Giuditta Grosso e Maria Elena Landi - Napoli città porosa

Un percorso didattico alla scoperta di una porta-mundus del Mediterraneo

 

L’ idea di proporre agli studenti di un triennio delle Scuole Superiori un percorso didattico interdisciplinare incentrato sulla città di Napoli è il frutto di nostre riflessioni sul rapporto tra l’uomo e il suo ambiente e su quanto questo incida nel determinare l’imprinting culturale di una persona e la prospettiva dalla quale guarderà il mondo.

Nascere e crescere a Napoli o nel suo territorio molteplice e composito, dove l’orizzonte non sempre coincide con «il bordo labile dove si intravede la morte della città»[1] rende difficile l’individuazione del confine tra mare e terra, tra dentro e fuori e, soprattutto, tra sopra e sotto. Questa complessità, che è riconoscibile specificamente nelle città che affacciano sulle sponde del Mediterraneo, ci è sembrato che a Napoli sia condensata in maniera esemplare: in questa città del “sottosopra”, infatti, il carattere duale e “poroso”[2] si manifesta soprattutto nella convivenza di due realtà parallele createsi nel corso di venticinque secoli di scavi in quelle cave di tufo, materia mater, che hanno consentito alla città di “sopra” di crescere ed espandersi nella luce, nutrendosi della materia del sottosuolo e mantenendo con quest’ultimo un rapporto intenso e carnale. In questa zona intermedia, in cui l’incontro tra il mondo della luce e quello dell’ombra può forse diventare possibile, è incarnata alla perfezione quell’anima mediterranea, e quindi europea, che oggi più che mai è necessario ribadire con forza:

 

[…] noi (ma dovremmo dire tutto il sud, quasi tutta l’Italia e una parte dell’Europa) siamo insieme Europa e Mediterraneo. Se ci dimentichiamo del Mediterraneo, se lo rimuoviamo oppure lo viviamo come un impedimento, siamo come quei cavalli che venivano costretti a partire con un pesante handicap, condannati a perdere.[3]

 

Il percorso nel sottosuolo di Napoli è stato un modo per attraversare la porta-mundus del Mediterraneo e conoscere l’altra città, quella che ogni giorno calpestiamo e che respira sotto i nostri piedi, ma soprattutto è stata un’occasione per riflettere sul senso del viaggio come scoperta del sé. Questo movimento verticale verso una dimensione dove morte, germinazione e vita si alternano e si confondono, ci è sembrato potesse essere di aiuto a riconoscere le ansie e le paure delle quali tutti siamo inconsciamente partecipi, e alle quali, spesso, non sappiamo dare un nome.  Ed è proprio per questo motivo che abbiamo immaginato di rivolgerci a tutti i ragazzi e non solo a quelli della nostra città.

 

La particolarità del sottosuolo di Napoli

A differenza di altre città che pure hanno un sottosuolo “abitato” ma decentrato, Napoli sorge invece dal suo grembo stesso, perché il sopra e il sotto convivono nei luoghi della quotidianità, per esempio nei cortili degli edifici, adibiti per secoli a cave:

 

 Quello che in quasi tutte le città del mondo è traslato, trasferito, a Napoli vive in una coincidenza assoluta. Tanto che la cava di tufo, la grotta, diventa parte integrante dell’edificio, non solo sul piano formale ma a volte anche sul piano funzionale.[4]

 

Il tufo, sostanza piroclastica e porosa, «sembra il sughero con cui a Napoli si fanno i presepi»[5]; il suo colore è il giallo: «La città è gialla. Dal tufo affiora il fondo paglia che non si lascia rivestire a lungo»[6]; o il grigio: Napoli «è grigia, di un rosso grigio o ocra, di un bianco grigio. È assolutamente grigia in confronto al cielo e al mare»[7].

Questa pietra vulcanica, che diventa docile sotto le mani di chi la modella, stringe con gli uomini che la abitano un rapporto di compenetrazione profonda ed evoca l’idea di un mondo che si rinnova ciclicamente: «Tufo è terra d’ origine, santa madre di inizi sfusi dentro la fabbrica del suolo, nelle brecce in cui il fuoco forzava verso l’alto, spandersi in superficie per cancellare il mondo e scriverlo da capo»[8].  Questo particolare carattere della “porosità napoletana” può creare cortocircuiti emotivi in chi la visita, e accendere fantasie artistiche e letterarie, come accadde già ai tempi del “Grand Tour”. È Walter Benjamin che, a Napoli nel 1925, conia la definizione di “città porosa”, una città nella quale «Nessuna situazione, per come essa appare, è pensata una volta per sempre»[9]. Non è un caso, allora, che Benjamin scrisse proprio a Napoli Il dramma barocco tedesco, forse soggiogato da «questa dimensione ipogea dell’essere, da questo metaverso della socialità, dove si incrociano la vista e la visione, il sogno e la realtà, la ragione e la figura, la presenza e l’assenza, l’ethos e il pathos, il dolore e il valore»[10].

Il mondo del sotto, filtrando e alimentando per secoli la materia e le emozioni del mondo del sopra, ha innescato spesso processi di identificazione e richieste di risarcimento per una vita che è già un Purgatorio in terra:[11] 

 

A Napoli, c’è comunque un mondo della superficie abitato dagli umani e un mondo sotterraneo abitato dalle anime, dagli spiriti e dalle voci. E questo sottomondo si estende dal centro della città, pieno di catacombe e cimiteri sotterranei, fino alle grotte scavate nel tufo sulla costa di Posillipo, e fino all’antro della Sibilla Cumana, oltre Pozzuoli e Baia. E dunque non era naturale che da qui, da questa città di terra in ebollizione, di acqua e di fuoco, flegrea, il pio Enea trovasse attraverso il lago di Averno la via che conduce al mondo dei morti, a quel luogo di ombre insostanziali che gli antichi chiamavano l’Ade e che a Napoli ha un suo culto ed è chiamato Purgatorio? Infatti in nessun luogo del Sud d’Italia si sente così spesso, come a Napoli, l’invocazione: fate bene alle anime del Purgatorio!, e così spesso si vedono nelle stradine e nei vicoli tabernacoli illuminati da lampade votive, dedicati appunto alle anime del Purgatorio. Quasi tutti i napoletani del popolino sentono di rassomigliare a quelle anime, pensano che la vita e Napoli stessa siano il loro Purgatorio, un luogo di transizione in attesa di una condizione migliore (R. La Capria, L’occhio di Napoli)

 

 

  La porosità di Napoli dunque incarna la porosità del reale che «emergendo nei suoi corpi e insieme ai suoi corpi» forma anche il modo in cui conosciamo e viviamo il mondo. Essa è  il punto in cui «il mondo entra nei corpi e il punto da cui i corpi consegnano le loro storie al mondo».[12]

 

La profondità del mundus

La dimensione linguistica del mondo classico ci riporta alla natura doppia della civiltà mediterranea: nel greco antico, la Terra ha due nomi, che corrispondono a due realtà distinte: ge (o gaia) e chthon. Gli uomini non abitano soltanto gaia, ma hanno innanzitutto a che fare con chthon, che in alcune narrazioni mitiche assume la forma di una dea, il cui nome è Chthonìe, Ctonia.[13] Il termine latino corrispondente a chthon non è tellus, che designa un’estensione orizzontale, ma humus, che implica una direzione verso il basso (cfr. humare, seppellire), ed è significativo che da esso sia stato tratto il nome per l’uomo (hominem appellari quia sit humo natus).[14] Nel mondo classico gravitante sul Mare Nostrum, dunque, l’uomo rivela un’intima connessione con la sfera ctonia della profondità, ed è, per così dire, un «essere del profondo». [15]

A riprova di tale affermazione, sovvengono i  miti teogonici di Esiodo e di Ferecide, che contengono le testimonianze del rapporto speculare tra Gaia e Ctonia, caratterizzato dalla  profondità, con il riferimento ai recessi (mychous), ai fossi (bothrous), agli antri (antra), concepiti non solo come il luogo di nascita degli dei (Horus in Egitto, Dioniso in Grecia, Zoroastro in Mesopotamia, Gesù in Medio Oriente) e spazio privilegiato nel quale si verificano i contatti tra gli uomini e le divinità, ma soprattutto come il varco (mundus) che consente al mondo dei vivi e al mondo dei morti di entrare in contatto.[16] A Roma, in particolare, sappiamo che un’apertura circolare detta mundus era stata scavata da Romolo al momento della fondazione della città per mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello ctonio dei morti. L’apertura, chiusa da una pietra detta manalis lapis, veniva aperta tre volte l’anno, e in quei giorni, nei quali si diceva che mundus patet, il mondo è aperto e «le cose occulte e nascoste della religione dei mani erano portate alla luce e rivelate», quasi tutte le attività pubbliche erano sospese.[17]

Il mundus romano, dunque, aveva quella che Agamben definisce una “porta – serramento”,[18] che consentiva al sopra e al sotto, ai vivi e ai morti, di essere indipendenti, tranne che in tre giorni l’anno, in cui cadevano le barriere tra morti e vivi e si riattualizzava il caos primordiale. Il rito, certamente dal carattere ctonio, ha chiaramente anche valenze agricole che richiamano fortemente il significato originario di Cerere quale Grande Madre.[19] Non a caso il mundus viene definito anche Mundus Cereris[20] e il mito del ratto di Proserpina da parte del dio degli Inferi è illuminante sia per comprendere il senso della ciclicità dell’evento (il ripetersi delle stagioni) sia per cogliere la permeabilità del varco tra l’uno e l’altro mondo.

Il rapporto tra gli uomini che vivono “sopra” e il mondo di “sotto”, tra essi e gli dei, tra i vivi e i morti, nell’ area mediterranea assume dunque una valenza e una connotazione particolare, perché, come notò per primo Vernant,[21] è un rapporto proficuo per chi vive e funzionale alle scelte che si fanno in vita. Ci riferiamo, in particolare, ai responsi oracolari legati al dio Apollo, che consentivano agli uomini non di conoscere il futuro ma di essere guidati nelle scelte collettive e personali del presente.[22] La parola oracolare è però ambigua, in quanto esprime il «carattere necessariamente aleatorio delle previsioni e dei progetti» umani, palesando «quell'ignoranza radicale del futuro che definisce la condizione umana e la distingue da quella degli dèi».[23] Non è certo un caso che le sacerdotesse di Apollo (dalla Pizia alla Sibilla cumana) vaticinassero riportando dal mondo di sotto le parole del dio.

Il rapporto si realizza, come abbiamo detto,  in uno spazio privilegiato nel quale si verificano i contatti tra gli uomini e gli dei, e cioè le “grotte” e i “labirinti”, gli antri, dove la Voce profetica è praticamente il prodotto del luogo stesso; infatti, tornando alla Pizia, gli scrittori greci usano spesso espressioni che sembrano attribuire ai diversi elementi dell'antro pitico una propria voce e, per esempio, del tripode, su cui la Pizia sedeva, si dice addirittura che sembrava dialogare direttamente con i consultanti. Non meraviglia, quindi, che quando la Sibilla cumana vaticinava si sentiva solo la sua voce, che si riproduceva in echi nell’ antro, che dunque sembrava vivere di vita propria.

Il respirare e vivere della città sotterranea insieme a quella di superficie è dunque un fenomeno osservato nel territorio napoletano sin da tempi remoti; al contrario di Roma, dove il mundus rappresenta la porta – serramento che divide il mondo dei vivi dal mondo dei morti, l’atto della creazione architettonica, che trasferisce la materia dall’ ordine naturale all’ordine umanizzato, a Napoli si concretizza con la realizzazione di una doppia città dove vige la compresenza del mondo sotterraneo con la realtà al sole[24] e dove, pertanto, il mundus-soglia tra mondo di sopra e mondo di sotto è sempre aperto.

Senza dubbio possiamo affermare che in questo territorio esistono luoghi privilegiati dove il varco tra le due dimensioni è particolarmente permeabile e accessibile; in particolare, possiamo individuarne uno nella porta d’ accesso agli Inferi dei Campi Flegrei e nell’antro della Sibilla, quest’ultimo considerato uno degli edifici più straordinari del Mediterraneo, modello di tutte le cavità sotterranee di Napoli,[25] (Figura 1) e un altro nel Rione Sanità, nel cuore della città, dove si è snodato il nostro percorso interdisciplinare, con visite guidate in alcuni degli ambienti più suggestivi della “città di sotto” del quartiere e la lettura critica e consapevole di testi di scrittori e cineasti napoletani che hanno ambientato le loro storie in alcuni dei  luoghi - paradigma dell’ emulsione misterica”, «che rende difficile, anche in pieno giorno, farsi strada tra la folla delle ombre». [26]

 

Il Rione Sanità

Il quartiere della Sanità, studiato da sociologi e psicoanalisti sin dall’ ‘800 per il particolare carattere sacrale che si respira in ogni suo angolo e anfratto, è situato in zona extra moenia, al limite settentrionale della città greco-romana, al di là della Porta S. Gennaro (Figura 2), che rappresenta il varco simbolico tra la città dei vivi e la città dei morti. Infatti, è al di là di questa Porta di città che ha inizio il quartiere adibito sin dai tempi della Neapolis del IV secolo a.C. ad area cimiteriale, “la valle dei morti” che conserva la sua destinazione nel corso dei secoli, fino a giungere all’epoca cristiana, a dimostrazione dello straordinario sincretismo che caratterizza la tradizione cultuale e culturale napoletana che lega senza soluzione di continuità i culti pagani a quelli paleocristiani e cristiani. Qui realmente sembra di essere proiettati in incroci temporali tra Oriente e Occidente mediterraneo, tra mondo pagano e mondo cristiano. L’insieme dei luoghi fittamente addensati e variamente legati alla morte e al sacro, celeste e ctonio, fa di questo quartiere una vera “porta dell’ Ade”, come dice Marino Niola,[27] il quale sottolinea il fatto che, in luoghi nodali come la Sanità, veri e propri santuari di memoria collettiva, l’ immaginario popolare crea una fitta rete culturale in cui il sotterraneo, ciò che sta sotto nello spazio prende a significare ciò che sta prima nel tempo, creando una topica quasi teatrale dove i morti sono custodi di memorie e testimoni del presente.

Il nome, a quanto pare, deriva dai «molti miracoli che si ottenevano sulle tombe de’ Santi sepolti nelle adiacenti cripte»[28] (ben nove sono i complessi cimiteriali individuati finora).

Il Rione si trova ai piedi della collina di Capodimonte, a pochissima distanza dal centro storico. A partire dal IV secolo a.C. tutta l’area, che si trovava fuori le mura della città di Neapolis, cominciò a essere utilizzata come zona cimiteriale, approfittando del fatto che il sottosuolo era costituito da pietra tufacea, morbida da modellare e quasi corporea nella sua consistenza e colore, tanto che le sepolture venivano scavate direttamente nel sottosuolo. Questo procedimento andò avanti per i secoli successivi, fino al 1800, in modo da creare una “città di sotto”, abitata dai morti, densa e brulicante come se fosse una città dei vivi. Il grande sviluppo urbanistico della “città di sopra” si ebbe nel XVII secolo, quando l’area fu prescelta da nobili e borghesi napoletani per le proprie dimore dopo la costruzione della Basilica di Santa Maria della Sanità, posta nella piazza principale del quartiere. Nel XVIII secolo le sue strade diventarono il percorso della famiglia reale dal centro della città alla Reggia di Capodimonte. Il tragitto, però, risultava particolarmente tortuoso; per questo, in età napoleonica, nell’ambito delle opere di rafforzamento delle infrastrutture e di ammodernamento della capitale del regno, fu costruito un collegamento diretto tra la reggia di Capodimonte e il centro della città, il cosiddetto “Ponte della Sanità”, demolendo gran parte della chiesa di S. Maria della Sanità e deturpandone il chiostro (Figura 3). In questo modo il quartiere si ritrovò isolato dal resto della città.[29] Ecco perché, oggi, la percezione è quella di una periferia al centro di Napoli. Questa particolare miscela storico culturale (estrema accessibilità al “sotto” e contemporaneo allontanamento del “sopra” dal resto della città) è il motivo della “ex-straordinarietà” di questo quartiere rispetto non solo agli altri quartieri di Napoli, ma anche del mondo.[30]

 

LINK  ITINERARIO SVOLTO – SCHEDA DESCRITTIVA

 

 

Un percorso tra letteratura e cinema

Tra i numerosi testi che hanno come scenario la città di Napoli e il suo sottosuolo la nostra scelta è caduta su Nostalgia di Ermanno Rea che abbiamo fatto dialogare con due film: Nostalgia (2022) di Mario Martone, e Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini.  Il confronto tra il romanzo di Rea e il film di Martone ci ha aiutato a far emergere le differenze tra i diversi codici linguistici, quello filmico e quello letterario; la visione del film di Rossellini è stata l’occasione per riflettere sul ruolo che Napoli ha spesso svolto nel cinema come luogo sospeso della storia, espressione di una modernità in cui sopravvivono ancora le tracce di un mondo arcaico.[31]

 

Nella prima fase del lavoro abbiamo letto il libro di Rea; dopo siamo passati al film di Martone e abbiamo cominciato a ragionare sulla traduzione intersemiotica nel passaggio dalla parola alla rappresentazione visiva, consapevoli del fatto che nel rapporto tra letteratura e cinema ogni linguaggio ha una sua autonomia: il regista deve scomporre tutta la materia del libro e ricomporla nel film in una maniera tale che anche il senso si modifica. Insomma tradurre e tradire.

Ai ragazzi abbiamo chiesto di analizzare i due testi; li abbiamo poi invitati a riflettere sulle modalità con le quali Rea e Martone rappresentano lo spazio e il paesaggio sonoro.

Dopo aver visto Viaggio in Italia, ci siamo chiesti quale ruolo svolgesse la rappresentazione dei luoghi nella definizione del percorso narrativo del film e se ci fossero somiglianze o discontinuità con i testi precedentemente analizzati.

 

Nostalgia

Nostalgia, “il dolore del ritorno”, è l’ultimo tassello di quel lungo romanzo napoletano che l’autore ha dedicato alla sua città amata, disamata, ma mai dimenticata. Il romanzo viene pubblicato pochi mesi dopo la morte dello scrittore e, come è noto, racconta il nóstos di Felice Lasco, che torna nella sua città, meglio, nel suo rione, dopo quarantacinque anni di esilio volontario: «La vita aveva voluto fare di lui, quasi per definizione, l’uomo- che- non ritorna. Ma non già che non ritorna e basta, ma che è costretto a ribadire in continuazione- penosamente, dolorosamente- quel patto con sé stesso» (p. 159).

Felice Lasco torna a Napoli. La madre sta morendo e lui la accudisce fino all’ultimo con tardiva ma amorosa pazienza. Obbedendo al richiamo delle radici e del destino, Felice decide di restare, in attesa dell’incontro fatale con Oreste, o’ Malommo. A un medico dell’ospedale San Gennaro dei Poveri e a don Luigi Rega,[32] prete combattivo e anima di un quartiere che vive finalmente una nuova speranza di riscatto, Felice racconta la sua storia, fatta di furti e piccoli scippi.  A 15 anni il fatto che gli cambia la vita: il delitto dell’usuraio Gennaro Costagliola, ucciso da Oreste che gli sfonda la testa. Felice è annichilito, non tradisce l’amico, ma si chiude in un silenzio pieno di angoscia finché uno zio non lo porta con sé a Beirut: è l’inizio di una nuova vita. Una volta tornato, Felice si lascia travolgere dalla ambigua bellezza della sua città ma anche dalle speranze che agitano il Rione Sanità. Come da copione, però, Oreste è pronto a fare la sua parte e attende Felice perché, forse, alla Sanità nessun riscatto è veramente possibile.

 

Il tema del ritorno è caro a Rea (Rosso Napoli ha come sottotitolo Trilogia dei ritorni e degli addi); Mistero napoletano è anche, o forse soprattutto, il racconto di un ritorno, e di una riscoperta:

 

Tutto contribuisce a rendermi nervoso: la stessa riscoperta, non priva di passione della mia città; il fatto di sorprendermi qua e là incantato, addirittura fulminato da un profumo, un sapore, un tepore che m’investono troppo spesso con la violenza del rimpianto. Ho orrore a pensare che avrei potuto io stesso non distaccarmi da tutto questo; e ho orrore a pensare d’aver mollato gli ormeggi (p. 228)[33]

 

Nostalgia è l’ultimo ritorno, il “Grande Ritorno” (p. 201) di un uomo ormai anziano, alla ricerca di un tempo perduto che procede «su due binari, quello del passato e quello del presente» che «trascolorano in modo anfibolico l'uno nell'altro e obbligano anche il lettore a ritornare sui propri passi».[34]

Sin dalla prima pagina il libro si presenta infatti come “una marcia all’indietro”, un viaggio «alla scoperta, oltre che delle ragioni di un delitto, delle radici del nostro male di vivere in un mondo troppo pieno di ingiustizie».

La voce narrante dichiara di voler procedere all’insegna della nostalgia, quel sentimento che fa «parte del nostro bagaglio genetico, del nostro arcano di esseri umani» che ogni uomo «sperimenta di continuo, perché le voci che gli giungono dal suo passato hanno sempre un fascino irresistibile» (p. 10)

Anche Martone sceglie di aprire il film all’insegna della nostalgia e della ricerca di sé stessi, citando una frase di Pier Paolo Pasolini («La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede»)[35] che interpreta in modo raffinato il senso più profondo del romanzo. E’ stata infatti la nostalgia a tenere in vita Felice nei lunghi anni trascorsi lontano da quel quartiere, la Sanità, che Rea conosceva bene: era nato infatti proprio lì vicino, in quella piazza Cavour che per Felice e Oreste, protagonisti del romanzo, segnava il confine della città.[36]

 

 

La rappresentazione dello spazio

Per Felice tornare alla Sanità è tornare in un mondo che sta sotto. A Napoli si dice: abbasce a’ Sanità, una indicazione in cui la città si trasforma in un corpo su cui muoversi e nella quale la rinuncia ad ogni indicazione topografica lascia il posto all’indeterminato. Ma questo corpo verso quale direttrice spaziale è orientato?  Rea si chiede se la dimensione di Napoli sia ascensionale o discensionale: «Ma la città è davvero tutta un tendere verso l’alto? Oppure la tensione è inversa, nel senso che si svolge dall’alto verso il basso? La meta è il mare oppure la collina?» (p. 27).

Questa città così lontana dal mare deve essere guardata dall’alto oppure dal “fondo del pozzo”, come suggerisce Domenico Rea?[37] La Sanità di Felice non ha scelta: o guarda verso l’alto, cioè verso il ponte - confine, o verso il basso, agli ipogei e alle grotte. Dopo aver assistito all’uccisione di Gennaro lo strozzino, Felice, sconvolto, si ripara sotto una grondaia; è notte e il suo viso è bagnato dalla pioggia:

 

Sollevò la testa verso il cielo e, sul lato opposto, vide scorrere i fari delle automobili lungo il breve tratto del ponte napoleonico controllabile dalla sua postazione: sovrasta la basilica da dominatore, affondando i giganteschi pilastri di tufo nella sua carne viva. Fissò a lungo il viavai sul ponte: una scena remota come iscritta in una diversa realtà- aerea, sospesa nel cielo, una Napoli “di sopra” con la quale lui aveva poco o niente da spartire (p. 66).

 

Lo sguardo di Felice procede in un doppio labirinto, quello dei luoghi e quello della memoria, che ha sempre in Rea una configurazione spaziale, e si dipana in un alternarsi di immersioni nel sottosuolo dove grandi cavità si aprono su un indicibile mondo sotterraneo; «[…] in un intreccio di antico e di contemporaneo, di sogno e realtà, da togliere il respiro». (p. 109)

Sprofondare in questo  “utero urbano”[38]   dal quale si fa fatica ad uscire lo aiuterà a riportare alla memoria un passato che credeva sepolto per sempre e che invece è ancora vivo, e  in quel passato egli troverà anche il suo presente, come quando, guidato da Adele “in una visita purificatrice” alle Catacombe di S. Gennaro, nel ritratto di Cerula rivedrà Arlette, la sua donna:  «Poi Adele lo conduce all’affresco di Cerula e lì Lasco  sente i battiti del cuore rallentare sempre più […] E’ Arlette che lo fissa con l’espressione concentrata di chi trasmette con lo sguardo un messaggio importante.» (p. 225)

Questa sovrapposizione di presente e passato può verificarsi solo perché agli occhi di Felice nulla è cambiato; nel suo girovagare per i vicoli e le strade cerca i segni del cambiamento, ma non li trova perché «la bellezza dei luoghi è un carattere primordiale della valle della Sanità, consegnata all’uomo come un destino»[39] e anche se «forse al mondo non c’è ritorno possibile», Felice vuole riannodarli comunque i fili di questo destino, e riappropriarsi di tutto quello che ha perduto:

 

[…] una mattina ti svegli e dici: questa strada tortuosa e stretta sono io; questo vociare irato, questo profumo, questo lezzo sono ancora io; e sono anche questo sporco e rugoso volto di vecchia che mi osserva torva; sono questo raggio di sole che lambisce neghittoso quella finestra al terzo piano con le persiane sgangherate. Io sono insomma tutto il bene e tutto il male della Sanità, perché nessuno può sfuggire alle proprie contraddizioni. Può soltanto lottare, di volta in volta, per superarle (p.70)

 

Il mondo del sotto è soprattutto la casa della madre, una sorta di grotta nella quale Felice celebra un rito di espiazione: lava la madre, dopo averla spogliata, ma forse lava anche sé stesso dalla vergogna di essere fuggito. Ancora una volta il movimento è una discesa, prima nel terraneo dove vive la donna, poi del suo corpo nella tinozza, in un’immersione che evoca il battesimo. La cura meticolosa con la quale Felice lava il corpo della madre riporta alla mente il rituale delle “capuzzelle”, evocato anche dal volto della donna, magro e scavato come un teschio. Questa madre che, ormai anziana, non può dare più nulla, è per Rea la città amata e odiata, ma alla quale egli ora vuole arrendersi e della quale vuole prendersi cura.

Martone, per ricostruire l’intreccio, anticipa l’incontro tra madre e figlio, rompendo l’architettura del libro che costringe il lettore ad andare avanti e indietro nel tempo sulle tracce del suo protagonista.  La scena è descritta in modo magistrale: il pudore dell’anziana donna e la tenerezza del figlio danno vita infatti a una Pietà capovolta nella quale i confini tra chi ha generato e chi è stato generato si confondono fino a suggerire l’idea che la madre rappresenti la città stessa in quanto generatrice non solo del figlio ma di tutta l’umanità che si muove all’interno del film. Il regista aggiunge un particolare molto interessante: prima del rito Felice si lava le braccia e beve tre sorsi d’acqua, come prescritto dal Profeta, invitandoci, forse, a leggere la sequenza come la rappresentazione di un sincretismo religioso che avvicina Napoli all’altra sponda del Mediterraneo.

Da questo momento Felice rinuncia ad ogni resistenza; decide di mettere radici in quel quartiere che è la Kasbah di Napoli e compra una casa in vico Centogradi «perché lì la Sanità sa come da nessun’altra parte di ventre materno, primogenitura, principio di un lunghissimo passato mai passato» (pp. 187-8).

Anche il film di Rossellini scandisce le tappe di una ricerca interiore. I coniugi Joyce sono i perfetti esponenti di una modernità compiuta, «informati dallo spirito protestante del capitale, da un’astrazione anaffettiva che esclude i movimenti emotivi».[40] Terzo protagonista del film è senza alcun dubbio la città. Katherine Joyce è una donna diversa nei modi e nell’aspetto, una donna completamente fuori contesto, una straniera. Durante il viaggio scopre che la sua vita non ha più senso, che nulla davvero le appartiene; questa perdita di senso è attivata dalla violenza del paesaggio meridiano che la spinge a mettersi in gioco in un girovagare per la città che non è semplice flânerie: infatti la graduale discesa nei luoghi del sotto espone Katherine al pericolo di una dissoluzione dell’io.  La donna visita prima l’antro della Sibilla dove il ricordo di Charles Luyton, un giovane poeta morto due anni prima e innamorato di lei, la costringerà ad interrogarsi sul tempo che è passato inutilmente e sulla morte, proprio come accade alla Gretta de I morti di Joyce.  Katherine non avrà il coraggio di percorrere tutto l’antro e scapperà verso il tempio di Apollo, dio della luce, ma non rinuncerà alla sua ricerca; l’epifania si compirà infatti alle Fontanelle, dove riuscirà ad attraversare la soglia del suo io e vivrà una sorta di esperienza estatica durante la quale, contro la sua volontà cosciente, si sentirà spinta a confrontarsi con la sacralità della morte e della rigenerazione che emerge dalle profondità della terra.

L’esperienza di quella visita si rivelerà fondamentale nel suo percorso di crescita.

 

La dimensione sonora della città

Il quartiere della Sanità ha anche una dimensione sonora[41] fatta di rumori e di suoni che si sovrappongono in una sincronia spesso caotica: quando Oreste si affaccia alla finestra della sua casa, una folla di voci lo investe: «Dio quanto si chiacchiera a Napoli! […] Come se parlassero in modo simultaneo, oltre ai vivi, anche i morti, l’incalcolabile esercito sterminato della Signora con la falce in non meno di una ventina di secoli (o di più?)» (p. 14)

 La componente più interessante di questo paesaggio sonoro è legata alla lingua, quel napoletano che Felice crede di detestare («detesto con tutto il cuore la città in cui sono nato […] il suo dialetto») - soprattutto crede di aver dimenticato per sempre - e del quale, invece, conserva non solo le parole ma finanche la musica perduta con la fuga, che verrà fuori un po’ alla volta, risvegliata dall’ uso.

Il dialetto che avvolge Felice nel suo nóstos non è quello violento e sguaiato che il narratore di Napoli ferrovia ascolta dalla finestra del suo studio, una lingua sporca di violenza e carica di vergogna, piena di “a” «spalancate come voragini»,  “con quella “u” «rauca da lupi» e  quella “b” «strisciante come un viscido serpente», la lingua del terzo millennio già toccata «dalla droga di massa, dalla violenza di massa, dal degrado di massa»[42] (p. 36), ma è invece una lingua affettuosa, descritta con toni quasi elegiaci. Soprattutto è una lingua-spazio nella quale Felice affonda.

La lingua dell’esule è invece quella di chi non ha un posto sulla terra, un minestrone di idiomi nel quale si ascolta l’eco di “un caleidoscopio di esperienze”, perciò il ritorno di Felice è anche, e forse soprattutto, un ritorno alla lingua madre: «In che lingua pensi?»  «Perlopiù in francese. Ma da quando sono tornato in Italia mi capita sempre più spesso di interrogarmi nella mia lingua madre: il napoletano» (p. 117).

Come la Delia de L’amore molesto Felice è investito dal suono del dialetto, ma mentre la protagonista del romanzo della Ferrante vive in modo disturbante la pioggia di suoni che la aggredisce e ai quali in un primo momento oppone resistenza,[43] Felice, che prima si sentiva costretto a rubare parole per farsi capire, trova nel dialetto un senso di appartenenza, perché la lingua, che dà corpo allo spazio, gli fa capire finalmente chi è e da dove è venuto: «Certe volte me lo dico da solo: Feli’, parli proprio na chiavica. Ma vi assicuro che […] prima o poi tornerò anch’io a essere come voi, a esprimermi con la pancia anziché con la testa» (p. 117).

Il film di Martone insiste molto su questo aspetto e, facendo affidamento sulle particolari doti attoriali di Pier Francesco Favino, spinge oltre ogni limite l’iniziale coloritura linguistica del protagonista, un pastiche di arabo, napoletano e francese, che si decanta piano piano fino a raggiungere la forma di un dialetto puro, come è evidente soprattutto nella scena della confessione a padre Rega: quando il parroco gli chiede chi sia per lui Oreste Spasiano, Felice risponde con perfetta pronuncia:  «E’ o meglio cumpagne mie»;  o in quella  della festa con i giovani della parrocchia, dove Martone  rinuncia alle musiche dei Tangerine dream, che  accompagnano i flashback, smagliando il tessuto filmico,  e si  affida a   una canzone araba che ci racconta di un personaggio ormai risolto: una volta ritrovata la sua anima napoletana, Felice è pronto a fare i conti anche con la sua vita araba.

 

Conclusioni

L’idea che ci ha guidate nella formulazione del nostro percorso è semplice: moltiplicare i punti di vista per promuovere l’acquisizione di un metodo di studio che faccia comunicare tra loro i diversi saperi. Volevamo però anche intraprendere una sorta di itinerarium ad patres: in una città ormai arresasi ai meccanismi frenetici della turistificazione che cancella l’autenticità dei luoghi e la loro identità, entrare nel mondo del sotto poteva essere l’occasione per ritrovare quella comunanza di valori mediterranei che, ci auguriamo, possa tornare a caratterizzare l’uomo europeo. Attraversare la porta-mundus ha significato anche prendere contatto con la finitezza del vivere che la nostra società ha rimosso, «perché nell’era della longevità di massa morire è quasi una colpa».[44] Forse, recuperare questa consapevolezza, vuol dire rinunciare al mito di una illusoria eternità e imparare a dare voce alle “voci di dentro”.

 

 

 

 28 febbraio 2023

 


[1] F. Venezia, Il deserto, il corpo, il sottomondo in La città porosa. Conversazioni su Napoli a cura di Claudio Velardi, Napoli, Cronopio, 1992, p. 29

[2] W. Benjamin, Asja Lacis, Napoli porosa, a cura di Elenio Cicchini, Napoli, Libreria Dante &Descartes,  2020

[3]  F. Cassano, Il Mediterraneo tra identità ed eccellenza, Prolusione alla Giornata Inaugurale Anno Accademico 2006-2007, 11 dicembre 2006

[4] F. Venezia, cit., p.29

[5] R. La Capria, L’occhio di Napoli, in R.  La Capria, Opere, Milano, Meridiani Mondadori,  2015, p. 858

[6] E. De Luca, Tufo in Sei trentaduesimi, Napoli, Dante & Descartes, 2015, p. 23

[7] W. Benjamin, A. Lacis, cit., p. 14

[8] E. De Luca, cit. p. 24

[9] W. Benjamin, A. Lacis cit, pp. 20 ss. Porosità è per Benjamin la rinuncia al definitivo ma anche l’arte dell’improvvisazione: «Poiché nulla è concluso e fatto per sempre, in angoli come questi si riconosce a malapena fra quel che deve essere ancora costruito e quel che è già caduto in rovina. Porosità significa […] l’eterna passione per l’improvvisare»

[10] M. Niola, Anime. Il Purgatorio a Napoli, Napoli, Meltemi, 2022, p.19

[11] R. La Capria, L’occhio di Napoli in R. La Capria, Opere, Milano, Meridiani Mondadori, 2015, p. 857

[12] S. Iovino, Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza, Milano,  il Saggiatore, 2022, p. 27

[13] È significativo, al riguardo, che in Omero gli uomini siano definiti con l’aggettivo epichtonioi (che stanno su chthon), mentre l’aggettivo epigaios o epigeios si riferisce solo alle piante e agli animali.

[14] Quintiliano, Istitutio Oratoria I, 6,34.

[15] G. Agamben, Gaia e Chtonia,  Macerata, Quodlibet, 2020

[16] È sintomatico che il termine mundus sia utilizzato, dagli autori latini, anche per indicare la fossa di fondazione delle città. Cfr. Catone, Commentaria iuris civilis ,144 L. Festo, De verborum significatu, L. 44, 14-21

[17] Ateio Capitone De iure sacrificiorum, L.7. Vendryes ha ipotizzato che il significato originale del nostro termine “mondo” non sia una traduzione del greco kosmos, ma che derivi appunto dalla soglia circolare che apriva il “mondo” dei morti. Pertanto, secondo lo studioso, la città antica si fonda sul “mondo” perché gli uomini dimorano nell’apertura che unisce la terra celeste e quella sotterranea, il mondo dei vivi e quello dei morti, il presente e il passato ed è attraverso la relazione fra questi due mondi che diventa possibile per essi orientare le proprie azioni e trovare ispirazione per il futuro.(J. Vendryes, La famille du latin mundus ‘monde’”. Mémoires de la Société de Linguistique de Paris, XVIII, 1914, p. 305 ss).

[18] G.Agamben, Quando la casa brucia, Macerata, Giacometti & Antonello, 2020, dove distingue tra porte adito, soglie di passaggio sempre aperte, e porte serramento, che dividono aprendosi e chiudendosi, così da separare uno spazio dall’ altro.

[19] R. Esposito, «Mundus. Fundus. La fossa che connette sotterraneo e celeste», in «FAMagazine»  Scientific Open Access e-Journal, 1989

[20] J. Evola J, Simboli della tradizione occidentale, Carmagnola,  Edizioni Arthos, 1977

[21] J. P. Vernant, Parole e segni muti, in Vernant et al. 1974, pp. 5-24., p. 21

[22] D. Jaillard, F. Prescendi, Perché e in che modo conoscere la volontà degli dèi? Divinazione e possessione a Roma e in Grecia, in  Religioni antiche. Un’introduzione comparata, a cura di  F. Prescendi, Roma, P. Borgeaud edizioni, 2011, pp. 69-88.

[23] J.P. Vernant, cit., p. 21. Questo riconoscimento del limite umano può forse fornire una chiave di lettura per spiegare l’atteggiamento naturalmente fatalista del popolo napoletano.

[24] «[A Napoli] è fondamentale la rilevanza di questa compresenza del mondo sotterraneo con la realtà al sole: sia nell’ immagine della città sia nel senso che la città dà a chi la abita, la vive o la visita». F. Venezia, cit. p.28.

[25] F. Venezia, ivi, p.31

[26] Così M. Leiris, in M. Niola, cit,. p. 15, dove si parla di «emulsione misterica che nella città del sole ricopre luoghi e persone di un film insieme luminescente e oscuro».

[27] M. Niola, ivi.  p.19

[28] G. A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, Napoli, Stamperia del Fibreno,  1872.

[29] Notizie sul quartiere si possono reperire, tra gli altri, in A. E. Piedimonte, I segreti della Napoli sotterranea, Napoli,  Intra Moenia, 2017; V. Del Tufo, Napoli segreta, vol.2, supplemento a  «Il Mattino»  del 23 luglio 2022.

[30] Il quartiere ha vissuto per tutto il Novecento in una “bolla” di estraneità e quasi indipendenza dal resto della città, abbandonato dalle istituzioni ed esposto a forti disagi e profonde differenze socio-culturali. A partire dal 2006, grazie anche all’ impegno del parroco Antonio Loffredo, è nata una Cooperativa Sociale Onlus, “La Paranza”, formata dai giovani del quartiere, che contribuisce attivamente al rilancio dell'immagine del rione attraverso la riscoperta del suo patrimonio artistico e culturale. Dal 2009, i giovani della cooperativa gestiscono anche le catacombe del rione Sanità. https://catacombedinapoli.it/; https://ilquintoampliamento.it/it/napoli-con-la-cooperativa-la-paranza-rinasce-il-rione-sanita

[31] D. Dottorini, “Rileggere Benjamin: la forma della città, la doppia immagine della modernità”, Cahiers d’études romanes, 19 | 2008, 153-166

[32] La figura di don Luigi Rega è esemplata su quella reale di Padre Loffredo, storico parroco di S. Maria della Sanità. Fu Ermanno Rea a confidare a padre Loffredo che Rega era il suo vero nome, mutato in Rea per stemperare le proprie origini ebraiche. In una intervista rilasciata a Conchita Sannino padre Loffredo racconta: “Intanto Rega era l’antico nome dei Rea, come lui mi confidò. Mi piace pensare che Ermanno vi abbia proiettato un suo alter ego, oltre a quello del protagonista Felice». Conchita Sannino, “Don Antonio, parroco ‘ribelle’ ”, La Repubblica, 23 ottobre 2016.

 E’ interessante notare che don Rega e Felice condividono nel romanzo l’esperienza del sogno- visione, una sorta di chrematismós, in cui al sognatore è rivelato il futuro in modo chiaro, senza l'uso di simboli o allegorie ma quasi in forma di messaggio

[33] E. Rea, Mistero napoletano, Milano, Feltrinelli, 2014

[34] C. Nesi, “L’arcipelago metropolitano nella trilogia ‘Rosso Napoli’ di Ermanno Rea” in La letteratura italiana e le arti, Atti del XX Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti, Napoli, 7-10 settembre 2016

[35] La frase è contenuta in una lettera di Pasolini all'Editore Garzanti a seguito del progetto da quest'ultimo elaborato di pubblicazione di tutta l'opera poetica pasoliniana. La lettera è del 1970.

[36] Il 29 ottobre del 2016 le ceneri di Ermanno Rea furono portate nel chiostro di S. Maria della Sanità per un saluto laico; padre Loffredo, parroco della chiesa, celebrò la funzione

[37] D. Rea, Le due Napoli, Napoli, libreria Dante & Descartes, 2020, p. 54

[38] S. Perrella, La Sanità di Rea, un quartiere a Napoli che è utero urbano,  «Il Mattino», 13 ottobre 2016.

[39] I. Ferraro, Napoli. Atlante della città storica. Stella, Vergini, Sanità, Bologna, Oikos,  2007, p. xv

[40] M. Pezzella, Altrenapoli, Torino, Rosenberg&Sellier,  2019, p. 85

[41] Anna Maria Ortese (L’infanta sepolta, p.117), per descrivere la compenetrazione tra gli opposti, caratteristica   della città di Napoli, ricorre all’ immagine di un’orchestra: «Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui [...] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, [...] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva, a tutta prima, una impressione stranissima, come di un'orchestra i cui strumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di una meravigliosa confusione»

[42] Ermanno Rea, Napoli ferrovia, Milano, Feltrinelli,  2002, p. 35

[43] A questo proposito si legga quanto scritto nel bellissimo saggio di Giancarlo Alfano, “Un ‘vivere pieno di radici’. Il modello spaziale di Napoli nel secondo Novecento” in Paesaggi, mappe, tracciati. Cinque studi su Letteratura e Geografia, Napoli, Loffredo editore,  2010, pp. 91-147.

[44] M. Niola,  cit,. p. 12

 

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