Giulia Corsalini - Paura, degli altri e della morte, nei «Sillabari» di Parise

Voci e forme del sentimento nei “Sillabari” / Altri / Da “Altri” a “Paura” / “Paura” / Qualche considerazione, tra il Giappone e Čechov

Voci e forme  del sentimento nei Sillabari.

 

La signora che cammina sola nella nebbia, alla voce Paura del secondo Sillabario di Parise[1] è una donna che non teme la morte; più precisamente, secondo quella oscillazione o tecnica della correctio che è propria dei Sillabari[2], lei teme e non teme la morte; di conseguenza - ed è un'altra caratteristica compositiva ricorrente - anche il titolo è insieme adeguato e inadeguato, in modo tuttavia meno incongruo di altre voci, dato che, se in Felicità, ad esempio, la storia ha a che fare solo molto di sbieco con il titolo[3], qui siamo di fronte semmai ad un caso di titolatura antifrastica: Paura avrebbe potuto intitolarsi, forse, Ardimento, come, d'altra parte, la voce Allegria, dato lo svolgimento della storia  - la villeggiatura molto attesa e assai deludente e squallida di una donna e di suo figlio - avrebbe potuto ben definirsi Tristezza, e la voce Famiglia, avendo come protagonista un uomo solo, Solitudine; se non fosse che è allegria il sentimento che effettivamente provano madre e figlio nel finale, nella corriera che li riporta a casa e lontano dall'albergo derelitto, ed è dal confronto con «una famiglia di nome Tommaseo piena di genitori, figli, zii e nipoti che stavano attenti uno all'altro», che prende rilievo l'isolamento del protagonista; così come, per altro verso, c'è paura prima di esserci coraggio nell'impulso della vecchia signora sola. Non è un parlare ozioso: enfatizzare, come peraltro è stato già fatto, lo schema seriale dei Sillabari e la loro marcata impronta stilistica può favorire una riflessione sulla loro arte e, allo stesso tempo, sull'ispirazione profonda che presiede a Paura e alle altre voci del libro, che qui si ripercorre attraverso la tematica della paura. Un libro che, come si sa, come sostenne l'autore stesso e come gridarono a gran voce, non senza polemiche, i primi recensori, ha al centro i sentimenti. Sentimenti risillabati e recuperati nella loro essenzialità primitiva, per quanto appunto talvolta un po' sghemba rispetto all'origine dei loro significati, «stati d'animo, situazioni e modalità psichiche»[4] tra i quali la paura ha sicuramente uno spazio non trascurabile. Se, infatti, ad essa è dedicata una voce, la sua fenomenologia nelle diverse prose è ricca e varia. Né sarà inutile ripercorrerla. A partire dalla terza voce, dopo Amore e Affetto, del primo SillabarioAltri.

 

Altri

 

Il luogo è il Lido di Venezia, come in Paura, ma qui c'è la luce dell'ora meridiana di un giorno di ferragosto, là una sera nebbiosa; qui siamo nell'elegante spiaggia del Grand Hôtel Des Bains, là tutto si svolge in un canale solitario; in entrambi c'è silenzio. Nel silenzio, mentre la madre, «bronzea e lucente di Ambra solare», la tata, fräulein Etta, gli altri villeggianti sono assopiti sulle loro sedie a sdraio, un bambino (ce ne sono diversi nella raccolta e più di una volta hanno a che fare con adulti misteriosi), un bambino che stava in spiaggia con secchiello e paletta distratto e un po' solo, si avvicina ad un uomo che ha scavalcato la rete di recinzione e che lo ha chiamato con un gesto della mano, prende gli abiti miseri che questi gli chiede di tenere, prova terrore, poi pietà, poi di nuovo terrore e infine odio: 

Era un uomo molto alto e magrissimo, con la pelle bianca, un volto a punta e due grossissime lenti insieme opache e scintillanti attraverso cui non era possibile vedere gli occhi. Il bambino notò che una delle stanghette di metallo era rotta e aggiustata con filo nero da cucire, anche le scarpe erano rotte e i calzini arrotolati sulla caviglia fin quasi alla scarpa. L'uomo cominciò a spogliarsi, in modo cosi rapido e magico, data la sua altezza, che in un attimo fu in mutande, con grande vergogna e imbarazzo del bambino: un paio di mutande larghe di tela nera con uno strappo a forma di sette sul dietro. L'uomo arrotolò scarpe e abiti e porgendo al bambino l'enorme fagotto disse: - Mi fai un piacere? - e tentò di carezzarlo con la fredda estremità di un lunghissimo arto (non sembrava una vera e propria mano). Il bambino paralizzato dal terrore si ritrasse, non rispose e l'uomo ripeté la domanda, poi gli chiese di custodire i suoi vestiti per pochissimo tempo: voleva «lavarsi i piedi» e vedere il mare che non aveva mai visto. Dopo gli avrebbe dato «la mancia». Queste spiegazioni e i grossi occhiali rotti attenuarono il terrore nel bambino ed egli, suo malgrado, fu spinto, fisicamente spinto verso l'uomo da una grandissima pietà. Allungò le braccia, l'uomo nel posare il fagotto si avvicinò guardandolo da vicino come fanno i miopi e vide le lacrime che sgorgavano sulle sue guance. Sorrise con la bocca bagnata e informe che sapeva di vino e tabacco e disse: - Ti hanno messo in castigo? - e scomparve. 
Il bambino vide due sottili e chilometriche gambe di legno, la bandiera nera delle mutande strappate in uno sventolio generale, laggiù, in fondo alla spiaggia; e subito fu terrorizzato dalla responsabilità e dal peso degli abiti che non riusciva a reggere tra le braccia e gli caddero nella sabbia: pensò all'uomo e lo odiò, dimenticando totalmente il sentimento di poco prima.


Ma, all'allarme di fräulein Etta, intervengono la madre e il bagnino e l'uomo viene allontanato dalla spiaggia, dove si ricompone la quiete, fintanto che non arriva la sera e i villeggianti ritornano nel loro albergo «come in una clinica».

Durante la notte il bambino pensò all'uomo ascoltando la pigra acqua della laguna appoggiarsi sulla spiaggia insieme ai raggi lunari. Si domandò molte cose di lui cercando di arguirle dagli occhiali, dalla pelle bianca, dalle scarpe di gigante e dal fagotto. Fu preso ancora da grandissima commozione e due o tre volte pianse. Chi era? Un ladro, un ex carcerato, un povero, un ricco diventato povero (avrebbe potuto accadere anche a lui, da grande, una cosa simile?), un ammalato, e com'era possibile che non avesse mai visto il mare? Aveva o non aveva famiglia? E lui perché aveva pianto? Tutte queste domande rimasero senza risposta nel bambino e più tardi anche nell'uomo adulto, ma fu da quel giorno che egli seppe, proprio perché nessuna risposta ebbero mai le sue domande, dell'esistenza degli «altri».

In Altri, dunque, la paura è paura dell'altro e le sono conseguenti la pietà, la commozione, il disgusto, l'odio, in una oscillazione molto ragionevole; il racconto non presenta, a partire dal titolo, incongruenze o scarti stilistici: è lineare e cristallino. Avrebbe potuto anche intitolarsi PauraAltri, tuttavia è ancora meglio. E' uno dei più belli; un altro è Estate, ma in quelle righe piene di nostalgia e di naturale bellezza non c'è spazio per la paura.

Da Altri a Paura.

 

Altri personaggi dei Sillabari, tuttavia, hanno paura e la provano in modo progressivo, o, il più delle volte, in modo fulmineo e passeggero, talvolta giustificato, talvolta più interiore e inatteso,  ora terrore, ora ansia lieve. «Comincia ad avere paura» il bambino di sette anni del visitatore invisibile che di sera esce con sua madre in Carezza, un uomo alto, anche lui e anche lui latore di una opaca carezza. Mentre è «terrorizzata» dal tamburellare delle dita sulle gambe del suo vicino, al cinema, la signorina che si è concessa un film audace in una domenica di pioggia (Cinema). Prova un insieme di sentimenti confusi, ma fra tutti riconosce la paura, la donna sposata di fronte all'uomo che a Cortina si interessa a lei (Donna), così come ha «occhi impauriti» la donna che, anche lei sposata e in villeggiatura in montagna, cerca in paese l'uomo da cui si sente attratta (Fascino). Avverte un po' di paura del suo misterioso compagno di camera il ragazzo ospitato in un albergo da un gerarca che quel giorno viene ucciso (Hotel) e, più che della guerra e del feroce temporale, ha paura della madre Giannetto, che si è allontanato da casa in pattini senza chiederle il permesso, e questa paura lo accompagna per tutta la scappatella e poi nel ricordo di quel giorno, fino a quando, dopo qualche anno, muore di nefrite, «in presenza appunto della madre». Soprattutto, ha paura e non ha paura l'uomo che si guarda allo specchio in Età e, non vedendosi da tempo, si osserva come un altro se stesso e vede nei propri occhi un sorriso, che tuttavia non è propriamente tale (epifora e climax anaforico ne rendono la complicata poliedricità):

«Non è un sorriso» pensò l'uomo «non c'è nessuna allegria in questa specie di sorriso, c'è gioco, c'è anche un po' di paura, c'è sfida, un puzzle insomma, e c'è soprattutto la vecchia età che non ho, ma che dimostro.»

E intanto l'indagine sul proprio volto, che ha sempre evitato di guardare perché gli era antipatico, s'intreccia con il ricordo di lontani motivi musicali, che fischietta, e il giochino di dirsi quale sia la canzone più bella del mondo: Night and day, più bella della Vie en rose e di Milord… Cole Porter, Gershwin, amici certo migliori di Bob Dylan - perché è vecchio, gli dice l'altro allo specchio, il «nemico» che gli va mostrando i segni del tempo nel volto; è vecchio anche se non ha l'età per essere vecchio. Però gli piacciono i Beatles, si difende lui - ma gli piace di più Night and day, insiste l'altro. Intanto si accorge che di bello, in quel volto che è il suo allo specchio, ci sono soprattutto gli occhi grigi, dalla «grande pupilla nera e profonda», che non ha «paura di nulla» - ma proprio di nulla?

Il nemico lo guardò senza più armi, senza scherzare, anzi, anche se per un solo istante, con bontà e amicizia: «Nemmeno di quella cosa?» disse con voce bassa e un po' rauca, e intendeva la fine della vita e poi il niente. I begli occhi dell'uomo si fissarono un momento dentro se stessi, guardando alcune immagini di vita passata, non fischiò ma immaginò di fischiettare Appassionatamente, una canzone di sua madre. A quel punto doveva rispondere e anche dire la verità. «No» disse dopo una lunga pausa guardando l'altro come l'altro guardava lui, «nemmeno di quella cosa», e sentì che l'età di Night and Day finiva in quel momento.

Confessa Parise in una intervista del 1983:

Ben diverso è per me il tema della morte. Essa occupa parecchi dei miei pensieri e rappresenta per me la fine di tutto.
In che prospettiva allora si mette di fronte a questo momento che, per lei, segnerà la fine di tutto?
Ho una paura tremenda, e basta. Paura del niente, del fatto che non mi sveglierò più al mattino a guardare il cielo. Questa consapevolezza mi dà un dolore immenso. Mi piace enormemente vedere il sole, le persone, la vita. Molto.»[5]

 

Paura

 

E così, è della morte che ha e non ha paura la protagonista della voce omonima, settantenne, vedova, che nel tempo ha perso anche la compagnia di una serie di animali domestici, perché anche il suo cane i suoi gatti siamesi sono morti uno ad uno; una donna che, come altre figure femminili della raccolta, ha una natura allo stesso tempo infantile e animale, bizzosa e ingenua e, mentre si aggira per i vialetti nebbiosi del lido, oscilla, a metà tra la sensazione e il pensiero, dal senso della propria solitudine e del «nulla delle cose e delle persone», alle pratiche preoccupazioni dei vecchi; del cui disagio finisce in cuor suo per accusare il figlio lontano, di cui non sa se è «vivo o morto anche lui» e con il quale, tanto tempo prima - ma il ricordo talvolta è limpido - ha trascorso delle estati in quella stessa spiaggia che vede immersa nella nebbia. Cammina, con lo spirito e i muscoli «un po' alla deriva, come una barca», e immagina un viaggio che potrà fare, una crociera, perché  lei ama e non teme i viaggi. Ma quando dei ragazzi la avvicinano sopra il ponte, nel buio, la donna ha paura.

Uno dei ragazzi si avvicinò e proprio sopra un ponte (si sentiva lo sciacquio del canale sotto le tavole di legno del ponte) si fece di fronte a lei. La signora aveva paura e, in quel modo confuso, veloce e incredibile che l'immaginazione di una persona anziana e assolutamente normale può avere in un momento come quello, pensò alla morte. Era tutta lì: lo sciacquio, la nebbia, la sera, l'affogamento dentro la pelliccia nell'acqua nera del canale, il cimitero. Udì la voce del ragazzo, una voce bassissima da uomo anziano e beone;il ragazzo disse:
«O mi dai la borsetta o te copo»


Eppure, a conti fatti, considerata la propria solitudine, quella paura di essere uccisa è ingiustificata.

Le gambe della signora tremavano, ma perché, si disse, tanta paura della morte? E quel te copo aveva tutta l'ignoranza della verità. «Perché tanta paura della morte? Sono sola» e disse lentamente, con un tremito, ma con voce dura:
«Còpeme.»


Un dialogo interno con se stessa, tra sensazione e pensiero, appunto, prima libero, poi virgolettato, per una progressione di consapevolezza o di determinazione che arriva all'ardimento: CòpemeCopar, «v. accoppare, uccidere col percuotere sulla coppa come per esempio si fa de' buoi» (Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia 1856). Copar, innanzi tutto minaccia di chi non sa, ma non sapendo centra il problema: «quel te copo aveva tutta l'ignoranza della verità», ossia l'ignoranza montaliana del caso, qui risolutore. Copar, in bocca alla vecchia, in climax ascendente (atteggiamento stilistico dunque ricorrente nei Sillabari, come l'anafora, ma in genere non con una tale forza di esplicitazione), risposta impaurita, dura, «Copème»; quindi sfida, «... còpeme, vediamo se lo sai fare»; e ancora, sotto un pugno violento, resistenza e indignazione, «Còpeme»; infine, ingiuria lanciata tra le lacrime dietro al ragazzo che fugge: «Còpeme, disgraziato, assassino». Poi la paura passa:

Piano piano la paura passò, le gambe (fece due o tre tentativi) la sostennero e altrettanto piano riprese la strada di casa. Un po' di paura l'aveva ancora perché stava percorrendo la stessa via dove erano fuggiti i ragazzi. Forse l'aspettavano da qualche parte più avanti. Ma ormai anche lei sentiva che la sua ora non era giunta, che poteva tornare a casa abbastanza tranquilla, camminando però piano.

Poco più avanti, alla voce Sesso, un'altra donna sola (e Solitudine era il titolo originario del racconto - d'altra parte solitudine potrebbe essere la parola chiave della raccolta) è anch'essa avvicinata da un ragazzo, di cui ha un po' paura, ma al quale cede, come ipnotizzata e con piacere sconosciuto: come le femmine del fagiano, di fronte al mangime, cedono al maschio che le becchetta…

 

Qualche considerazione, tra il Giappone e Čechov.

 

In un articolo dal titolo Guidati da Kawabata nel mondo della paura, pubblicato sul "Corriere della sera" il 7 marzo 1984, Parise parla della paura dell'animo giapponese, che, insieme alla timidezza, è componente della sua follia; «paura dell'inconscio (quello era il vero territorio di Freud altro che la borghesia viennese!), paura del conscio dove un formalismo freddo e ineccepibile è l'unico scudo alla realtà che è sempre disonore salvo che nel rito della morte, solo e sublime lavaggio psicoanalitico, sempre e comunque la paura»[6]. Ma Parise è scrittore del nostro emisfero: nei Sillabari la morte è tutt'altro che una forma rituale che esorcizzi la realtà: è della morte che si ha paura; né il formalismo, pure riconoscibile, è scudo, piuttosto filtro e veicolo, prima emotivo e sentimentale che estetico. «Il funebre è il massimo grado di "forma" concesso a un giapponese,» scrive altrove Parise, ancora in riferimento a Kawabata[7]. 
Ma la letteratura più vicina a noi è tutta piena del terrore della morte. Mi viene in mente, anche perché il rimando a Čechov è naturale, la «notte di passeri» di Nikolàj Stepànovič, il vecchio e stimato professore di Storia noiosa, un uomo malato e stanco della vita (uno degli ironici čechoviani), che, in una notte di luna, si sveglia con il terrore della morte e si alza di scatto con l'animo oppresso dall'orrore e si affaccia sulla notte magnifica, odorosa di fieno, illuminata, silenziosa e gli pare che ogni cosa lo stia guardando e «stia a sentire» quando morirà; è bagnato di sudore freddo, il battito del suo cuore è frequente, le viscere in movimento:

Ho brividi alla spina dorsale, è come se spingesse verso l'interno, e ho la sensazione che la morte mi si avvicinerà proprio da dietro, piano piano...
«Chivi, chivi!» risuona improvvisamente il pigolìo nel silenzio della notte, e non so dove: nel mio petto o fuori di casa?
«Chivi, chivi!»
Dio mio, che terrore. Berrei ancora un po' d'acqua, ma ormai ho il terrore ad aprire gli occhi e paura ad alzare la testa. Il mio orrore è incontrollabile, animalesco, e non riesco affatto a capire perché sono terrorizzato: perché ho voglia di vivere, o perché mi aspetta un dolore nuovo, mai provato?[8]


Ma dopo un colloquio con la moglie e la figlia il suo umore cambia, si sente oppresso, stufo e preferirebbe essere morto sul colpo. E quando Katya, giovane donna infelice che ha cresciuto come una figlia (una delle anime grandi e consumate di Čechov), colta da un presentimento, gli bussa ai vetri, lo spinge ad affacciarsi di nuovo, gli offre la sua amicizia e il suo denaro perché si curi, lui rifiuta, la invita a tornare a casa, a dormire, è già calmo.
Certo, Parise trattiene ciò che in Čechov è distesamente espresso; in Čechov è possibile dimenticare le scelte formali, sulle quali invece Parise spinge a fermarsi; nei racconti di Čechov situazioni e personaggi si ripetono come la vita si ripete, in Parise la serialità è anche schema e tipizzazione per dirne, della vita, il carattere aleatorio e sfuggente; tuttavia, si avverte che Čechov e il Parise dei Sillabari fanno parte della stessa schiera di scrittori, e non solo per la tendenza al racconto-apologo[9], né solo perché entrambi mostrano insofferenza per le ideologie e attenzione ai sentimenti[10], ma anche per una qualità più inafferrabile che il lettore tuttavia percepisce e che può riferirsi a ciò che Čechov stesso ha definito «talento umano». Si legga quanto ha scritto di recente Raffaele La Capria:

In un suo racconto Čechov scrive che esistono talenti letterari, drammatici, artistici, ma egli preferisce un particolare talento, il talento umano [...] Mi ricordo che anche Goffredo Parise mi diceva che lui più che al talento letterario dava la preferenza al talento umano, e che cosa sia poi questo talento umano non è facile dire, ma certo esso nasce da una grande comprensione della sofferenza dell'altro, una comprensione fatta di pietà e immedesimazione, che ha un carattere conoscitivo[11].

È evidente che da questa disposizione a comprendere, fatta di pietà e immedesimazione, nascono anche Altri e Paura.

Pubblicato il 18/12/2015

 

Note:


[1]Le citazioni dell'opera di Parise si intendono riferite alla edizione G. Parise, Opere, a cura di B. Callegher e M. Portello, Milano, Mondadori, 2 voll, terza edizione aggiornata 2001, I, 2005, II, prima edizione 1987, I, 1989, II,. Sillabario n.1 uscì nel 1972, nella collana dei «Supercoralli» della Einaudi; Sillabario n. 2 nel 1982, nella collana «Medusa» della Mondadori; i due Sillabari, che restano divisi nella edizione di riferimento, uscirono in edizione unica nel 1984, negli «Oscar» della Mondadori. I racconti del primo Sillabario erano già apparsi nel «Corriere della sera» dal 10 gennaio del 1971 al 26 agosto del 1972; quelli del secondo Sillabario, sempre sul «Corriere», dal 19 luglio 1973 al 20 gennaio 1980. Tre voci escluse (Borghesia, Obbedienza, Politica) sono state pubblicate per cura di S.Perrella: Goffredo Parise, Borghesia e altre voci escluse dai Sillabari, Pistoia, Via del Vento, 1997.

[2]Sullo stile dei Sillabari si veda P. V. Mengaldo, Dentro i Sillabari di Parise, in ID, La tradizione del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 392-409.

[3]Cfr. A. Zanzotto, Introduzione a Goffredo Parise, Opere, cit. pp. XI-XXXVII.

[4]Cfr. A. Zanzotto, ivi, pp. XXIII- XXVII. 

[5]Di proprietà dell'autore, Giuseppe Migotto. La si legge nella tesi di Augusta Piccin, Lo spazio domestico tra Letteratura e Antropologia in Goffredo Parise, relatore Gianluca Ligi, presente in rete.

[6]In G. Parise, Opere, cit., II, p. 1546.

[7]Postfazione a «La casa delle belle addormentate» di Y. Kawabataivi, p. 1457. Ma si veda legga anche L'eleganza è frigida, dove si parla della paura tipica dell'anima giapponese anche come «paura della imprevedibilità della vita», ivi, pp.1055-1180.

[8]A. Čechov, Racconti, Milano, Mondadori, 1996, pp. 346-47.

[9]Tornando sulla questione irrisolta del genere dei Sillabari,Mengaldo rimanda a Čechov e parla di «microracconto di tipo deduttivo con tendenza all'apologo»; il riferimento è a Uno scherzetto e Lo studente, P. V. Mengaldo, Dentro i Sillabari di Parise, cit.

[10]«Continuo a non avere un punto di vista politico, religioso e filosofico ben definito. Cambio ogni mese, per cui sono costretto a limitarmi a raccontare come i miei eroi si amano, si sposano, mettono al mondo dei figli, parlano e muoiono» (A. Čechov, Lettera  a D.V. Grigorovič, 9 ottobre 1988). «Pensai a Tolstoi che aveva scritto un libro di lettura non soltanto per bambini, e poiché vedevo intorno a me molti adulti ridotti a bambini, pensai che essi avessero scordato che l' erba è verde, che i sentimenti dell' uomo sono eterni e che le ideologie passano. Gli uomini d' oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. Ecco la ragione intima del Sillabario» (G. Parise, «Il Gazzettino», 31 ottobre 1972)

[11]R. La Capria, Čechov , talento letterario e umano in imbarazzo di fronte a Tolstoj, «Corriere della sera», 12 agosto 2015. Insieme ai saggi citati e alle recensioni apparse in occasione della prima uscita e di cui si offre un elenco nella bibliografia dell'opera omnia mondadoriana, pp. 1717-1722, sui Sillabari di Parise si possono leggere: S. Perrella, Introduzione a G. Parise, I Sillabari , Milano, Mondadori, 1993, pp. 5-13; S. Tesio, Introduzione a G. Parise, Sillabari, Milano, Einaudi scuola, 1993, pp. V- XXXII; R. La Capria e S. Perrella (a cura di), I «Sillabari» di Goffredo Parise, atti del convegno di Napoli (4-5 novembre 1992), Napoli, Guida, 1994 (contributi di R. Manica, E. Rasy, C. Benedetti, E. Ferrero, E. Siciliano, M. Quesada, E. De Luca, N. Naldini, A. Zanzotto, R. La Capria, C. Garboli, M. Fortunato, C. Piersanti, S. Perrella e dieci disegni di G. Fioroni); E. Guidorizzi, Le voci prime del «Sillabario», in I. Crotti (a cura di), Goffredo Parise, Firenze, Olschki, 1997, pp. 159-164; P. De Marchi, Dalla A alla S: i «Sillabari» di Goffredo Parise, in ID, Dove portano le parole, Lecce, Manni, 2002, pp. 242-60; R. Dedier, Per un'etica della brevità. Lettura dei «Sillabari» di Parise, in ID, Il lampo e la notte. Per una poetica del moderno, Palermo, Sellerio, 2012.