Lorella Spinello - Della fuga e dei vagabondaggi

«Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa (…) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga spesso, quando si è lontani dalla costa, è il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.» [1]

Henry Laborit, biologo francese, nel suo Elogio della fuga, disserta sul bisogno inestinguibile dell'uomo di afferrare la libertà, ma, per svincolarsi dai condizionamenti sociali, dalle costrizioni mentali, non conviene la ribellione solitaria, fonte di emarginazione:« (…) non rimane che la fuga. Ci sono diversi modi di fuggire. Alcuni si servono di droghe dette «psicogene». Altri della psicosi. Altri del suicidio. Altri della navigazione solitaria. Forse c'è un altro modo ancora: fuggire in un mondo che non è di questo mondo, il mondo dell'immaginazione. Qui il rischio di essere inseguiti è minimo.» [2]

La fuga e il vagabondaggio letterari sono stili di vita o solo scelte di gusto? È possibile annodare artisti e opere, talvolta così distanti stilisticamente, attraverso un nesso biologico e letterario, l'istinto di fuga? Ma quale fuga è concessa ai personaggi letterari?

Sarà forse la fuga borghese, amorosa, ideologica, religiosa, psichica o ancora il vagabondaggio, corollario poetico e inscindibile di molte fughe? [3]

Dall'Odissea omerica all'Eneide virgiliana, dal capolavoro della letteratura italiana trecentesca, la Commedia dantesca, ai romanzi cavallereschi, mille e più racconti di viaggi avventurosi, ricerche e pellegrinaggi, allontanamenti da patrie perdute e ritorni l'uomo ha elaborato, tentando di fondere il suo intimo peregrinare con esteriori forme di movimento.

Il primo "romanzo" dell'età moderna, il Don Chisciotte di Cervantes, una parodia dei libri cavallereschi, è esso stesso un romanzo cavalleresco: il personaggio attua una folle ricerca di avventure che ricalchino quelle dei cavalieri delle saghe arturiane; Cervantes critica l'eccessiva passione libresca di don Chisciotte, figura intrisa di letteratura che reinventa la sua vita come fosse il canovaccio di un possibile romanzo. La sua pazzia è una volontaria fuga dalla mediocrità verso una ridicola esistenza da fantomatico cavaliere errante.

Ma è nella letteratura novecentesca che il motivo della fuga ha trovato espressione nelle più differenti combinazioni e forse con i migliori esperimenti, altalenando tra le polarità del viaggio come scoperta o esilio.

Il tema del viaggio come esilio e il conseguente senso di non appartenenza, la solitudine cosmica, concernono la linea europea, ma soprattutto quella letteratura mitteleuropea che vive la crisi di un mondo e una società in dissoluzione.

In Fuga senza fine, Joseph Roth ripropone una struttura che appartiene a molte delle sue opere, «vale a dire l'odissea dell'ebreo errante verso occidente.» I suoi personaggi sono dei fuggitivi, Franz Tunda è inseguito, nella sua fuga infinita tra le steppe russe, fino in Europa; la sua famiglia – la madre è un'ebrea polacca mentre il padre è un maggiore austriaco – rimanda ai controversi legami fra le razze, fonti di smarrimento e ferite. «(…) l'iter del personaggio rothiano è scandito su quello emblematico dell'ebreo che abbandona lo shtetl» ma, se gli ebrei sono costretti ad abbandonare la cara patria, «i reduci cercano di ritornarvi.» [4] Il ritorno è vano, però, le patrie sono definitivamente scomparse, annullate, essi restano come esseri sperduti e sradicati. [5]

Nel romanzo Verso la libertà, pubblicato da Schnitzler nel 1908, un nobile musicista si innamora di una cantante appartenente alla piccola borghesia; la ragazza resterà incinta ma partorirà un bimbo morto, e l'uomo, scegliendo di non sposarla, si persuaderà d'aver preso la strada verso la libertà. [6]

Il protagonista di Fuga nelle tenebre, figura paragonabile ai pazienti di Freud diventati casi letterari, scopre gradualmente che le sue ossessioni si trasformano in terribili gesti poi perduti nell'oblio. Il tema della psicosi, della follia s'intreccia a quello della fuga, necessaria risoluzione delle paure maniacali di Robert; egli è, a tratti, lucidamente consapevole della sua malattia: «(...) sapeva di avere già fatto migliaia di volte quella stessa strada e di essere destinato a fuggire migliaia di volte ancora, per l'eternità, nelle notti azzurre, risonanti.» [7]

Marcel Proust scelse, per uno dei capitoli del La recherche, il titolo La fugitive, in una ideale contrapposizione con l'altra fondamentale sezione, La prisonnière, ma il libro apparve per la prima volta con il titolo: Albertine disparue. Il testo si rivela profondamente autobiografico, la separazione del protagonista da Albertine è una sofferenza inaspettata, poiché la fuga della donna, agognata come una salvezza, giunge improvvisa e dolorosa.«Madamoiselle Albertine est partie!» [8]

Il protagonista de Il primo uomo, [9] alter ego di Albert Camus, decide di ritrovare il ricordo del padre, perito durante la prima guerra mondiale quando lui era piccolo, e torna in Algeria per incontrare chi l'aveva conosciuto. La terra natale risveglierà la memoria dell'infanzia a Belcour, un quartiere povero della capitale. Il libro è una sorta di romanzo di formazione a ritroso, racconto di una vita dalla nascita al liceo.

Le opere dell'irlandese Joyce sono frutto di meditazione sulla propria condizione e su quella del suo Paese: un'isola, l'Irlanda, tormentata come la Sicilia, odiata e amata con uguale passione dagli isolani. Due dei suoi libri contengono un nome-simbolo: Dedalo, l'uomo uccello e Ulisse; il primo mito è interpretato come un volo liberatorio verso Parigi, con un sogno ardimentoso di bellezza e vita, il secondo è un volo della creatività negli antri della memoria e delle proprie radici; entrambe le figure possiedono la superiorità intellettuale, l'inventiva, l'acutezza e il destino dell'esilio e del pellegrinare. [10] Dublino sarà, nonostante l'esilio volontario in Francia e in Italia, la città della sua ossessione e la prima donna dei suoi romanzi, da Gente di Dublino a Finnegan' s Wake.

L'istinto d'avventura, il mito della frontiera, appartengono per natura agli scrittori americani; Marc Twain, acuto osservatore degli sconvolgimenti che nell'Ottocento interessarono gli Stati Uniti (dal razzismo alla guerra civile, al capitalismo agguerrito), trasformò il romanzo d'avventura, di tradizione picaresca, in uno strumento di analisi sociale. Le avventure di Huckleberry Finn, scritto nel 1884, è un viaggio lungo il grande fiume d'America che il selvaggio Huck e lo schiavo fuggiasco Jim compiono in cerca di libertà, ma soprattutto di se stessi. Twain usa, a fini narrativi, il passato della propria infanzia ma tale meccanismo corrisponde ad una fuga dall'America di quegli anni: mentre Huck è un pidocchioso vagabondo che vive alla giornata non tenendo conto delle formalità e tanto meno delle costrizioni sociali, il suo migliore amico Tom Sawyer, diverrà il suo antagonista, la minaccia per la sua libertà, poiché si adatterà al suo ambiente restandone imbrigliato. L'unica via d'uscita è una meravigliosa avventura lungo il fiume, una fuga che ha il fascino della scoperta. [11]

Hermann Melville immaginò un formidabile personaggio: il capitano Achab. Questi insegue Moby Dick per sete di vendetta, ma la brama di distruggere si trasforma in sete di possedere, di conoscere. [12]

In Uomini e topi John Steinbeck traccia alcune figure di sradicati: «Gente come noi, che lavora nei ranches, è la gente più abbandonata del mondo, non hanno famiglia, non sono di nessun paese. Arrivano nel ranch e raccolgono una paga, poi vanno in città e gettano via la paga, e l'indomani sono già in cammino alla ricerca di lavoro e di un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l'indomani.» [13]

Nel Viaggiatore solitario, [14] scritto nel 1960, Jack Kerouac fa il resoconto di un viaggio frenetico, solitario, squattrinato da New York a San Francisco, da Città del Messico a Tangeri, da Parigi a Londra, alla ricerca della "libertà assoluta". Lo scrittore sceglie la vita On the road, [15] come recita il titolo del suo più famoso romanzo, manifesto della beat generation.

Gli intermediari tra la cultura d'oltreoceano e il nostro paese furono Pavese e Vittorini, i quali, traducendo alcune opere americane, produssero un impulso di rinnovamento della letteratura italiana.

Gli scrittori italiani del "Nord" (Cesare Pavese, Carlo Levi) viaggiano, in maniera ricorrente, per problemi politici, ma le loro esplorazioni celano solitamente un significato superiore.

«Qui non ci sono nato, è quasi certo, dove sono nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire « Ecco cos'ero prima di nascere ». (…) Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.» [16] «(…) un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.» [17] Nel 1935 Pavese fu condannato a tre anni di confino per aver protetto la donna amata, militante del PCI. Questi anni fruttarono il racconto Terra d'esilio del 1936, La casa in collina e Il carcere (entrambi composti nel 1948).

L'artista meridionale fugge dal dolore e cerca la guarigione, ma sprofonda in una realtà che non gli appartiene ammalandosi di malinconia.

La Sicilia ha prodotto tutta una letteratura ferita da smanie rinnovatrici e autolesioniste.

Il capolavoro di Verga, intessuto di fughe, agognate e ineluttabili, offre spunti utili al nostro breve iter tematico: fuggono i personaggi amareggiati dalla sconfitta; Alfio Mosca afferma perentoriamente: «Uno che se ne va dal paese è meglio che non ci torni più»; [18] 'Ntoni abbandona la Trezza della sua infanzia, ripetendo ossessivamente «Devo andarmene», [19] ma indugiando, infine, a partire; segno, questo, di un profondo attaccamento alla sua terra, ripudiata perché depositaria di sofferenze.

Nell'introduzione al libro di Rosso di San secondo, La fuga, Pirandello fa una dissertazione sul genere del romanzo, «componimento poetico d'indole morale o religiosa in Provenza (…) nel nord della Francia racconto d'avventura (…) in Italia prevalse questo secondo significato (…)». [20] Secondo lo scrittore persino la Commedia di Dante potrebbe essere definita un romanzo d'avventura. La fuga di Rosso è un viaggio verso la salute; Dante l'aveva cercata attraverso i regni oltremondani, «(…) altri viaggiò sulla luna per ritrovarvi il senno degli uomini». [21]

«Qui è un uomo del Sud che ha in sé veramente tutta la dannazione dei peccati, il male della vita e del sole», la salvezza è per lui il nord dove la ragione doma la passione. «Il viaggio, l'esperimento hanno però un esito, al tutto contrario. Il male della vita e del sole, contro ogni riparo della neve, dell'intelligenza, della ragione, s'attacca insidiosamente a chi è eletto a guarirlo». [22] Il malato contagia il presunto guaritore e poi fugge in preda a rinnovate passioni.

Nei romanzi di Rosso si avverte la condizione autobiografica dell'autore, di un uomo del Meridione trapiantato nel clima e tra la gente settentrionale, esseri inabissati nella spiritualità che si negano alle passioni di cui sono ingordi i solari uomini del Sud. Ne La fuga il confronto fra Nord e Sud è il punto focale della vicenda: il Nord attrae con la promessa di salute ma le sue reali forme sono inaccettabili e diventa essenziale fuggire. Il protagonista attua una nuova fuga per trovare una ragione d'esistere. «La fuga, dunque, non è più un momento, ma uno stato, un modo d'essere, un'esigenza esistenziale». [23]

Il finale del romanzo di Rosso, con l'intrusione degli zingari rumorosi e sanguigni in quel freddo Nord, rappresenta una rottura: il protagonista non auspica un ritorno ad una fantomatica patria, ma la vita nomade propria del gitano. Come il protagonista del romanzo di Roth egli auspica una fuga senza limiti di sorta: «Un vento mi spinge e non temo di andare a fondo». [24]

Ne La morsa Dionisio e Dorina fuggono, dalla routine delle loro vite verso un amore passionale; Dionisio scopre però in questa passione la morsa a causa della quale compierà l'ennesima fuga. [25]

L'unica fuga permessa al fantasma di donna, voce unica del monologo La mia esistenza d'acquario, è la sua metamorfosi in essere acquatico. [26]

«È in questo vuoto che culmina, lungo un itinerario dunque coerentemente nichilistico, la «fuga senza fine» dei personaggi di Rosso? È nel torbido alveo delle acque prenatali che occorre identificare quella « vita anteriore » vagheggiata come autentica patria dagli errabondi « emigranti » della Fuga?» [27]

Giuseppe Antonio Borgese, altro siciliano fuggitivo, disegna Filippo Rubè, uno dei migliori ritratti di un'epoca confusa e rigogliosa di fermenti, illuminandolo di sue esperienze: il personaggio passa dall'attivismo esagerato alla bramosia di affondare e nascondersi, esplicitata dal vagabondaggio in Italia. La fuga verso la passione e poi il ritorno si concluderanno entrambi con finali tragici, mortali. Anche la figura divina, questo ignoto dio, è rappresentata dal simbolo del viaggio: sarà il Viaggiatore Sconosciuto a condurre Rubè alla morte. Nella furia logorroica dei suoi pensieri si augura per sé e per il figlio una sorte da "viaggiatore sconosciuto", senza nome e senza memoria.

L'eroe che riesce, anche se per breve tempo, a crearsi il ruolo di viaggiatore sconosciuto e misterioso, padrone di un potere illimitato, capace di gestire una vita veramente sua perché da lui inventata, ma in fondo fittizia e rischiosa, è Mattia Pascal. Pirandello inserisce nel suo romanzo i due poli della fuga come salvezza e del ritorno impossibile da attuare, definibile piuttosto come un'ennesima fuga dall'ostacolo. Lo scrittore agrigentino scriverà «(…) di notte, vegliando la moglie paralizzata, un capitolo dopo l'altro, il suo capolavoro. La frattura, il distacco dalla realtà insopportabile, speculare a quella della moglie, lo compie Mattia, grazie alla realtà effettuale di un cadavere, con un suicidio formale, civile». [28] La sua vita sarà per l'ennesima volta sconvolta da un altro amore doloroso «(…) l'amore per Marta Abba, amore che lo butterà in una ulteriore disperazione, lo costringerà alla fuga, ad errare da una città all'altra.» [29]

Mattia Pascal «decide di accettare il proprio suicidio, di ricominciare la vita come un uomo nuovo, in grado di fabbricarsi con le proprie mani la propria personalità e il proprio destino.(…) adesso la sua piena disponibilità potrebbe consentirgli la scelta morale, in nome di quel principio che solo più tardi l'uomo nuovo, arrivato a una più matura consapevolezza, potrà formulare in bocca di Sartre: l'avvenire è la mia scelta». [30] Pirandello tiene fuori, come un estraneo, il suo personaggio dalla storia, ma non riesce ancora ad esaminare a fondo l'uomo nuovo che avrebbe voluto creare, si ferma al momento del trapasso e avvia nuovamente il romanzo verso un'altra narrazione avventurosa di fatti. Il personaggio resta chiuso tra quelle parentesi irrisolvibili, il suo gesto gli aveva donato la libertà di scegliere un'altra vita, ma quest'esistenza inventata, per essere vissuta appieno, aveva bisogno di relazionarsi con l'ambiente esterno; ecco nuovi condizionamenti che diventano morse da sfuggire. [31]

Il vero straniero è l'uomo del Nord che si ferma nelle aride lande di Sicilia: nella novella Lontano, il norvegese Lars Cleen dispera di sentirsi a casa in questa passionale terra, suo porto d'approdo, «(…) ah, partire, fuggire coi suoi compagni, parlare di nuovo la sua lingua, sentirsi in patria (…) fuggire da quell'esilio, da quella morte!». [32] A colui che fugge pare, ad un tratto, bellissimo e lontano il suo paese natale, e vi fa ritorno fisicamente, con l'illusione dei sogni o solo con i suoi racconti.

Fondamentale è questo tema del ritorno per lo scrittore siciliano: ma è pentimento o costrizione?

Nel Don Giovanni in Sicilia, Vitaliano Brancati in una storia di ritorni sottolinea la pericolosità dell'oblio isolano e dell'esilio, facendo sprofondare il suo personaggio nel sonno come in una ragnatela che avvinghia.

Horcynus Orca di Stefano D'Arrigo è un'opera immane sul nostos di un marinaio il quale, finita la guerra che lo ha sottratto alla casa, vi fa ritorno. Il mondo che l'uomo si troverà ad affrontare ha perso le sembianze di un tempo, egli non può riconoscerlo: il suo, che era un viaggio alle origini e alle madri, diventa un viaggio luttuoso e definitivo, estremo tentativo di salvare un passato irrimediabilmente perduto.

Anche Elio Vittorini, in Conversazione, scrive il suo immaginario ritorno nella terra delle madri: «Poi viaggiai nel treno per le Calabrie, ricominciò a piovere, a esser notte e riconobbi il viaggio, me bambino nelle mie dieci fughe da casa e dalla Sicilia, in viaggio avanti e indietro è per quel paese di fumo e di gallerie, e fischi inenarrabili di treno fermo, nella notte, in bocca a un monte, dinanzi al mare, a nomi da sogni antichi.» [33] È possibile suddividere il libro in fasi cicliche ben definite: così si muove Di Grado nel saggio sullo scrittore siracusano. [34] Egli, servendosi di un metodo già usato da Lévi-Strauss e da Todorov, enumera quattro momenti, riscontrabili in tutto il romanzo: l'intreccio inizia con un momento di "quiete", poi, attraverso un "messaggio di rottura", tale fase subisce una metamorfosi che dà vita ad un "viaggio", il ciclo si conclude con il "ritorno alla quiete". Ma Elio Vittorini non tornerà mai, come il suo alter ego Silvestro, in quella terra che non possedeva la forza del rinnovamento, il coraggio della riscossa, doti che egli troverà nel mito americano.

Dal baudelairiano voyage au fond de l'inconnu [35] l'idea del viaggio ha ispirato la poesia del Novecento che, immergendosi nei miti dei viaggiatori antichi, palesa la brama di evadere da prigioni fisiche o mentali.

Ungaretti, novello Ulisse, anima in viaggio dall'Egitto alla Francia, con cuore e lingua italiane scrive ne La terra promessa:

«E se, tuttora fuoco d'avventura,
Tornati gli attimi da angoscia a brama,
D'Itaca varco le fuggenti mura,
So, ultima metamorfosi dell'aurora,
Oramai so che il filo della trama
Umana, pare rompersi in quell'ora.» [36]

Con Il congedo del viaggiatore cerimonioso, il genovese d'adozione Giorgio Caproni scrive la sua malinconia per la città grigia ma scintillante: [37] la sua poesia si immerge nella Genova della sua infanzia, «infanzia come luogo – come là – dove a nessuno è consentito di tornare, anche se io avuto l'impressione, per un attimo, d'esserci tornato davvero.» [38]

L'approccio psicoanalitico alle opere letterarie fornisce le fil rouge che lega autori e opere così diversi; le analisi di Frye, Richard e Starobinski danno avvio ad una ricerca del "tema più insistente" nell'attività letteraria di un'intera generazione di artisti o nell'opera di un solo autore.

«La (…) definizione del motivo, basata sulla recursività, è quella che si rifà più direttamente all'etimo (movere) e all'uso comune in musica del Leitmotiv: essa valorizza la funzione, in apparenza ornamentale, ma in sostanza di sottolineatura, di potenziamento, anche di convinzione e di suggestione che ha il ripetersi di affermazioni, considerazioni, descrizioni, allusioni, etc. nella tessitura verbale». [39] I temi sono gli elementi stereotipi di cui è intessuto un testo; i motivi sono unità minori, la cui iteratività spesso dà luogo ad un tema. [40] Una serie di motivi similari, potrebbero essere ricondotti ad un unico tema o idea ricorrente (secondo Propp una serie di motivi rappresenta un'unica funzione).

Nella sua Anatomia della critica (1957), Frye chiama le unità elementari archetipi, derivando il sostantivo dalla psicanalisi junghiana. Attraverso l'archetipo, cioè un'immagine tipica e ricorrente, il critico può collegare fra loro le opere. Eliminando i confini della ricerca, tale metodo critico permette di analizzare un gran numero di opere inscrivendole tutte nel quadro delle strutture archetipiche (Frye considera archetipi non solo alcune immagini ricorrenti nella letteratura, ma anche alcune azioni ripetute: egli fa confluire Moby Dick di Melville, la storia della caccia alla balena, nella tradizione "mostruosa" dal Vecchio Testamento in poi.) Si potrebbe avanzare l'ipotesi di un archetipo "fuga-ritorno" risalente alla letteratura greca (il mito di Ulisse) che percorre la letteratura cristiana (la fuga in Egitto, la fuga degli ebrei verso la terra promessa), e attraversando la letteratura romanza (la saga cavalleresca con il mito della ricerca, la fuga verso la maturazione o l'amore) giunge fino al Novecento. [41]

Il romanzo ottocentesco scivola lentamente nella consunzione e cede il passo a nuove forme di sperimentazione, dolorosi tagli, annunciate scoperte: le opere novecentesche approdano a livelli di allarmante originalità. Ma gli archetipi non mutano, secondo Frye, tutta la letteratura naviga in un mare di miti: il critico distingue tra "azioni" e "tema" (l'idea o il pensiero poetico). La nostra ricerca si riferisce ad un tema (l'immagine del viaggio fisico o mentale, volontario o forzato) che è anche un'azione ed ha la funzione di modificare l'equilibrio statico di una narrazione, di creare una nuova possibilità narrativa.

La critica tematica è un'analisi che si muove tra i due poli della psicanalisi e della semiologia: «(…) secondo Starobinski, « non basta inventariare » i temi che rientrano nell'immaginario di un autore, bisogna interrogarsi su quale tema abbia la maggiore e più decisiva rilevanza.» [42] Il suo metodo ha in comune con la psicoanalisi questa ricerca del tema più insistente, ma rimprovera alla critica psicoanalitica di compiere un percorso a ritroso verso gli antecedenti dell'opera, e di perdere di vista il testo. Uno degli studi più interessanti di Starobinski è Ritratto dell'artista da saltimbanco: egli studia la figura del clown e immagini simili (pagliaccio, saltimbanco, ballerina, acrobata), riflettendo sulla reiterazione di quest'immagine nella letteratura e nella pittura tra Ottocento e Novecento. Secondo il critico gli autori non troverebbero nel clownismo solo un tema suggestivo, ma si rispecchierebbero in questa figura, in un'epoca in cui agli artisti è concessa poca attenzione e poca dignità.

Un altro eminente studioso, Jean-Pierre Richard, nel suo lavoro, Proust e il mondo sensibile, in cui analizza La recherche sottolineando i momenti epifanici, le scoperte del senso e dei desideri scrive: «(…) la ricostruzione tematica si basa su un'attenzione fluttuante e rivolta all'implicito, al lancinante, all'ossessivo, all'iterativamente involontario: (…) tra quello che il testo non tematizza da sé, non riconosce. Tematica che perciò sarebbe forse più giusto definire atematica». [43]

Ricordando l'emblematico titolo dello studio di Claudio Magris sui luoghi del ritorno e della fuga, Itaca e oltre, [44] sarebbe utile interrogarsi sul valore pregnante della fuga come motivo dominante nella letteratura moderna e contemporanea. Fuggire lontano spinti da un languore di libertà, tornare alle radici della propria storia tramite una quête psicoanalitica, e poi ancora viaggiare in preda ad affannosa sete di conoscenza: la molteplicità del motivo ciclico fuga-ritorno e l'inesauribile ricchezza semantica delle opere citate offrono agli studiosi notevoli opportunità di ricerca nonché spunti per esercitazioni scolastiche.

 

Note:


[1] H. Laborit, Elogio della fuga, traduzione di L. Prato Caruso, Milano, Oscar Mondadori, 1997, p. 7.

[2] Ivi, p. 14.

[3] «Ah, la vera voglia di viaggiare non è altro che quella voglia pericolosa di pensare senza timori di sorta, di affrontare di petto il mondo e di volere avere delle risposte da tutte le cose, gli uomini, gli avvenimenti. (…) Quando a noi vagabondi giunge il richiamo del ritorno e per noi irrequieti si delinea il luogo del riposo, allora la fine non sarà un congedo, una timida resa, ma piuttosto un assaporare, grati e assetati, la più profonda delle esperienze.» H. Hesse, Il vagabondo, a cura di P. Sorge, Roma, Newton, 1995, pp. 58-59.

[4] C. Magris, Lontano da dove. Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale, Torino, Einaudi, 1971, p. 26.

[5] Nel libro Hotel Savoy, Roth descrive un kafkiano albergo,« in cui s'incontrano e si separano le vittime della guerra disperse in una continua fuga, è uno specchio del vuoto spirituale lasciato dal crollo del "mondo di ieri"». Ivi, pag. 44.

[6] «Georg von Werghentin, sognante, indeciso, è l'inequivocabile rappresentante tipico di quella società del «vuoto dei valori» (…) è quindi un individuo estremamente incostante, con una tendenza a rifugiarsi nel sogno ad occhi aperti, che scopre le sue incertezze esistenziali e l'incapacità a risolverle razionalmente.» A. Schnitzler, Verso la libertà, postfazione di G. Farese, Milano, Bompiani, 1993, p.314.

[7] A. Schnitzler, Fuga nelle tenebre, traduzione di G. Farese, Milano, Adelphi, 1981, p. 143.

[8] M. Proust, À la recherche du temps perdu, Paris, Quarto Gallimard, 1999, p. 1919.

[9] A. Camus, Il primo uomo, traduzione di E. Capriolo, Milano, Bompiani, 1966.

[10] Cfr. E. R. Curtius, Letteratura europea, Bologna, Il Mulino, 1963, pp. 331-361.

[11] Cfr. M. Twain, Le avventure di Tom Sawyer, introduzione di G. Zanmarchi, traduzione di E. Giachino, Torino, Einaudi, 1981.

[12] Cfr. H. Melville, Moby Dick o la balena, traduzione di C. Pavese, Milano, Adelphi, 1987.

[13] J. Steinbeck, Uomini e topi, Milano, Bompiani, 1938, pp. 30-31.

[14] J. Kerouac, Viaggiatore solitario, traduzione di A. Gorbia e S. Duichin, Milano, SugarCo, 1987.

[15] J. Kerouac, Sulla strada, traduzione di M. de Cristofaro, prefazione di F. Pivano, Milano, Mondadori, 1967.

[16] C. Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950, p. 9.

[17] Ivi, p. 12.

[18] G. Verga, I Malavoglia, a cura di S. Zappulla Muscarà, Milano, Mursia 1982, p.291.

[19] Ivi, pp. 298-299.

[20] Cfr. P. M. Rosso di San Secondo, La fuga, prefazione di L. Pirandello, Milano, Treves, 1936, p. 9.

[21] Ivi, p. 10.

[22] P. M. Rosso di San Secondo, La fuga, cit., p. 11.

[23] P. M. Sipala, Appunti sulla narrativa di Rosso di San Secondo, in Borgese, Rosso di San Secondo, Savarese, Atti del Convegno di studio, Catania - Caltanissetta 1980-82, a cura di P. M. Sipala, Roma, Bulzoni Editore, 1983, p. 267-268.

[24] J. Roth, Fuga senza fine, Adelphi, 1976, p. 58.

[25] Cfr. P. M. Sipala, Introduzione a P. M. Rosso di San secondo, La morsa (Milano, Treves, 1918), Palermo, Salvatore Sciascia Editore, 1991, pp. VII-XI.

[26] «(…) il personaggio romanzesco (…) s'accompagna semmai coi vagabondi di Walser o coi fuggiaschi «senza fine» di Roth, con gli esuli e gli apolidi che come svagati o smagati relitti si lasciano trascinare dalla rapinosa deriva di quell'irreversibile crisi. dall'aurorale irrequietezza del pìcaro al fiacco e sodo panico del fuggiasco: e perché mai le considerazioni semiserie del nomade rosso e il destino dei suoi sonnolenti «emigrati», l'uno e gli altri perennemente in fuga da un mondo senza centro e stelle polari, dovrebbero sottrarsi a questa fatale metamorfosi?» in A. Di Grado, Introduzione a P. M. Rosso di San Secondo, La mia esistenza d'acquario (Milano, Treves, 1926), Palermo, Salvatore Sciascia Editore, 1991, pp. VII-VIII.

[27] A. Di Grado, Introduzione a P. M. Rosso di San Secondo, La mia esistenza d'acquario, cit., pp. XVI.

[28] V. Consolo, Postfazione, in Luigi Pirandello, Lettere a Lietta, (trascritte da M. L. Aguirre D'Amico), Milano, Mondadori, 1999, p. 134.

[29] Ivi, p. 136.

[30] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Quaderni inediti, presentazione di E. Montale, Milano, Garzanti, 1987, p. 333.

[31] Cfr. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., pp. 333-346.

[32] L. Pirandello, Lontano in La mosca, Milano, Oscar Mondadori, 1993, p. 148

[33] E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, illustrazioni di R. Guttuso, introduzione e note di G. Falaschi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1995, p. 138.

[34] A. Di Grado, Il silenzio delle Madri, Vittorini da Conversazione in Sicilia al Sempione, Catania, Edizioni Prisma, 1980.

[35] «Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,/ Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu'importe?/ Au fond de l'Inconnue pour trouver du nouveau!» C. Beaudelaire, Les fleurs du mal, traduzione di A. Bertolucci, Milano, Garzanti, 1999, p. 258.

[36] G. Ungaretti, Canzone, in La terra promessa, a cura di L. Piccioni, Milano, Mondadori, 1950, pp. 11-12.

[37] «No, non è questo il mio/paese. Qua/- fra tanta gente che viene,/tanta gente che va-/io sono lontano e solo/(straniero) come/l'angelo in chiesa dove/non c'è Dio. Come,/allo zoo, il gibbone./Nell'ossa ho un'altra città/che mi strugge. È là./l'ho perduta. Città/grigio di giorno e, a notte,/tutta una scintillazione/di lumi- un lume/per ogni vivo, come,/qui al cimitero, un lume/per ogni morto. Città/cui nulla, nemmeno la morte/- mai -, mi ricondurrà.» G. Caproni, Il gibbone, in Congedo del viaggiatore cerimonioso, Milano, Garzanti, 1965, p. 81.

[38] Nota, in G. Caproni, Il gibbone, in Congedo del viaggiatore cerimonioso, op. cit.

[39] C. Segre, Avviamento all'analisi di un testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, p. 342.

[40] Ivi, p. 349.

[41] «Quest'epoca di eroi romanzeschi è in larga misura un'epoca nomade, e i suoi poeti sono spesso degli errabondi. Il menestrello errante cieco è tradizionale sia nella letteratura greca che in quella celtica (…) i trovatori e gli autori di satire goliardiche percorsero nel medioevo tutta l'Europa; Dante stesso fu in esilio. Oppure se il poeta rimane dov'è, è la poesia che viaggia (…) il viaggio meraviglioso è fra tutti i generi della letteratura di invenzione, il più inesauribile, ed è esso che è stato scelto e funge da parabola nella commedia di Dante (…) La poesia dell'esilio, il lamento del Widsith o viandante che può essere un menestrello errante, un amante respinto o un poeta satirico nomade si oppone normalmente ai mondi della memoria e dell'esperienza.» N. Frye, Anatomia della critica, traduzione di Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, Torino, Einaudi, 1969, pp. 77-78.

[42] J. Starobinski, Ritratto dell'artista da saltimbanco, traduzione di C. Bologna, Torino, Boringhieri, 1984.

[43] J. P. Richard, Proust e il mondo sensibile, traduzione di E. Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1976, p. 234.

[44] C. Magris, Itaca e oltre, Milano, Garzanti, Gli elefanti, 1999.