihi pili inhorruerunt, quia scio Niceronem nihil nugarum narrare: immo certus est et minime linguosus[40]. Ritroviamo, condensata in questa affermazione finale, la figura della climax, un procedimento retorico tipico anche della sintassi narrativa del fantastico, ben riconoscibile nello straordinario racconto di Nicerote, dove gli eventi paurosi si susseguono in un doppio crescendo: prima si susseguono la svestizione, il cerchio magico, la trasformazione in lupo da parte del soldato; quindi, dopo la fuga del licantropo, che produce un temporaneo calo della tensione, prende l’avvio un nuova climax, con il racconto di Melissa, le macchie di sangue e la conferma autoptica delle ferite inflitte al lupo sul collo dell’uomo. La paura è dunque il filo rosso che percorre la narrazione, ed è descritta soprattutto nelle sue manifestazioni fisiche: paralisi, sudore, nausea[41]. Il coinvolgimento del lettore è assicurato, come si addice a uno Schauermärchen[42]: un comune racconto del terrore.
L’epistola VII, 27 di Plinio il Giovane si apre con una domanda: esistono i fantasmi?[43] In risposta, tre casi esemplari tra cui quello di cui stiamo per occuparci: la casa infestata di Atene (5-11).
Secondo gli antichi, l’anima delle persone morte prematuramente, violentemente, oppure private di una sepoltura adeguata, non potevano accedere agli Inferi e continuavano a vagare sulla terra, in particolare nei luoghi in cui era avvenuto l’omicidio o era stato nascosto il cadavere. Queste anime irrequiete si manifestavano ai vivi essenzialmente in due modi: in sogno o come apparizioni visibili anche durante la veglia; comprensibilmente, gli spettri del secondo tipo erano ritenuti più potenti e maggiormente degni di essere creduti[44].
Nel riferire un caso del genere, Plinio segue uno schema tipico che, con le dovute modifiche, ritroviamo in altri testi incentrati sulle apparizioni di un fantasma, come la Mostellaria di Plauto[45] e i Philopseudeis di Luciano[46]: un uomo, con molta probabilità un ospite, è stato ucciso e sotterrato all’interno di un’abitazione e il suo spirito senza requie torna di notte a tormentare i vivi, finché, grazie all’intervento di un uomo coraggioso, il cadavere viene scoperto e onorato di sepoltura secondo il rito[47].
La vicenda è ambientata ad Atene, in quello che, a giudicare dalle uniche tre storie di fantasmi giunte fino a noi, doveva essere considerato lo scenario perfetto per questo tipo di narrazioni:
[5] Erat Athenis spatiosa et capax domus, sed infamis et pestilens. Per silentium noctis sonum ferri et, si attenderes acrius, strepitus vinculorum longius primo, deinde e proximo reddebatur: mox adparebat idolon, senex macie et squalore confectus, promissa barba et horrenti capillo; cruribus compedes, manibus catenas gerebat quatiebatque…[6] Deserta inde et damnata solitudine domus totaque illi monstro relicta[48].
Una casa grande ma malfamata e funesta, i cui inquilini trascorrono notti insonni, in preda al panico a causa di uno spettro che appare dinanzi ai loro occhi in tutto il suo terrificante squallore. Come nelle moderne storie di fantasmi, ambientate spesso in castelli abbandonati, anche in questo caso il cronòtopo (una vasta e disabitata dimora, immersa nel silenzio della notte) crea, di per sé, un’atmosfera misteriosa. Come osserva Stramaglia[49], secondo le antiche credenze, le apparizioni sovrannaturali si verificano ad orari ben precisi, in quelli che potremmo definire momenti di passaggio tra le diverse fasi della notte o del giorno, come mezzanotte e mezzogiorno, ma un momento particolarmente propizio all’incontro con i fantasmi è la notte, tempo simbolicamente connesso alla morte.
L’intero passo pliniano documenta un’ampia gamma di termini, sia latini che di origine greca, comunemente utilizzati per descrivere le apparizioni sovrannaturali[50]; nel giro di poche righe troviamo infatti ben sei sinonimi di fantasma: tra questi, idolon (5), imago (6), simulacrum (7) ed effigies (8) definiscono il fantasma da un punto di vista visivo, come un’immagine, e dunque un doppio più o meno consistente di ciò che il defunto era stato in vita. Quanto agli altri due, monstrum (6) insiste sul carattere prodigioso e straordinario delle apparizioni, mentre manes (11)strettamente legato alla cultura romana, indica gli spiriti dei defunti, oggetto di culto in occasione di certe feste religiose[51].
La descrizione del fantasma è breve: si tratta di un senex macilento e trasandato, con barba incolta e capelli irti; un aspetto trascurato che ritroviamo anche in altri fantasmi dell’antichità[52]. Come in altri casi, inoltre, il fantasma si presenta con l’aspetto che il defunto aveva avuto in vita, e più precisamente (come verrà confermato in seguito) al momento della morte[53]. Un particolare rilevante è che il vecchio trascina con sé le catene da cui è imprigionato, ai piedi e alle braccia: potrebbe dunque trattarsi di un criminale, incatenato e poi ucciso e sotterrato nell’edificio, ma il dettaglio delle catene potrebbe anche essere un elemento tipico nella descrizione di uno spettro[54]. Soprattutto, il rumore della ferraglia preannuncia fin da subito la sua apparizione e ritornerà in tutto il brano con insistenza (sonus ferri, strepitus vinculorum, cruribus compedes, manibus catenas, 5; concuti ferrum, vincula moveri, catenis insonabat, 8; gravis vinculis, 10).
Grazie ad un sapiente accostamento tra avverbi di tempo e determinazioni di luogo, Plinio scandisce le diverse fasi del racconto, creando un’atmosfera carica di tensione e mantenendo alta la suspense. La scena si apre con la percezione di un rumore di ferraglia nel silenzio della notte (per silentium noctis sonum ferri), che, ad un ascolto più attento, si rivela uno stridore di catene, prima lontano (strepitus vinculorum longius primo), poi sempre più vicino(deinde e proximo); più il rumore si avvicina, maggiore è la tensione, fino all’apparizione vera e propria dello spettro che chiude la sequenza degli eventi (mox adparebat idolon).
Come reagiscono gli abitanti della casa alle apparizioni? Gli effetti provocati dal contatto col sovrannaturale sono, in questo caso, devastanti:
[6] Inde inhabitantibus tristes diraeque noctes per metum vigilabantur; vigiliam morbus et crescente formidine mors sequebatur. Nam interdiu quoque, quamquam abscesserat imago, memoria imaginis oculis inhaerebat, longiorque causis timoris timor erat[55].
Il terrore genera l’insonnia (per metum vigilabantur), che costringe gli inquilini a veglie notturne sinistre e terrificanti (tristes diraeque noctes). La paura degli abitanti, dapprima definita con il generico e comune metus[56], evolverà ben presto nella più forte e fisica formido: il termine, osserva Thomas[57], esprime un’emozione intensa, la viva inquietudine che assale il soggetto nel momento in cui percepisce di trovarsi in una situazione senza uscita. Al crescere della paura, dunque, corrispondono effetti sempre più gravi: dalla semplice insonnia si passa alla malattia e, infine, alla morte (vigiliam morbus et crescente formidine mors sequebatur). C’è una spiegazione per questa escalation di manifestazioni fisiche della paura: anche quando il fantasma è ormai scomparso, quell’imago terrificante si fissa nella memoria (memoria imaginis oculis inhaerebat), continua a tormentare e porta alla morte; grazie al poliptoto longiorque causis timoris timor erat, Plinio rappresenta alla perfezione la spirale ossessiva per cui è il timore ad alimentare se stesso. Compare qui il termine timor che, privo della fisicità di formido, rispetto a metus sottolinea maggiormente il carattere istintivo e irrazionale della paura[58].
Comincia ora (7) il racconto vero e proprio, con l’ingresso in scena del protagonista, Atenodoro, subito presentato come un filosofo[59]: il lettore si aspetta quindi che il suo approccio al soprannaturale non sia quello dell’uomo qualunque. Arrivato ad Atene, pur conoscendo la fama che circonda la casa, Atenodoro la prende in affitto e, scesa la sera, si prepara a trascorrere la notte nell’abitazione impegnando la mente nello studio e nella scrittura per resistere alle suggestioni dell’immaginazione (ne vacua mens audita simulacra et inanes sibi metus fingeret[60]). Il filosofo dunque, sembra esibire un approccio essenzialmente razionalista verso il sovrannaturale, considerando il fantasma come un prodotto della mente. È interessante la presenza del termine simulacrum[61], che rientra, come si è visto, tra i termini in uso per descrivere le apparizioni sovrannaturali, ma che è anche il vocabolo impiegato da Lucrezio per indicare le illusioni e i miraggi[62];è appropriato, dunque, per descrivere lo spettro dal punto di vista di un filosofo che lo considera frutto di autosuggestione.
A questo punto viene nuovamente introdotta l’apparizione del fantasma: sullo sfondo ritroviamo la notte, il rumore di ferraglia, la stessa atmosfera carica di tensione che il lettore ha imparato a conoscere, e che tuttavia sortisce nel filosofo una reazione diversa da quella dei precedenti inquilini:
[8] Initio, quale ubique, silentium noctis; dein concuti ferrum, vincula moveri. Ille non tollere oculos, non remittere stilum, sed offirmare animum auribusque praetendere. Tum crebescere fragor, adventare et iam ut in limine, iam ut intra limen audiri. Respicit, videt agnoscitque narratam sibi effigiem. [9] Stabat innuebatque digito similis vocanti. Hic contra ut paulum exspectaret manu significat rursusque ceris et stilo incumbit. Illa scribentis capitis catenis insonabat. Respicit rursus idem quod prius innuentem, nec moratus tollit lumen et sequitur[63].
Atenodoro percepisce il rumore delle catene sempre più vicino (da notare la ripetizione iam ut in limine, iam ut intra limen che rende bene la progressione dello strepito), sente che il fantasma sta per apparire, ma dapprima lo ignora e continua a leggere[64] senza scomporsi; il fantasma è ormai in piedi davanti a lui, fa cenno con un dito, come per chiedere qualcosa, ma il filosofo si limita a registrarne la presenza, per tornare subito alla sua attività. Solo quando lo spettro, dopo molte insistenze, mostra di voler essere seguito, il filosofo lo accontenta. La gestualità del fantasma, di cui qualche interprete ha sottolineato la comicità[65], produce senz’altro un calo della tensione, facendo emergere ancora più chiaramente l’imperturbabilità di Atenodoro[66].
In seguito lo spettro condurrà il filosofo in cortile, e, dopo essersi collocato in un punto preciso, sparirà. Atenodoro chiederà allora alle autorità di scavare in quel luogo, consentendo il ritrovamento di ossa scomposte e catene: i poveri resti riceveranno così la giusta sepoltura e la casa sarà finalmente libera dal fantasma.
Ma perché Atenodoro non ha paura? Al filosofo si attribuisce, evidentemente, un perfetto controllo sulla mente e sulle emozioni: da qui la capacità di mantenere la calma anche davanti a qualcosa che sfida e oltrepassa le leggi di natura come la visione di un fantasma. Plinio non dice se Atenodoro abbia o no provato paura: di certo, non l’ha dimostrato; ha saputo bloccare le manifestazioni fisiche della paura, evitando di rimanere intrappolato in quella spirale di insonnia, malattia e morte di cui sono state vittime i precedenti inquilini. Autocontrollo e concentrazione, dunque, hanno permesso al filosofo di sbloccare la situazione; solo lui, a differenza degli altri abitanti, è riuscito a disinnescare il sovrannaturale considerandolo compatibile con le leggi naturali: un caso limite di sopravvivenza dell’anima.
Va poi sottolineata una caratteristica della narrazione di Plinio che contrasta con la tradizione dei racconti paurosi; l’efficacia dei racconti paurosi, come si è visto dagli esempi fin qui forniti, è in gran parte legata alla capacità del narratore di favorire l’identificazione del pubblico col protagonista e con le sue emozioni: utile a questo scopo è l’introduzione di un narratore secondario che partecipa all’azione narrata. Ma il racconto pliniano procede in una direzione diversa: non solo non si fa ricorso a nessun narratore secondario, che come l’ingenuo Nicerote petroniano[67], sia vittima del soprannaturale, ma il narratore primario si riconosce perfettamente nel filosofo, che rimane estraneo alle emozioni e mantiene uno sguardo distaccato e lucido su eventi di per sé spaventosi. Di conseguenza, l’effetto pauroso del racconto viene notevolmente attenuato; ma in effetti, lo scopo del colto Plinio non è tanto far provare paura al lettore, quanto risvgliarne la curiosità, presentando un caso strano in cui il protagonista-filosofo ha potuto dar prova di virtus.
Nonostante questa peculiarità, il racconto pliniano non si priva di una caratteristica propria della narrazione fantastica: l’oggetto mediatore, ossia la testimonianza inequivocabile del già menzionato passaggio di soglia, il passaggio dalla dimensione del reale e del quotidiano a quella del sovrannaturale, dell’inspiegabile. Nel racconto di Plinio questo compito è svolto dalle catene da cui lo spettro è imprigionato, un elemento ricorrente nel racconto e destianto a ricomparire nel finale, quando i ferri vengono scoperti, insieme alle ossa, nel cortile della casa. Prova inconfutabile di quella «parenthèse surnaturelle qui s’est ouverte durant la nuit»[68], le catene nel cortile appaiono soprattutto come una conferma dell’abilità investigativa di Atenodoro che, grazie alla sua lucidità di fronte al soprannaturale, riesce a risolvere il caso.
lorenzo.cappi@tin.it; laura9.1@hotmail.it; chiara.dirocco4@studio.unibo.it (Università di Bologna)
Pubblicato il 06/06/2016
[1] T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977.
[2] Per una sintesi fruibile in ambiente didattico si veda S. Lazzarin, Il modo fantastico, Roma, Laterza, 2000.
[3] «Il fantastico viene di preferenza considerato non un genere ma un modo letterario che ha avuto radici storiche precise e si è attuato storicamente in alcuni generi e sottogeneri, ma ha poi potuto essere utilizzato e continua ad essere utilizzato, con maggiore o minore evidenza e capacità creativa, in opere appartenenti a generi del tutto diversi» (R. Ceserani, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 11).
[4] Sul concetto di oggetto mediatore si veda L. Lugnani, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in AA. VV. La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 177-288.
[5] Si tratta di una delle tante prolessi disseminate nella narrazione romanzesca: cfr. Apuleius Madaurensis Metamorphoses Livre II Texte, Introduction et Commentaire D. van Mal -Maeder, Groningen, Egbert Forsten, 2001, p. 312.
[6] «“Prima di tutto” mi rispose “bisogna vegliare con la massima attenzione tenendo gli occhi ben aperti, anzi, spalancati e sempre fissi sul cadavere, e non si deve mai distogliere lo sguardo, anzi neanche volgerlo poco poco, perché quelle terrificanti creature sono capaci di cambiar forma e, una volta mutato il loro aspetto in quello di un animale qualunque, di infilarsi dentro di nascosto, al punto che riuscirebbero a ingannare persino l’occhio del Sole e della Giustizia! Infatti prendono le sembianze di uccelli, o di cani, di topi e persino di mosche”». (Apuleio, Le Metamorfosi o l’Asino d’oro, introduzione, traduzione e note di Lara Nicolini, Milano, BUR, 2005, p. 185).
[7] Per una trattazione più approfondita della questione, è particolarmente utile il volume di Laura Cherubini, Strix: la strega nella cultura romana, Torino, UTET, 2010.
[8] Interessante è il termine sagus, presente nel paragrafo precedente (Apul. met. 2, 21, 7), impiegato dall’autore per caratterizzare le streghe tessale: si tratta di un aggettivo poco attestato che indica una persona fornita di doti profetiche.
[9] Cfr. D. van Mal – Maeder, Apuleius Madaurensis... cit.p. 318.
[10] «...Ed ecco che si fece il crepuscolo, e poi notte fonda, e poi notte inoltrata, e poi le tenebre ancora più fitte, e ormai si era nel cuore della notte. E dentro di me veramente la paura cresceva ancora di più, quando all’improvviso una donnola strisciò dentro la stanza, mi si piantò davanti e puntò su di me il suo sguardo acutissimo: questa sicurezza sfrontata in un animale così piccolo mi turbò. Perciò alla fine gridai: “Te ne vuoi andare, schifosa bestiaccia? Va’ a nasconderti tra i tuoi simili, tra i topi, prima che io ti faccia provare all’istante di che cosa sono capace! Te ne vai o no?” Quella si gira e immediatamente scompare dalla stanza. Ma proprio in quel momento all’improvviso un sonno pesante mi sprofonda in un abisso senza fine, al punto che nemmeno il dio di Delfi avrebbe potuto distinguere quale fosse il più morto tra i nostri due corpi che giacevano lì inerti...» (L. Nicolini, a c. di, Le Metamorfosi... cit., pp. 189 e 191).
[11] Cfr. A. Traina - T. Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, Bologna, Cappelli, 1965, p. 380.
[12] Sul termine, cfr. D. van Mal – Maeder, Apuleius Madaurensis... cit. p. 340.
[13] Cfr. M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Torino, Einaudi, 2000, pp. 357-358.
[14] ibidem, p. 359.
[15] compare infatti in Plauto, Rud. 543 e 751 e Aul. 359, Terenzio Phor. 669 e 960; lo si trova poi anche in Lucilio 57 e 66 M.
[16] «infine risvegliatomi e, terrorizzato e in preda al panico, mi precipitai verso il cadavere, e accostando ad esso la lampada e scoprendogli il volto mi misi a esaminare ogni dettaglio: tutto era a posto» (L. Nicolini, a c. di, Le Metamorfosi... cit., p. 191).
[17] Cfr. A. Traina - T. Bertotti, Sintassi normativa... cit., p. 380.
[18] Cfr. A. Stramaglia, Aspetti di letteratura fantastica in Apuleio. Zatchlas Aegyptius propheta primarius e la scena di necromanzia nella novella di Telifrone (met. 2,27 – 30) in, Oronzo Pecere - Antonio Stramaglia, Studi Apuleiani, note di aggiornamento di Luca Graverini, Cassino, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2003, p. 88.
[19] Apuleio era certamente ben consapevole di questa caratteristica dei maghi, se in apol. 54,7 i suoi avversari lo accusano proprio di aver pregato in silenzio: Tacitas praeces in templo deis alligasti: igitur magus es.
[20] «“La prova, vi darò, la prova lampante che questa è la pura verità, e vi rivelerò qualcosa che assolutamente nessun altro potrebbe sapere o indovinare”. E poi, indicandomi col dito, prosegue: “Mentre questo accortissimo custode faceva la guardia al mio corpo con la massima attenzione, delle vecchie streghe che facevano la posta alle mie spoglie e che perciò si erano più volte trasformate, pur senza risultato, siccome non riuscivano a eludere la sua accorta vigilanza, alla fine gli gettarono addosso una nuvola di sonno e lo seppellirono in un profondo torpore; poi si mettono a chiamarmi per nome senza sosta finché i miei arti, fino a quel momento insensibili, e le mie membra fredde, con tentativi fiacchi, cominciano a sforzarsi di obbedire alla magia. Ma questo qui invece era vivo – di un morto aveva solo il sonno – e siccome si chiama proprio come me, al sentire il suo nome, senza accorgersene si alza e avanza macchinalmente come un fantasma senza vita; e, sebbene la porta della stanza fosse sprangata per benino, attraverso qualche buco quelle gli tagliarono prima il naso e poi le orecchie: e così lui ha subito la mutilazione al mio posto. Poi, affinché l’nganno fosse completo in ogni dettaglio, plasmarono dei pezzi di cera a forma di quelle orecchie tagliate e glieli appiccicarono perfettamente, e poi allo stesso modo gli fanno anche un naso tale e quale al suo...”. Terrorizzato da questo racconto comincio a toccarmi la faccia. Allungo una mano e mi afferro il naso: viene via; mi tasto le orecchie: cascano giù. E... io, tutto pervaso da un sudore freddo, scappo via...» (L. Nicolini, a c. di, Le Metamorfosi... cit. p. 199).
[21] Cfr. A. Stramaglia, Aspetti di letteratura... cit. pp. 94-95.
[22]Cfr. A. Drake, The Ghost Story in “The Golden Ass” by Apuleius, “PLL” 13, 1977, p. 10, citato in A. Stramaglia, Aspetti di letteratura fantastica... cit., p. 94.
[23] La bibliografia di riferimento per l’analisi di questo testo consiste nelle sue linee essenziali in: Petronio, I racconti del Satyricon, a cura di P. Fedeli e R. Dimundo, Roma, Salerno, 2000; Petronio, Satyricon, a cura di A. Aragosti, Milano, BUR Rizzoli, 2009; G. Schmeling (with the collaboration of A. Setaioli), A commentary on the Satyrica of Petronius, Oxford, Oxford University Press, 2011; Petronio, La cena di Trimalchione: dal Satyricon di Petronio, a cura di G. F. Gianotti, Roma, Bonanno, 2013, da cui sono tratte le traduzioni.
[24] Varia miracula hinc inde referuntur, in riferimento ad una cena appunto, in epist. IX 33, 1.
[25] Cfr. supra, 1.
[26]Sul realismo nel racconto di Nicerote, rinvio a J. L. Bouquet, Trois histoires fantastiques, Annales Latini Montium Arvemorum, 17, 1990, p. 19.
[27] Per le strategie di autenticazione, cfr. A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae: storie di fantasmi nel mondo greco-latino, Bari, Levante editori, 1999, p. 109 e, in riferimento all’uso paradossale che Luciano adotta di questo meccanismo, si veda anche M. Lavagetto, La cicatrice di Montaigne: sulla bugia in letteratura, Torino, Einaudi, 2002.
[28] Cfr. G. Genette, Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1972, pp. 208-310.
[29] «Era un soldato forte come l’Orco. Muoviamo le chiappe sul far del canto del gallo, la luna splendeva tanto che sembrava pieno giorno. Giungemmo tra le tombe: il mio uomo si mise a farla vicino alle lapidi; ma io canterellando mi metto a contare anche le pietre tombali».
[30] Cfr. Apul. met. I 17, 8.
[31] Cfr. supra, 1.
[32] «Quando poi mi girai a guardare il mio compagno, quello si spogliò e depose tutti i suoi vestiti sul ciglio della strada. Stavo per sputare fuori l’anima; stavo lì immobile, come un morto. Quello invece pisciò tutto intorno ai suoi indumenti, e di colpo si trasformò in lupo. Non pensiate che io stia scherzando, non mentirei per tutto l’oro del mondo. Ma, come avevo cominciato a raccontare, dopo che si fu trasformato in lupo, cominciò ad ululare e fuggì nei boschi. Io lì per lì non sapevo più dov’ero, poi mi avvicinai per raccogliere i suoi vestiti: ma quelli erano diventati di pietra. Chi poteva morire di paura più di me? Tuttavia sguainai la spada e † matavitatau †andai infilzando le ombre, finché non giunsi alla casa di campagna della mia amica».
[33] Il potere di delimitare aree magiche tracciando dei cerchi è richiamato in Petr. 57.
[34] Cfr. A. Traina, T. Bertotti, Sintassi normativa della lingua latina, Bologna, Cappelli, 2003, p. 224.
[35] Un exemplum significativo di subitanea trasformazione è il ringiovanimento di Esone ad opera di Medea, Ov. met. VII 290-277.
[36] Petronio tratteggia la figura del licantropo facendo affiorare l’elemento folklorico, che colloca il lupo mannaro in un ambito affine alla magia e alla stregoneria. Il lupo è peraltro un animale centrale nel folklore romano, basti pensare alle feste religiose dei lupercalia; per maggiori approfondimenti rimando a G. Milin, Il licantropo: un superuomo?, a cura di J. V. Molle, Genova, ECIG, 1997, p. 36.
[37] Verg. Aen. VI, 260; Apul. met. II 32, 6, Lucio attacca delle entità incorporee con una spada durante la festa del Riso.
[38] «Entrai che sembravo uno spettro, per poco rimettevo l’anima, il sudore mi scorreva a pioggia fino al fondo-schiena, gli occhi come quelli di un morto; a stento sono poi riuscito a riprendermi. La mia Melissa prese a stupirsi che andassi in giro a così tarda notte e disse: “Se fossi arrivato prima, almeno avresti potuto aiutarci; infatti un lupo si è introdotto nel podere, e ha dissanguato, come un macellaio, tutte le pecore. Ma ha avuto ben poco da farsi beffe, anche se è riuscito a fuggire; infatti uno dei nostri servi gli ha trafitto il collo con una lancia”. Come ebbi udito queste parole, non potei più chiudere occhio, ma alle prime luci del giorno fuggii a casa del nostro Gaio, come fece l’oste derubato; e dopo che giunsi nel luogo dove i vestiti erano diventati pietra, non trovai altro che del sangue. Come poi giunsi davvero a casa, il mio soldato giaceva sdraiato sul letto che pareva un bue, e un medico gli stava curando il collo. Compresi allora che era un lupo mannaro, e da allora non riuscii più a mangiare un pezzo di pane in sua compagnia, neppure se mi avessero ammazzato. Vedano un po’ gli altri che opinione farsi di questa storia: per quanto mi riguarda, se racconto fandonie, possa io avere contro la collera dei vostri geni tutelari.».
[39] Vedi supra, 1 e n. 9, per l’uso apuleiano; ma il termine compare già in Plauto, nell’Anfitrione (120-123), per indicare le abilità trasformistiche di Giove. Su versipellis come tecnicismo della lingua magica, cfr. inoltre M. Bettini, Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Torino, Einaudi, 2000, p. 186.
[40] Petr. sat. 63, 1.
[41] Sulla modalità di manifestare le emozioni nelle letterature antiche, rinvio a D. Konstan, The emotions of the ancient Greeks: studies in Aristotle and classical literature, Toronto, University of Toronto press, 2006.
[42] Il racconto petroniano è così definito da M. Schuster, Der Werwolf und die Hexen, in Wiener Studien, 48 (1930), pp. 149-178.
[43] Velim scire, esse phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes an inania et vana ex metu nostro imaginem accipere [«Vorrei sapere se gli spettri esistano e tu ritenga abbiano una propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza solo dalla nostra paura.» (trad. L. Rusca da Plinio il Giovane, Lettere ai familiari I, Milano, BUR, 1994)].
[44] A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., pp. 8-27.
[45] La commedia plautina è interamente basata su una beffa: il senex Teopropide torna in patria dopo un viaggio per mare durato tre anni; per evitare che il vecchio entri in casa, dove il figlio Filolachete fa baldoria con gli amici, il servo Tranione racconta che l’abitazione è infestata da un fantasma. Durante la sua assenza, narra il servo, un ospite è stato ucciso e sotterrato senza i dovuti onori funebri, e ora il suo spettro vaga all’interno dell’edificio.
[46] Il dialogo lucianeo, Gli amanti della menzogna, ovvero L’incredulo, tratta di menzogna e sovrannaturale, e si configura come una critica nei confronti della superstizione antica. Nel passo che ci interessa ( 30-31) il pitagorico Arignoto cerca di convincere Tichiade dell’esistenza del sovrannaturale; a questo proposito narra la storia di una casa infestata. A Corinto c’era un edificio disabitato da molto tempo: chiunque vi alloggiasse fuggiva a causa di un terribile fantasma. Arignoto, venuto a conoscenza dei fatti, decide di passare una notte all’interno della casa: presa una lampada, si mette a leggere e attende l’arrivo dello spettro. Al momento dell’apparizione, grazie a formule della magia egiziana, Arignoto scaccia il fantasma, scopre dove era stato sotterrato il cadavere e, una volta onorato il defunto di degna sepoltura, libera la casa dallo spettro.
[47]Individua questo schema L. Radermacher, Aus Lucians Lugenfreund, in Festschrift Theodor Gomperz dargebracht zum siebzigsten Geburtstage am 29. März 1902, Moritz Schwind 1979, p. 206.
[48] «C’era ad Atene una casa spaziosa e capace, ma malfamata e funesta. Nel silenzio della notte si levavano un rumore di ferraglia e, se si ascoltava più attentamente, uno stridore di catene dapprima più lontani, poi vicinissimi: ecco apparire allora uno spettro, un vecchio tutto macilento e trasandato, dalla barba incolta e i capelli irti; ai piedi portava ceppi, alle mani catene, e li scuoteva […] Così la casa restò deserta e condannata a rimanere vuota, tutta abbandonata a quell’essere mostruoso.» (trad. A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., p. 145).
[49] A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., p. 47.
[50] Seguo la distinzione operata da A. Stramaglia, ibidem, pp. 27-35.
[51] Cfr. Oxford Classical Dictionary, s.v. manes: originariamente usato per indicare gli spiriti dei morti concepiti come una massa indifferenziata e dotata di divinità collettiva, il termine manes designava anche il regno dei morti e gli dèi infernali; successivamente, viene ad indicare le anime dei singoli defunti.
[52] Ad esempio in Luciano (cf. Stramaglia, Res inauditae, incredulae… cit., p. 155).
[53] Cf. A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., p. 37. Caso tipico è quello del fantasma di Ettore che appare in sogno ad Enea (Aen. II, vv. 268-297): lo spettro si presenta con l’aspetto che aveva al momento della sua morte, avvenuta durante lo scontro con Achille, squalentem barbam et concretos sanguine crinis volneraque illa gerens, quae circum plurima muros accepit patrios! (vv. 277-279) [«Con la barba scomposta e i capelli rappresi di sangue, con quelle ferite, che infinite riceve’ d’intorno alle mura della patria!» (trad. it. R. Scarcia, Eneide, Milano, BUR, 2002)].
[54] Cfr. A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., p. 150.
[55] «Per questo motivo gli inquilini passavano notti tetre e spaventose, senza chiudere occhio, in preda alla paura; all’insonnia seguiva la malattia e alla malattia – aumentando il terrore – la morte. Talvolta infatti, addirittura, benché il fantasma se ne fosse andato, il ricordo della sua immagine restava impresso negli occhi, e la paura durava più a lungo di ciò che la causava.» (trad. A.Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., p. 145).
[56] A. Traina-T. Bertotti, Sintassi normativa…, cit., p. 380 sotolinea il carattere sostanzialmente razionale del metus; per la frequenza, cfr. Thomas, Le vocabulaire de la crainte en latin: problèmes de synonymie nominale, «Revue des études latines», 77 1999, pp. 216-233.
[57] Ibidem, p. 227. Cfr. anche supra, 1 e n. 11.
[58] A. Traina-T. Bertotti, ibidem, p. 380. Cfr. Thomas, ibidem, p. 224: metus e timor hanno significati simili, ma il loro uso predominante non è lo stesso; timor indica il sentimento di timore che nasce di fronte ad una minaccia, metus la paura di fronte ad un pericolo presente.
[59] Sebbene manchi ogni certezza, è probabile che si tratti dello stoico Atenodoro di Tarso. D. Felton (Haunted Greece and Rome: ghost stories from classical antiquity, Austin,University of Texas Press, 1999, p. 68) ha il sospetto che si tratti di un nome fittizio la cui etimologia, dono di Atene, sembrerebbe appropriata alla vicenda, in quanto Atenodoro avrebbe liberato la città dal terrore.
[60] «Affinché una mente priva di occupazione non desse corpo agli spettri di cui gli avevano parlato e a paure inconsistenti.» (trad. A. Stamaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., p.155.)
[61] Cfr. OLD s.v. simulacrum per i vari significati che il termine può assumere.
[62] Cfr. G. Barra, La traduzione di alcuni termini filosofici in Lucrezio, Vichiana 3, 1974, pp. 24-39, pp. 34-39.
[63] «All’inizio, come dappertutto, il silenzio della notte: poi ferri squassati, catene agitate; egli non alza lo sguardo, non depone lo stilo, ma rinsalda l’animo e lo pone a scudo delle orecchie. Allora il fragore si fa più insistente, si avvicina, sembra farsi sentire ormai sulla soglia, dentro la soglia, si volta a guardare, vede e riconosce la figura che gli avevano descritto. Stava in piedi e faceva cenno con un dito, come a chiamarlo; Atenodoro, di rimando, le fa segno con la mano di aspettare un po’, e si reimmerge in stilo e tavolette. Mentre scriveva, il fantasma gli faceva stridere le catene sul capo; egli si volta di nuovo, lo vede far cenno allo stesso modo di prima e, senza indugiare, prende la lampada e lo segue.» (trad. A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae …, cit., p. 145-147).
[64] Come sottolinea A. Stramaglia (Res inauditae, incredulae…, cit., p. 151) l’elemento della lettura al momento dell’apparizione del fantasma si ritrova anche in Luciano (Philops. 31), ed ha paralleli con altre storie, sia classiche che ebraiche, in cui entità sovrannaturali si manifestano a uomini impegnati sui libri.
[65] D. Felton, Haunted Greece and Rome…, cit., p. 69.
[66] A. Stramaglia, Res inauditae, incredulae…, cit., pp. 151-152.
[67] Cfr. supra.
[68] J.L.Bouquet, Trois histoires fantastiques…, cit., p. 19.