Schizzi di scuola, Bologna, Pendragon, 2021
Quell’incorreggibile clown del professore
Quando entriamo in classe, che lo si stia facendo fisicamente o perché invitati come lettori di un libro sulla scuola, è un po’ come entrare in una di quelle case degli specchi dei vecchi Luna Park: rivediamo i nostri professori nel gesto di appendere il cappotto, aprire il registro, inforcare gli occhiali, rivediamo i nostri compagni, gli eternamente devoti della prima fila, gli svogliati ma pur sempre timorosi, i menefreghisti e i provocatori; e infine rivediamo noi stessi, gli alunni che siamo stati e per alcuni di noi, pazzi recidivanti, gli insegnanti che siamo diventati. È un gioco di specchi la scuola, di ricordi deformati dal tempo, di continue ricerche di conferme, di fraintendimenti, delusioni, inganni. In Senza vocazione, Dano Turrini, professore di scuola superiore in pensione, ci apre la porta delle sue classi - 22 schizzi di scuola, intervallati da stralunati intermezzi- e chiama in causa proprio noi lettori, dandoci del tu, dispensando consigli, mettendoci in guardia:
mai scoprirti, mai mostrarti indeciso. Se ti scopri ti trafiggono, non c’è scritto in nessun manuale di pedagogia, ma il tuo istinto ti dice che è così.
A chi si rivolge il professore? - domanda non a caso Magda Indiveri nella postfazione. Chi si nasconde dietro quel tu? Che il vecchio professore stia parlando a sé stesso? Si sa che i professori hanno questo vizio. Oppure si sta rivolgendo a un giovane insegnante che si appresta ad entrare per la prima volta in una classe? Bisogna pur lasciare il testimone…
Con una capacità ironica di affrescare il mondo della scuola che ricorda lo Starnone di Ex cattedra (con un tono, però, decisamente più sarcastico e insieme volutamente desolato) Turrini passa in rassegna un po’ tutte le tipologie di alunni, fotografa la svariata e allucinata umanità dei consigli di classe, indaga il senso di fallimento dell’insegnante, dibatte sull’eterna questione dei voti, dell’orientamento che non orienta… Se fossi una giovane in procinto di entrare in classe, non so quali effetti sortirebbe la lettura di questo libro: forse me la darei a gambe levate! Ma in cattedra ci sono da diciassette anni…
Al di là dello stile beffardo e solo apparentemente cinico adottato dall’autore per raccontarsi e consegnarci il personaggio fintamente svagato e l’understatement (come suggerisce Indiveri) del professor Turrini, in cui ci si può o meno ritrovare d’accordo, Senza vocazione affronta tre questioni fondamentali, tre nodi ancora tutti da sciogliere quando si parla di scuola: il narcisismo, la seduzione e, come si intuisce dal titolo, la vocazione. Tutte questioni strettamente legate tra di loro.
«Se hai paura delle ferite narcisistiche», si legge tra parentesi nella prima pagina del libro «l’insegnamento non è il tuo mestiere». Come a dire: oltre alla speranza, lasciate ogni narcisismo voi ch’entrate. Spesso molto più fragili dei loro stessi studenti adolescenti, gli insegnanti sono alla ricerca di approvazione, di applausi, quasi ossessionati dalla propria performance, con la pretesa (in linea con i tempi) di accendere immediatamente l’attenzione della classe e, ancora più difficile, l’entusiasmo generale. Ma spesso i ragazzi appaiono distratti, stanchi, attratti da tutto tranne che dalla poesia che in quel momento stiamo declamando a voce alta in classe: possibile che non ci ascoltino? che non si lascino trascinare dalla perfezione di quei versi? Con il loro atteggiamento imperdonabile gli studenti ci mettono di fronte al nostro fallimento: ma si tratta veramente di fallimento? o si tratta piuttosto delle ferite sanguinanti del nostro ego?
Basterebbe saper attendere, a volte anche molti anni, e quando meno te lo aspetti, come accade negli intermezzi del libro, succede che quegli stessi ragazzi ti vengano a suonare al campanello per festeggiare insieme la fine di un percorso, che lavorino nel bar dove ti sei fermato a fare colazione o nell’ospedale dove hai prenotato una visita, e anche se hai declinato bruscamente il loro invito, o peggio ancora, anche se non li hai nemmeno riconosciuti (sarà vero poi?), è proprio in quei momenti che arriva, persino per il burbero Turrini, l’inaspettata gratificazione. Perché il tempo della scuola è un tempo lento. E il tempo degli studenti, un tempo molto diverso dal nostro.
Poi c’è il gioco, a volte pericoloso, della seduzione, e non riguarda solo i narcisisti come si vorrebbe credere: «l’insegnante è come lo psicanalista, seduce ma non viene sedotto, o almeno deve fingere di non esserlo.» Per Turrini «la relazione didattica è di necessità disinteressata», l’erotismo è «di necessità asimmetrico», perché «se non ti mantieni su un altro piano, fuori abbraccio e fuori gara, non puoi insegnare niente.» Tutto vero: l’equilibrio è difficilissimo, la relazione con gli alunni delicatissima, ma non bisogna cadere nel rischio contrario e cioè temere, come scrivere Bell Hooks nel suo magnifico Insegnare comunità, di avvicinarsi troppo agli studenti:
contrariamente all’idea che l’amore agito in classe renda gli insegnanti meno obiettivi, quando insegniamo con amore siamo in grado di reagire meglio alle problematiche specifiche dei singoli studenti, riuscendo allo stesso tempo a integrarle con quelle della comunità costituita dalla classe.
Amore: che parola pericolosa nella relazione didattica. Sono certa che il personaggio Turrini storcerebbe il naso, eppure di amore per gli studenti (anche se camuffato) e per il mestiere dell’insegnante (anche se ironicamente bistrattato) si parla tra le righe di Senza vocazione.
C’è infine la questione della vocazione, concetto di per sé insidioso, e non solo per l’insegnante:
ecco il limite che ti sembra di aver sfiorato in quell’occasione, animato dalla presunzione che la scuola, cioè i bravi insegnanti vocati, possano vincere il male del mondo, fare trionfare il bene eccetera. Per poco non ci caschi.
L’immagine dell’insegnante vocato, all’Attimo fuggente, per intenderci, è sempre in agguato. Senza arrivare al tragico epilogo del film, noi insegnanti sappiamo bene (o almeno dovremmo sapere bene) quanto l’entusiasmo eccessivo, per non dire cieco, possa essere soverchiante, quanto un ego e una seduttività incontrollati possano rappresentare un pericolo. Un vero insegnante vocato cerca di entrarti dentro l’anima, dice a Turrini uno studente in fuga da una collega: «tutto purché non cerchino di entrarmi nell’anima». Letta in questi termini la vocazione diventa fanatismo e addirittura violazione. E tuttavia, con gentilezza, senza rimanere intrappolati dal proprio ego, è davvero possibile insegnare escludendo in partenza non dico la salvezza, ma almeno la speranza, come in alcuni passi il professor Turrini sembrerebbe pensare?
Liberando la parola vocazione dal concetto di missione, troppo spesso ad essa sotteso, a me piace pensarla come Bell Hooks, ovvero che l’educare sia «una vocazione radicata nella speranza». Come il collega Turrini, però, tra tutte le metafore che descrivono il mondo della scuola, mi ritrovo a prediligere quella del circo, e tra tutti i ruoli che si possono interpretare da professori, dal domatore all’acrobata, dal giocoliere al prestigiatore, anch’io continuo a sentirmi più a mio agio nel ruolo del clown, che ha l’obbligo più difficile da mantenere, quello “della sincerità nella finzione”.
10 luglio 2023