Graziella Bassi - La bellezza nella morte

Un percorso intertestuale da Dante a Manzoni

La morte, da sempre nelle civiltà delle varie epoche storico – culturali dell’Occidente, suscita sentimenti di paura, orrore, pietà, ma anche senso del mistero, ossessione per la fugacità del tempo che annulla tutto ciò che di effimero vi è nell’esperienza umana, come la bellezza fisica. Nella canzone Donna pietosa, Dante ci introduce in un’atmosfera un po’ surreale, da sogno della mente, come l’ha definita Maria Corti [1], per condurci di fronte a un quadro di «amarissima pena» anche di Dante stesso, colpito da una dolorosa infermità durante la quale ha una visione che gli preannuncia la morte della stessa Beatrice [2]. La prosa che precede la canzone è un testo di importanza decisiva per capire come la canzone stessa, al centro delle rime della lode, nasca dalla coscienza della  precarietà e della miseria della condizione umana; sull’esistenza nel tempo, umano e contingente, trionferà qui definitivamente «uno slancio nuovo e altissimo del sentimento […], per attingere una dimensione d’eternità sottratta a ogni contingenza; l’amore diviene compartecipazione alla gloria di Beatrice»; con ciò Dante viene a stabilire le condizioni per cui Beatrice, pur morendo, possa continuare a vivere e le parole che la lodano non vengano meno [3]. Il presagio di morte è espresso attraverso la ricorrenza di immagini bibliche ed evangeliche, riconosciute dal critico De Robertis. La quarta stanza si apre con il verso «Poi vidi cose dubitose molte», dove l’aggettivo «dubitose» significa “tali da suscitare paura” [4]; l’atmosfera onirica è sottolineata dal verbo «mi parea», che solitamente è spia della visione. Le immagini di strazio e di lutto si aggiungono a quelle apocalittiche che affiancano la morte dell’amata a quella di Cristo: «veder donne andar per via disciolte» (v. 46): i capelli sciolti sono evidente segno di lutto; «traendo guai» (v. 47): lamentandosi, espressione che si ritroverà al v. 48 del V canto dell’Inferno e al v. 22 del XII; «turbar lo sole e apparir la stella»: l’immagine del sole che si oscura è presente in Matteo 24, 29, ma anche in Isaia 13, 10, Ezechiele 22, 32, 7; Gioele 2, 10, 31 e 3, 15; quella delle stelle in Ezechiele 22, 32, 7; «cader li augelli volando per l’are» (v. 52): fonde le “stellae cadent de caelo” di Matteo 24, 29 con l’ “omne volatile caelo recessit” di Geremia 4, 25; «e la terra tremare» (v. 53): è ancora Matteo 28, 2, ma anche Apocalisse 6, 12. La quarta stanza si conclude con «Morta è la donna tua ch’era sì bella» (v. 56): secondo Pazzaglia, le due parole all'inizio e alla fine dell'ultimo verso, «morta» e «bella», «dominano il delirio e l'apocalittica visione con la presa di coscienza dolce e desolata del fascino e della disperata insufficienza dell'effimero: un dramma, certo, intimamente cristiano, ma vissuto, fuori d'ogni sovrasenso simbolico, come umanissima pena. Più tardi, in Pg XXXI 49-54, Dante, per bocca di Beatrice, trarrà la conclusione dottrinale ed etica dell'evento: la morte di quella creatura bellissima avrebbe dovuto indurlo a liberarsi dall'amore per le cose fallaci; ma qui vi è soltanto il senso, la scoperta esistenziale della morte, della fragilità che insidia anche i sentimenti più alti, la desolazione del perire di ogni cosa bella» [5].
Nell’ultima stanza il poeta può definire «dolce» e «gentile» la morte stessa, proprio perché essa è venuta in contatto con Beatrice, fonte di ogni bene; a questo punto, anche la morte non sarà più una pena, ma anzi una vera liberazione. Egli aveva già invocato la «Dolcissima Morte» al paragrafo IX.

Io divenia nel dolor sì umile,
veggendo in lei tanta umiltà formata,
ch’io dicea: – Morte, assai dolce ti tegno;
tu dei omai esser cosa gentile,
poi che tu se’ ne la mia donna stata,
e dei aver pietate e non disdegno.

Dal punto di vista stilistico è da notare innanzitutto la positio princeps riservata al sostantivo Donna, come nella canzone Donne ch’avete (cap. XIX); l’allusione alla dimensione del sovrannaturale, del miracoloso, è presente al v. 13 con l’aggettivo «nova» («Allor lassai la nova fantasia»); il componimento, inoltre, è ricco di figure retoriche, legate prevalentemente al tema dell’amore, come, ad esempio, personificazioni (vv. 20, 31, 63); assonanze (nome-core, v. 17); omeoteleuti (amore nel core, v. 31); ma anche al tema della Morte: personificazioni (vv. 3,73), ripetizioni (morra’ti, morra’ti, v. 42); al v. 66, nei due termini «madonna morta» si cela il nome amor. Infine è da notare l’ossimoro “umiltà verace “(v. 69), in relazione ad un altro importante motivo: l’umiltà, ricorrente anche nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (vv. 5-6 ella si va, sentendosi laudare, benignamente di umiltà vestuta), motivo francescano.
Al verso 70 della canzone è presente il tema della pace interiore che si può trovare nella morte:

Lo imaginar fallace
mi condusse a veder madonna morta;
e quand’io l’avea scorta,
vedea che donne la covrian d’un velo;
ed avea seco umilità verace,
che parea che dicesse: – Io sono in pace. –

 «io sono in pace», motivo che verrà poi ripreso da Tasso nell’episodio della morte di Clorinda nella Gerusalemme liberata («e in atto di morir, lieto e vivace dir parea: ‘s’apre il cielo, io vado in pace’»).
Dante, nel suo componimento, canta, nel mito dell’amore, un ideale di elevazione che però ha un riscontro con la problematicità dell’esistenza, espressione della morte. A partire dalla sconvolgente certezza dell’incubo della morte alla visione apocalittica della quarta stanza, fino all’apparizione dell’«omo scolorito e fioco», si rivela la maggiore drammaticità nell’annuncio: Morta è la donna tua ch’era sì bella.

Occorre premettere che anche per l’agostiniano Francesco Petrarca «il sogno è il luogo del perturbante», durante il quale possono verificarsi eventi o «apparire immagini in combinazioni desuete, meravigliose o spaventose, che la realtà del giorno rifiuta». Da ciò la necessità di distinguere «tra rigorosa autocoscienza e confusa congerie ‘fantasmatum’». Occorre quindi escogitare «una tecnica della visione in cui il diurno sia ben distinguibile dal notturno, il chiaro dal confuso» [6]. Il terzo dei Triumphi di Petrarca ha come protagonista la morte, vista come una dama vestita di nero che strappa un capello a Laura, secondo il mito classico proposto anche nel IV libro dell’Eneide di Virgilio, e pone fine alla sua vita terrena il 6 aprile 1348, dopo pochi giorni di febbre. Tra le fonti delle immagini perturbanti un posto di primo piano occupa senza dubbio l’amore: innamoramento e sogno rappresentano, infatti, per Petrarca «un essenziale nucleo di produzione di immagini» e sono dunque «alla radice di tutte le valenze ‘fantasmatiche’ della scrittura poetica», come viene ribadito nel De remediis utriusque fortunae, nel capitolo “De gratis amoribus”, in cui Petrarca riprende il verso virgiliano «Qui amanti ipsi sibi somnia fingunt» (Ecl. VIII, v. 108), verso tra i più citati dal poeta in contesti dove amore, sogno e fictio interagiscono.  Tale citazione istituisce dunque la ‘fictio’ poetica come orditura onirica cui la memoria, agostinianamente, fornisce le ‘species’ fantasmatiche.
All’inizio dei Triumphi, infatti, l’impulso poetico-onirico è posto sotto il dominio della memoria, che, ancora nel De remediis è la radice dell’immaginario. Per attivare la scrittura poetica è dunque necessario il legame tra ‘fictio’ e sofferenza, come è indispensabile quel “patto con gli occhi”, che consenta la scansione dei fantasmi secondo un ordinato ritmo poetico [7]:

Lo spirto, per partir di quel bel seno,
con tutte sue virtuti, in sé romito,

fatto avea in quella parte il ciel sereno.                             153
Nessun degli avversari fu sì ardito
ch’apparisse già mai con vista oscura
fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.                           156
Poi che deposto il pianto e la paura
pur al bel volto era ciascuna intenta,
per desperazïon fatta sicura,                                             159
non come fiamma che per forza è spenta,
ma che per sé medesma si consume,
se n’andò in pace l’anima contenta,                                  162
a guisa d’un soave e chiaro lume
cui nutrimento a poco a poco manca,

tenendo al fine il suo caro costume.                                  165
Pallida no, ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca.                                   168
Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso.  
(Triumphus Mortis, I, 151-172)

Nel passo sopra riportato si descrive come l'anima di Laura, per allontanarsi dal bel corpo mortale di lei, si è raccolta in sé, con tutte le sue virtù, mentre il cielo si è fatto sereno in quella zona verso cui l'anima si dirigeva. Nessuno degli avversari (i demoni infernali) fu così audace da mostrarsi con la sua orrida presenza, fino a quando la morte ebbe compiuto il suo assalto. Dopo che, avendo smesso di piangere e di avere timore, ognuna delle amiche era intenta soltanto a guardare il suo bel viso ed era ormai meno turbata per la caduta di ogni speranza («per desperazion»), non come una fiamma che è spenta da una forza esterna, ma che è consumata da se stessa per un processo naturale, l'anima serena se ne andò in pace, come una luce lieve e chiara a cui manca a poco a poco ciò che la alimenta e che mantiene fino allo spegnersi («tenendo al fine») il suo aspetto delicato e sereno («caro costume»). Non pallida, ma candida più della neve che scende su un bel colle senza essere deviata dal vento, sembrava che riposasse come una persona stanca: essendosi l'anima già separata dal corpo, i suoi begli occhi caddero quasi come in un dolce sonno, quello che gli sciocchi chiamano morte: anche la morte sembrava bella, impressa nel suo bel viso.
«Lo spirto, per partir di quel bel seno, /con tutte sue virtuti, in sé romito» è una sorta di ablativo assoluto con aggettivo anziché con participio; «fatto avea» non ha per soggetto «lo spirto» ma è un impersonale: secondo Appel, «fatto era» sembra essere infatti la variante d’autore.  Il passo riportato, dal punto di vista lessicale e delle rime, è intessuto di richiami intertestuali al Canzoniere e alla Commedia. Per citare alcuni esempi: «bel seno» rimanda a «Un ramoscel di palma /et un di lauro trae del suo bel seno / e dice: “Dal sereno/ ciel empireo e di quelle sante parti”» (Canzoniere, CCCLIX, vv. 7-10); «l’angelico seno» è in rima con «aere sacro sereno» nella canzone CXXVI, Chiare, fresche et dolci acque; secondo Contini, «in sé romito» rinvia a «l’ombra, tutta in sé romita» (Pg., VI, v. 72); «fatto avea» a «Fatto avea di là mane e di qua sera/ tal foce», dove non è impersonale (Pd, I, vv. 43-44); l’«assalto», che qui è di Morte (v. 156), nel Canzoniere è sempre quello di Amore (XXIII, v. 21); (CXXV, v. 28); «deposto» riecheggia «deposta avea l’usata leggiadria» (Canzoniere, CCXLIX, v. 9), ma anche il dantesco «ogni vergogna diposta» (Pg, XI, v.135). Numerosi sono anche i richiami ai classici: Seneca, Cicerone, Ovidio, ma anche Lattanzio, Tibullo, Agostino. Il verso 159 «per desperazion fatta sicura» traduce Seneca: «Factus sum ex ipsa desperatione securior» (Naturales Quaestiones, VI, 2, 1), citato in Familiares, I, 1, 44; i versi 160-161 rimandano a Cicerone: «Itaque adulescentes mihi mori sic videntur ut cum aquae multitudine flammae vis opprimitur; senes autem sic ut sua sponte, nulla adhibita vi, consumptus ignis extinguitur» (Cato Maior de senectute, XIX, 71), ma anche a Ovidio: «ut intabescere flavae / igne levi cerae matutineque pruinae / sole tepente solent, sic adtenuatus amore/ liquitur et caeco paulatim carpitur igni» (Metamorfosi, III, vv. 487-489); immagini simili si trovano anche in Seneca e Lattanzio. Al v.162, «se n’andò» è lezione presente in un solo manoscritto, mentre gli altri danno «né vada», da interpretare come «o (che) vada», coordinato al «non» del v. 160, o come inizio di un periodo che dovrebbe concludersi con «stanca» (v.168); «in pace» (v. 162) richiama «mora in pace et in porto» (Canzoniere, CCCLXV, v.10); «contenta»: «da gir tosto ove spera esser contenta» (Canzoniere, CLXXVIII, v.11) e «ella contenta aver cangiato albergo» (CCCXLVI, v. 9); «nutrimento» del v. 164 è hapax, come in Dante (Pd, XVII, v.131) e come nel Canzoniere (CCCXXXI): «mancando a la mia vita stanca/ quel caro nutrimento». [8]
Quanto al pallore, il verso «Pallida no, ma più che neve bianca» è stato erroneamente interpretato da De Sanctis e da altri prima di lui [9] come espressione della volontà di Petrarca di enunciare una gradazione ascendente del bianco sul volto della donna morta, dal chiaro tenue del pallido al candore del bianco - neve, considerando l’avversativa «ma» come indice della contrapposizione di due gradi della stessa qualità: Laura non era bianca, ma bianchissima.
Come ha ben chiarito Michele Feo, l’aggettivo pallidus/pallens, «pallido», indica fondamentalmente non il colore bianco del volto, inesistente nella realtà, ma la perdita del proprio colore, l’essere scolorito, smorto, nel significato acromatico oggi dominante; per altro verso l’aggettivo indica le tonalità più opache e spente del colore giallo: il giallognolo, il giallastro. L’uso retorico o espressionistico ha reso poi obsoleto il valore originario del termine in latino e, successivamente, in italiano, a favore di significati collaterali o derivati [10].
«Pallido», per Petrarca, è indice di disfacimento, è il colore indotto dalla paura e dalle emozioni incontrollate, quello di chi si consuma per amore, e denota sempre un offuscamento della bellezza.
Nel Canzoniere, infatti, il pallore appare sul viso di Laura come una «nebbia», anche se «amorosa»: «Quel vago impallidir del dolce riso / d’una amorosa nebbia ricoperse». L’ impallidire diventa qui bello, «vago», perché è il colore dell’amore e rivela all’amante i sentimenti della donna; è però un’ombra che toglie splendore al «dolce riso». Ma l’elemento più significativo è il fatto che, per Petrarca, il pallore è il colore dei morti. Pallida è per lui, come per Orazio, la morte stessa, in Africa, II, 420; in Canzoniere CCCXXXII, 29; in Triumphus Famae I, 4 – 5: quella dispietata e rea, / pallida in vista, orribile e superba.
Petrarca, talvolta, per descrivere il suo o l’altrui pallore di innamorato, ricorre a perifrasi come «colore dei morti», come già Dante nella Vita nuova (XXIII, 21 – 22).
Come è testimoniato anche da Fam. V, 7, in cui il poeta, il giorno stesso della morte di Giacomo Colonna lo vide in sogno, ed egli gli apparve in viaggio verso Roma, dove Petrarca avrebbe voluto seguirlo, ma il cardinale lo respingeva, il pallore è il tratto più evidente, e nel contempo più ripugnante, della presenza della morte: «figo oculos atque exangui pallore mortuum agnosco». Nell’undicesima egloga del Bucolicum carmen la morte ha violato le membra rosate, il collo, le guance, gli occhi splendenti di Galatea - Laura, che mostra nel volto pallido la traccia inequivocabile di tale empietà. Nella visione del Triumphus Mortis, Petrarca ha placato, in un quadro memorabile di quiete e di bellezza, quel dolore senza luce. Per Laura non c’è pallore di morte, ma solo biancore di neve.
Nel Trionfo della morte Laura risplende di una bellezza totale, senza ombre, finalmente vittoriosa. Se nel Secretum Petrarca aveva negato la bellezza corporea, ora la situazione è capovolta: non si rifiuta la bellezza per sconfiggere la morte, ma si sconfigge la morte attraverso la riaffermazione, la difesa, la creazione e l’immortalarsi della bellezza. Se il pallore è il tratto più repellente della morte, Laura morta non lo reca su di sé, portando solo il bianco, che per la civiltà classica è il colore della bellezza. Si passa così dalla morte orrida alla ‘morte bella’  [11].

Anche Lorenzo de’ Medici rappresentò una ‘morte bella’, quella di Simonetta Cattaneo Vespucci, rimanendo però circoscritto nello schema petrarchesco della bellezza che vince la morte [12].
Si tratta del primo di quattro sonetti dedicati al funesto evento che colpì molti a Firenze: la morte per tisi, a soli ventitré anni, della bellissima giovane donna amata da Giuliano, fratello di Lorenzo, protagonista con lei delle Stanze per la giostra di Poliziano.

«Morì, come sopra dicemmo, nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione ugualmente tutto il popolo fiorentino, non è gran maraviglia perchè di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata, quanto alcuna che innanzi a lei fusse suta. E in fra l’altre sue eccelenti doti avea e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati. … E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi carissima, pure la compassione della morte, e per l’età molto verde e la bellezza, che così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei un ardentissimo desiderio. E perchè da casa al luogo della sepoltura fu portata scoperta, a tutti che concorsono per vederla mosse grande copia di lacrime: de’ quali, in quelli che prima n’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacque ammirazione che lei nella morte avesse superato quella bellezza che, viva, pareva, insuperabile» [13].

O chiara stella, che coi raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più che ‘l tuo costume?
Perché con Phebo ancor contender vuoi?
Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, che omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor nume,
il suo bel carro a Phebo chieder puoi.
O questo o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata essaudi, o nume, i voti nostri:
leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo,
sanza altra offensïon lieta ti mostri.

«Era notte e andavamo insieme parlando di questa comune iattura uno carissimo amico mio e io; e così parlando, et essendo il tempo molto sereno, voltavamo gli occhi a una chiarissima stella, la quale verso l’occidente si vedeva, di tanto splendore certamente, che non solamente di gran lunga l’altre stelle superava, ma era tanto lucida, che faceva fare qualche ombra a quelli corpi che a tale luce s’opponevono. E, avendone di principio ammirazione, io, vòlto a questo mio amico, dissi: – Non ce ne maravigliamo, perché l’anima di quella gentilissima o è transformata in questa nuova stella o si è coniunta con essa; e, se questo è, non pare mirabile questo splendore. E però, come fu la bellezza sua, viva, di gran conforto agli occhi nostri, confortiamogli al presente con la visione di questa chiarissima stella; e se la vista nostra è debole e frale a tanta luce, preghiamo el nume, cioè la divinità sua, che li fortifichi, levando una parte di tanto splendore, per modo che sanza offensione degli occhi la possiamo alquanto contemplare. E per certo, essendo ornata della bellezza di colei, non è presuntuosa volendo vincere di splendore l’altre stelle, ma ancora potrebbe contendere con Phebo e domandarli il suo carro, per essere auttrice lei del giorno. E, se questo è, che sanza presunzione questa stella possi fare questo, grandissima presunzione è suta quella della morte, avendo manomessa tanta excellentissima bellezza e virtù –. Parendomi questi ragionamenti assai buona materia a uno sonetto, mi parti’ da quello amico mio e composi il presente sonetto, nel quale parlo alla sopra detta stella».
Simonetta è presentata come una donna nobile e bella, «gentilissima», come la Beatrice della Vita nuova di Dante, che è il modello scelto da Lorenzo per la composizione del Comento ai suoi sonetti, peraltro incompiuto. Come Beatrice, Simonetta è in grado di risvegliare in chi la incontra i sentimenti migliori ed è paragonata ad una stella che risplende in cielo più di ogni altra, tanto da offuscare gli altri astri con la sua luce, arrivando a contendere al sole il carro, proprio per l’eccezionale luminosità che da lei promana. Lorenzo accosta la donna anche alla Laura cantata da Petrarca, altro suo modello lirico, nel Canzoniere, simile a lei in quanto priva del significato religioso assunto da Beatrice. Egli cita, anche se in modo un po’ impreciso, il Triumphus Mortis di Petrarca (I, 172), in cui era descritta Laura ormai senza vita e si diceva che "Morte bella parea nel suo bel viso".

Tasso, vivendo e operando sul discrimine di due epoche, sconfina e rompe l’equilibrio petrarchesco degli opposti: bellezza era nata dall’equilibrio di amore e pallore, dal dominio del candore sulla morte; ora la bellezza nasce da morte (brutta) più pallore (brutto): col «bel pallore» di Clorinda tramontano concezioni e miti dell’età umanistica. La novità del «bel pallore» probabilmente riuscì a passare attraverso gli schemi retorici rinascimentali, mentre le ragioni storiche profonde sono da ricercare nella crisi della società cinquecentesca. La fusione del pallore con la delicata bellezza delle viole contribuisce a purificare il colore di morte della sua bruttezza [14].

52
Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte,
che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte.»

53
«Guerra e morte avrai»; disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

 Clorinda è figura centrale nel canto XII, snodo cruciale nel tessuto drammatico del poema, e la sua morte, per mano di Tancredi durante un duello, è la trasposizione sul piano della realtà della metafora lirica della donna vista come nemica amorosa.
La battuta con cui si chiude l’ottava 52 introduce l’elemento della ferocia, anche se oscura e inconsapevole, che diverrà la cifra espressiva nello scontro tra i due amanti impossibili: «O tu, che porte, / che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte» [15]. All’inizio dell’ottava 53 si replica la battuta, come restituzione della sfida, secondo il codice cavalleresco: «Guerra e morte avrai»; disse «io non rifiuto / darlati, se la cerchi» […]. Le prime mosse del duello riflettono il codice cavalleresco sia nella fermezza di Clorinda sia nella cortesia di Tancredi, che rinuncia al cavallo, vedendo il suo avversario a piedi; ma nella seconda parte dell’ottava 53 si infiammano gli animi e l’orgoglio, insieme alla rabbia, si affila con l’affilarsi delle spade.

54
Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sí memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,
piacciati ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.

Nell’ottava 54, che fa da cornice al duello, interviene con un commento il narratore: la virtù profusa nello scontro, il valore dei combattenti sarebbero degni della luce del sole e di un teatro gremito, ma sono avvolti dall’oscurità, in un luogo deserto presso Gerusalemme [16]. Secondo Gorni, la scena del combattimento «è in effetti un teatro» e tutta l’ottava 54, «che implora la notte di voler sottrarre alla sua ombra il duello dei due eroi, ha un’intensa virtù evocativa e un evidente valore metatestuale», quasi ad indicare, nello sviluppo del canto, «l’apertura di uno spazio nuovo, dramma più che epos, azione scenica e non racconto» [17].
Anche Ferroni sottolinea la presenza costante del senso scenico nell’opera di Tasso, senso della spettacolarità che sarà poi esaltato dalla cultura barocca, e che si attua nel palcoscenico naturale della notte, in cui i due protagonisti «precipitano in un furore fatale e spaventoso, si battono in uno scontro all’insegna del caos e della rabbia disordinata» [18].
Tasso fornisce al lettore il segnale di un episodio estremamente importante nell’economia del poema, in cui l’autore mette abilmente in scena quella che Tomasi definisce “virtuosistica orchestrazione dei punti di vista”, tra la voce narrante e lo sguardo interno dei protagonisti, in particolare di Tancredi [19].

55
Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ‘l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ‘n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.

56
L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Lo scontro si fa sempre più serrato e in esso i corpi, pressoché indistinti nella mischia e nell’oscurità, costituiscono una sorta di unità plastica nella mente dell’autore, come ha osservato Chiappelli nel suo commento [20].

57
Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.

Il contrasto fra il Tancredi che ama Clorinda e quello che la combatte ferocemente, ignorandone l’identità, si fa limpido ed è commentato dalla voce narrante, che evidenzia il divario tra lo stringersi violento dei corpi e quello, molto diverso, sperato dai pensieri d’amore: «nodi di fer nemico e non d’amante». La passione è superata e azzerata dalla furia del duello; l’uso di un linguaggio pervaso di lirismo accentua maggiormente lo scarto tra i desideri di Tancredi e ciò che sta avvenendo [21]. Secondo Di Benedetto, la situazione paradossale potrebbe anche essere letta come una ripresa letterale e amplificata di certo metaforismo militare della poesia amorosa, tanto che l’abbraccio mortale sembra invece un abbraccio amoroso [22]. Ferroni individua nella scena il regno dell’eros più violento e sotterraneo: i nodi tenaci con cui Tancredi stringe a sé Clorinda, che di divincola con furia, ricordano molto i nodi e i lacci d’amore nelle metafore della lirica. «Nodi di fer nemico e non d’amante»: ma la donna non è sempre amata nemica nella poesia amorosa? – si domanda lo studioso. [23].

58
L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ‘l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

L’ottava 58 costituisce una pausa lirica tra i duellanti, un momento di sospensione, e riprende un topos della narrazione cavalleresca: la pausa e il dialogo tra i combattenti [24]. Tancredi e Clorinda non smettono di guardarsi, anche durante la pausa, quando albeggia. La comunicazione tra loro non conosce tregua e non ha accenti di nobiltà cavalleresca: «in amore e in guerra non ci sono mezze misure» [25]. La profonda commistione, tipica della cultura occidentale, tra conquista bellica e conquista della donna avrebbe origine nell’istituto della cavalleria [26].

64
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.

65
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.

Nell’ottava 64 siamo al momento «fatale» della morte di Clorinda: la tragedia, che grava sul destino di lei, è ormai ineluttabile. I vv. 3 – 4 contengono un’immagine cruenta e luttuosa, di profanazione, tuttavia pervasa di sensualità [27].  Tale declinazione si rivela in modo più evidente nei vv. 5 – 6, con l’evocazione della veste, «che d’or vago trapunta / le mammelle stringea tenera e leve», momento di di agnizione per Clorinda stessa, che solo in punto di morte riacquista «la sua mortificata natura di donna» [28]. Ad ulteriore conferma della tessitura sensuale si possono evidenziare i due enjambement: «sente / morirsi» (64, 7 – 8), che ci dà la prospettiva di Clorinda e il suo improvviso percepire la morte, e «trafitta / vergine» (65, 1- 2), con Tancredi che, ancora ignaro, pressa da vicino la nemica. Clorinda, non più guerriera ma donna indifesa, parla ispirata   dalle tre virtù teologali (fede, speranza, carità), ormai entrata in un’ottica cristiana [29].

66
«Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave.»
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

67
Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Il motivo del battesimo in punto di morte ha precedenti nell’Orlando innamorato di Boiardo, nel celebre episodio del duello tra Orlando e Agricane. Il bellicoso re dei Tartari, invaghitosi di Angelica, assedia la città di Albraca in cui la fanciulla si nasconde e, attirato Orlando in un bosco, lontano dalla città, lo affronta in duello con l’intenzione di ucciderlo, ma Orlando lo ferisce mortalmente nel durissimo scontro. Il cavaliere saraceno, convertitosi al cristianesimo in punto di morte, chiede a Orlando di battezzarlo con l’acqua di una fontana.
La conversione del pagano sconfitto, ma non necessariamente morente, è un luogo comune della narrativa cavalleresca secondo Di Benedetto, che considera l’episodio di Boiardo la fonte precisa del duello di Tancredi e Clorinda [30].
Tancredi compie «il grande ufficio e pio» di dare il battesimo a Clorinda riempiendo il suo elmo a un piccolo ruscello che «scaturia mormorando»: i due verbi, onomatopeici, uniti al sostantivo «rio» danno risalto al gesto di cristiana pietà, compiuto con l’acqua. Ma l’eroe torna «mesto», quasi presago di quanto sta per accadere. Da notare l’asindeto dell’azione: «La vide, la conobbe» e il polisindeto del suo effetto: «e restò senza / e voce e moto» [31]. L’enjambement costringe anche il lettore, per un attimo, a restare ammutolito e immobile «senza voce / e moto». L’intervento esclamativo dell’autore: «Ahi vista! Ahi conoscenza!» conferisce maggiore drammaticità al racconto e descrive efficacemente la reazione stupita di Tancredi.

68
Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea:«S’apre il cielo; io vado in pace.»

I primi quattro versi dell’ottava sono articolati in una sorta di chiasmo tra il non morire di Tancredi e il dare vita, in senso spirituale, con il battesimo, a colei che ha ucciso fisicamente con la spada. Di fronte alla lacerazione interiore di Tancredi, una luce si diffonde sul volto e nell’animo di Clorinda, che riflette nel suo sorriso una dimensione ultraterrena: la morte diviene così gioiosa, quasi una trasfigurazione («trasmutossi»), che rimanda a Dante (Vita nuova, XIV) e a Petrarca (Triumphus Mortis, I, 162: «Se n’andò in pace l’anima contenta») [32].

69
D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

In questa ottava si trovano memorie classiche del pallore (Properzio, Ecl., III, 29 – 30; Virgilio, Buc., II, 47), e alcune tessere petrarchesche come quella dello sguardo rivolto al sole (Tr. Mort., II, 40), per cui nei versi 3- 4 tutta la volta celeste sembra riflettersi negli occhi di Clorinda come per rispondere al suo sguardo. Gli ultimi due versi dell’ottava rimandano a Tr. Mort., I, 169 – 172: «e gli aveva al ciel fissi» [33]; la morte è qui paragonata al sonno, come in Petrarca è «un dolce dormir».
I tratti caratteristici del personaggio di Clorinda sono, secondo Di Benedetto, il contrasto tra la sua femminilità e l’apparente virilità conferitale dall’armatura; la contrapposizione tra avvenenza e marzialità; tra l’amore che ispira in Tancredi e l’ostilità di implacabile nemica. I modelli letterari sono la Camilla virgiliana; le donne guerriere del poema cavalleresco (Bradamante e Marfisa); la Nicandra dell’ Italia liberata da’ Gotti di Gian Giorgio Trissino, trafitta dalla lancia di Turrismondo (nome che diventerà il titolo di un’opera di Tasso), che solo nel momento in cui le toglierà l’elmo per depredarne le spoglie, come avveniva nei poemi omerici, scoprirà di aver ucciso una donna (libro XVIII).
Quando, in punto di morte, e dopo morta, il personaggio riacquista la propria integrità femminile, i suoi modelli letterari sono la Beatrice della Vita nuova prima, e poi del Paradiso, e la Laura dei Triumphi.
L’incongruenza narrativa per cui Tancredi non riconosce la voce di Clorinda è stata spiegata da qualche studioso come conseguenza della condizione alienante della guerra, che rende irriconoscibile anche la voce; ma, secondo Di Benedetto, è una convenzione della narrativa cavalleresca che le donne guerriere, coperte dai loro elmi, risultino irriconoscibili anche se parlano, con effetti che talvolta rasentano il comico, e Tasso ha fatto propria tale consuetudine nel canto XII, perché Tancredi e Clorinda, in quella circostanza, non devono riconoscersi [34].

Nel canto XVIII dell’Adone di Marino, la morte del protagonista è la conseguenza di una sovrabbondanza di cause, dopo un’infrazione al ripetuto divieto di praticare la caccia, giustificata da un improvvido permesso di Venere sul punto di lasciare Cipro. Marte, informato dalla maga Falsirena dei rinnovati amori di Venere e Adone, con Diana prepara l’agguato. Adone, indossate le armi sottratte alla maga, inoltratosi in una zona vietata, è aggredito da un cinghiale. La seconda freccia che scaglia contro la belva è stata forgiata da Cupido: il cinghiale, folle d’amore per Adone, vuole baciare il suo fianco nudo, svestito dal vento alzatosi all’improvviso, ma lo ferisce a morte. Venere arriva appena in tempo per raccogliere il suo ultimo respiro [35].

Tutta calda d’amor la bestia folle                  
senza punto saper ciò che facesse,
col mostaccio crudel baciar gli volle
il fianco che >vincea le nevi istesse

e, credendo lambir l’avorio molle,
del fier dente la stampa entro v’impresse.
Vezzi fur gli urti: atti amorosi e gesti
non le insegnò Natura altri che questi.
(G. Marino, Adone, XVIII, ottava 95)

Il cinghiale, furioso d’amore, non resiste alla bellezza del corpo di Adone, il cui candore «vincea le nevi istesse»: ecco che ritorna il paragone petrarchesco con il bianco della neve, raffrontato in questo caso non al viso, ma al fianco del bellissimo giovane, la cui levigatezza e il cui splendore fanno credere alla fiera di «lambir l’avorio molle», mentre imprimerà il segno mortale del suo «fier dente» nell’anca di Adone. Dopo una lotta furiosa e selvaggia, in cui Adone cerca di contrastare la belva, ma alla fine viene da essa atterrato, il cinghiale imprime nuovamente il suo morso nell’anca del giovane, la cui ferita sanguinante «di purpureo smalto» farà «rubineggiar la neve bianca»:

Tornando a sollevar la falda in alto                
squarcia la spoglia e da la banda manca
con amoroso e ruinoso assalto
sotto il vago galon gli morde l’anca,
onde si vede di purpureo smalto
tosto rubineggiar la neve bianca.
Così non lunge da l’amato cane
lacero in terra il meschinel rimane.
O come dolce spira e dolce langue,             
o qual dolce pallor gl’imbianca il volto!
Orribil no, ché nel’orror, nel sangue
il riso col piacer stassi raccolto.
Regna nel ciglio ancor voto ed essangue
e trionfa negli occhi Amor sepolto
e chiusa e spenta l’una e l’altra stella
lampeggia e morte in sì bel viso è bella.
(G. Marino, Adone, XVIII, ottave 97-98)

  Adone, ormai morente, dolcemente «spira» e dolcemente «langue», mentre un «dolce pallor gl’imbianca il volto». Marino continua qui sulla linea di Tasso; perciò vale quanto detto a proposito della rottura dell’equilibrio petrarchesco e del tramonto di visioni e miti dell’età umanistica. Amore, sepolto, trionfa negli occhi, che, una volta chiusi, non gli impediscono di lampeggiare e, petrarchescamente, anche la morte, in un così bel viso, «è bella».

Ermengarda, protagonista del coro del IV atto della tragedia manzoniana Adelchi, muore nel convento di San Salvatore a Brescia, dopo essere stata ripudiata dal marito Carlo Magno, re dei Franchi. Informata dalla sorella Ansberga, suora del convento, che «l’inverecondo» Carlo è convolato a «nuove / inique nozze» «traendo nel suo campo», «come in trionfo», un’altra donna, Ermengarda cade in deliquio e immagina di trovarsi davanti al re dei Franchi per ordinare ai suoi scudieri di cacciare la rivale, poi per supplicare Carlo di non cedere alle sue lusinghe, infine per ricorrere alla pietà della regina madre, Bertrada, contraria al divorzio del figlio [36].
Nei primi sei versi, si possono individuare rimandi intertestuali a Virgilio [37], Petrarca, Tasso. Come la Didone virgiliana, Ermengarda rivolge lo sguardo al cielo cercando la luce: 

Illa gravis oculos conata attollere rursus
deficit; infixum stridit sub pectore vulnus.
ter sese attollens cubitoque adnixa levavit,
ter revoluta toro est oculisque errantibus alto
quaesivit caelo lucem ingemuitque repert
                                                   (Virgilio, Aeneis, IV 688-692)

Sparsa le trecce morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.
(Manzoni, Adelchi, IV, coro, 1 – 6)

Lo sguardo di Ermengarda è tremulo, come quello di Didone, che tenta «di alzar le ciglia gravi», ma, di nuovo, si sente mancare. Anche Clorinda morente volge lo sguardo al cielo:

e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
(Gerusalemme liberata, XII, 69, 3 – 4)

rorida / di morte il bianco aspetto: il suo aspetto è bianco di morte, con il volto imperlato di sudore, non pallido, ma bianco, il colore della purezza e del candore e, come si è visto sopra, per i classici, della bellezza.
Ermengarda nella morte troverà la pace, finalmente libera dai suoi tormenti d’amore: «Muori; e la faccia esanime / Si ricomponga in pace;» (vv. 109 – 110).
Questo si auspica nelle preghiere delle suore che assistono al suo trapasso.
Il senso di pace è presente anche nella canzone dantesca esaminata sopra: «ed avea seco umilità verace, / che parea che dicesse: – Io sono in pace. –»; e si trova anche nel Triumphus mortis di Petrarca, I, VV. 162 - 164:  

se n’andò in pace l’anima contenta,                                 
a guisa d’un soave e chiaro lume
cui nutrimento a poco a poco manca

 e nell’ottava 69 di Tasso (vv. 5 – 7):

e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. […]

in cui Clorinda, perdonato il suo nemico e uccisore e ricevuto da lui il battesimo, gli dà cristianamente la mano in segno di pace. Come ci ricorda il libro della Sapienza (3, 2-3), «Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace»

Pubblicato il 20/09/2017 

 

Note:


[1] MARIA CORTI, Premessa, in DANTE ALIGHIERI, Vita nuova, introduzione e cura diMANUELA COLOMBO, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 8.

[2] ENRICO MALATO, Dante, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. MALATO, vol. II, Le origini e il Duecento, parte 2, Prosa e poesia. Dante, Roma, Salerno Editrice, 1995, Edizione speciale per Corriere della Sera, Milano, RCS MediaGroup, 2016, p.813.

[3] DANTE ALIGHIERI, Vita nuova, cit., p. 120, n. 81. La citazione riportata nel commento alla Vita nuova è di MARIO PAZZAGLIA, voce Donna pietosa e di novella etate,in Enciclopedia Dantesca, vol. II, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-76, p.  578                                

[4] DANTE ALIGHIERI, Vita nuova, introduzione e cura diMANUELA COLOMBO, Milano, Feltrinelli, 1993, p. 122, n. 126.

[5] M. PAZZAGLIA, voce Donna pietosa e di novella etate, in  www.treccani.it/enciclopedia/(Enciclopedia Dantesca).

[6] FRANCESCO PETRARCA, Triumphi, a cura di MARCO ARIANI, Milano, Mursia, 1988, p.21.

[7] IVI, pp. 22 – 24.

[8] IVI, pp. 248 - 249.

[9] Così il verso citato nel testo era già stato interpretato dall’inglese H. Boyd, interpretazione forse condivisa anche da Foscolo; in tempi più recenti allo stesso modo l’hanno spiegato Chiappelli, Ciafardini, spiegazione poi diventata corrente presso i lettori comuni, nonostante l’avvertimento di Umberto Bosco: «Laura della morte non ha neppure il pallore». Cfr. MICHELE FEO, Pallida no, ma più che neve bianca, in Giornale Storico della Letteratura italiana, Vol. CLII, anno XCII, Fasc. 479, Torino, 1975, Loescher, p. 321.

[10] IVI, p. 322.

[11] IVI, pp. 333 – 352.

[12] IVI, p. 357.

[13] LORENZO DE' MEDICI, Opere, a cura di TIZIANO ZANATO, Torino, Einaudi, 1992, pp. 17 – 19

[14] M.  FEO, Pallida no, ma più che neve bianca, cit., p.  357.     

[15] Per il testo si segue l’edizione: T. TASSO, Gerusalemme liberata, a cura di FRANCO TOMASI, Milano, BUR, 2009.

[16] EMILIO RUSSO, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, Roma – Bari, Laterza, 2014, pp. 155 – 158.

[17] GUGLIELMO GORNI, Il combattimento di Tancredi e Clorinda: un’interpretazione tassiana, in Atti dell’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo, XLV, (1984-1985), p. 399.

[18] GIULIO FERRONI, Storia della Letteratura italiana, vol. 7, La letteratura nell’età della Controriforma, Milano, Mondadori, 2006, p. 202.

[19] Cfr. EMILIO RUSSO, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, cit., p. 158.

[20] Cfr. IVI, p. 159.

[21] IVI, p. 160.

[22] ARNALDO DI BENEDETTO, Canto XII, in Lettura della «Gerusalemme liberata», a cura di FRANCO TOMASI, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, p. 304.

[23] GIULIO FERRONI, Storia della Letteratura italiana, vol. 7, cit., p. 202.

[24] E. RUSSO, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, cit., p. 160.

[25]GIULIO FERRONI, Storia della Letteratura italiana, vol. 7, cit., p.202.

[26] ARMANDA GUIDUCCI, Introduzione a DENIS DE ROUGEMONT, L’amore e l’Occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea, Milano, Rizzoli, 1993, p. 40.

[27] E. RUSSO, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, cit., p. 164.

[28] G. GORNI, Il combattimento di Tancredi e Clorinda: un’interpretazione tassiana, cit.,p. 398. 

[29] E. RUSSO, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, cit., p. 164.

[30]A. DI BENEDETTO, Canto XII, cit., p. 304.

[31] E. RUSSO, Guida alla lettura della «Gerusalemme liberata» di Tasso, cit., p. 165.

[32] IVI, p. 166.

[33] IBIDEM.

[34] A. DI BENEDETTO, Canto XII, cit., pp. 299 – 305

[35] GIORGIO FULCO, Giovan Battista Marino, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da         ENRICO MALATO, Vol. X, parte 2, Roma, Salerno editrice, 1997, Edizione speciale per Corriere della Sera, 2016, Milano, RCS MediaGroup S. p. A., pp. 634 – 635. Per il testo di Adone si segue: G. B. MARINO, L’Adone, a cura di EMILIO RUSSO, Milano, BUR, 2013.                            

[36] GIUSEPPE LANGELLA, Morire d’amore: la rappresentazione del delirio da Manzoni a Svevo, in Scena madre. Donne personaggi e interpreti della realtà. Studi per Annamaria Cascetta, a cura di ROBERTA CARPANI, LAURA AIMO, LAURA PEIA, Milano, 2014, Vita e Pensiero, p. 282.  Quelli citati sono i vv. 122 -126 da ALESSANDRO MANZONI, Adelchi (1822), IV, I, a cura di I. BECHERUCCI, Accademia della Crusca, Firenze, 1998, p. 439. 
                                    
[37] VIRGILIO, Aeneis – Eneide, traduzione di GUIDO VITALI, introduzione e note di EZIO SAVINO, libri I – IV, Milano, Mursia, 1986, pp. 238 – 239.