Oh, come sono permeabili le frontiere umane!
Quante nuvole vi scorrono sopra impunemente,
quanta sabbia del deserto passa da un paese all’altro,
quanti ciottoli di montagna rotolano su terreni altrui
con provocanti saltelli!
Wislawa Szymborska
Il nostro lavoro è il racconto di un’esperienza didattica che si è sviluppata in divenire ed è stata realizzata subito prima dell’applicazione della Legge n. 92 dell’agosto 2019 che ha introdotto l’insegnamento scolastico dell’Educazione civica come materia trasversale.
Ė un percorso di cui abbiamo potuto apprezzare la ricaduta didattica e che pertanto ci fa piacere condividere, perché muove dall’idea che il compito più alto della scuola sia la formazione di un cittadino consapevole di sé e degli altri e quindi capace di contribuire, come civis, ad indirizzare eticamente la civiltà.
L’esperienza didattica di cui parleremo prende avvio dalla partecipazione al concorso Che storia!, al quale abbiamo deciso di partecipare con le nostre classi, una terza ed una seconda liceali, rispettivamente del Liceo scientifico e del Liceo classico.
Che storia! è un concorso di scrittura ideato da Amedeo Feniello e Pietro Petteruti Pellegrino per favorire il rinnovamento dello studio e dell’insegnamento delle discipline storiche e letterarie nelle scuole secondarie e per promuovere la cittadinanza attiva e democratica. Il progetto è promosso dall’Accademia dell’Arcadia, in collaborazione con l’Istituto di storia dell’Europa mediterranea del Consiglio Nazionale delle Ricerche.
L’esperienza didattica dimostra che scrivere racconti su temi, avvenimenti e personaggi storici è per gli alunni delle scuole superiori una modalità coinvolgente di apprendimento e insieme un’opportunità privilegiata di maturazione psicologica e di crescita culturale e civile, soprattutto se l’esperienza avviene con modalità che privilegiano il lavoro di gruppo.[1] Dai ragazzi di entrambe le scuole la partecipazione al concorso è stata intesa come un’ottima occasione per porre l’accento sul tema delle migrazioni.
Con la terza del Liceo Scientifico abbiamo intrecciato più suggestioni (storiche, letterarie, filmiche, di cronaca e testimonianze reali) e tracciato una linea di ricerca che ci permettesse di raccontare due storie speculari: quella, inventata, di Anna, una ragazza italiana emigrata in America, ambientata nel 1947, e quella, vera, di Othman, un ragazzo ivoriano emigrato in Italia, ambientata nel 2017.
Siamo partiti dalla lettura del poemetto di Erri De Luca, Solo andata[2] e delle poesie di Aldo Masullo, Il sonno di Aylan e Pagella di scolaro in fondo al mare[3] e dallo studio del libro di Alessandro Leogrande, La frontiera[4] .
Ne è scaturita una profonda adesione etica alle storie dei migranti, che ha spinto i ragazzi a cercare di saperne di più. Alcuni di loro hanno quindi partecipato alla presentazione del libro di Michele Colucci Storia dell'immigrazione straniera in Italia: dal 1945 ai nostri giorni[5] e tutta la classe si è documentata sul fenomeno, restando particolarmente colpita dalla storia di Anila, raccontata dal medico Pietro Bartolo nel suo libro Le stelle di Lampedusa[6].
Per acquisire coscienza di ciò che è stata la condizione degli emigrati italiani nell’immediato dopoguerra è stata fondamentale la visione del film di Pietro Germi Il cammino della speranza[7], che ha innescato nei ragazzi la voglia di saperne di più non solo attraverso i libri di storia ma anche e soprattutto raccogliendo testimonianze in famiglia.
Ciò che stava veramente loro a cuore era capire il presente alla luce del passato. Ė stato quindi chiesto al fotografo Antonio Florio, che aveva ritratto alcuni giovani migranti esponendone le foto accompagnate da una breve intervista in una mostra dal titolo I miei sogni sono così distanti dai tuoi?[8], di metterci in contatto con uno di loro e il presente in carne ed ossa è venuto a trovarci, nella persona del ragazzino ivoriano che è poi diventato il protagonista della storia. Ascoltare dalla sua viva voce la sua storia è stato un momento molto importante. Gli siamo grati per la grande lezione di vita che ci ha dato[9].
Anche i ragazzi che frequentavano la seconda classe del Liceo Classico hanno risposto con entusiasmo alla proposta di elaborare un racconto collettivo partendo dalla Storia e hanno scelto di soffermarsi sulla storia delle “vittime collaterali”: si sono riuniti, hanno discusso e alla fine hanno deciso che la loro storia doveva raccontare del passato ma anche del presente. Durante la prima fase del lavoro, divisi per gruppi, hanno prodotto brevi narrazioni e proposto le modalità di scrittura che sentivano più adatte ad esprimerle. Quasi tutti volevano raccontare una storia che in qualche modo tenesse conto delle drammatiche vicende del Mediterraneo: il caso della nave Diciotti, le storie dei tanti morti in mare erano cose che li avevano particolarmente impressionati e profondamente coinvolti, perciò hanno proposto di raccontare il presente ponendolo in parallelo con la prima giornata di un giovane immigrato nella Torino del 1961.
Dopo aver scelto del materiale che potesse aiutarli nella individuazione di un milieu e nella ideazione di un orizzonte e di un immaginario, di fondamentale importanza è stato il viaggio di istruzione a Torino, che ha fornito uno scenario concreto alla storia e si è rivelato un’esperienza ricca di suggestioni.
Per la storia delle vittime di oggi abbiamo riletto brani de La frontiera di Alessandro Leogrande, seguito i fatti di cronaca e visionato materiali video. Per la storia torinese tutti hanno letto La festa del ritorno di Carmine Abate [10], alcuni ragazzi hanno visto il film Rocco e i suoi fratelli[11], altri hanno raccolto numeroso materiale iconografico, altri ancora hanno cercato sul web materiali d’epoca: articoli da «La Stampa»,[12] dati, cronache e il discorso tenuto dal Presidente Giovanni Gronchi in occasione della Festa della Repubblica il 2 giugno del 1961[13], giorno in cui è ambientata la storia.. Dalla raccolta dei dati e dal confronto tra gli alunni è emersa chiara la volontà di raccontare una storia che procedesse per immagini e affidasse alla frammentarietà dell’espressione tutta la difficoltà e tutto il dolore dell’esperienza della migrazione[14].
Il progetto ha impegnato un intero anno scolastico; successivamente, il nostro lavoro di ricerca-azione è confluito in una giornata di formazione nell’ambito di un percorso di Alternanza Scuola-lavoro (oggi si direbbe PCTO) organizzato dall’Azienda ospedaliera Policlinico Federico II di Napoli[15].
Quanto segue è il resoconto di questa giornata, che si è articolata in tre momenti: un primo momento curricolare, in cui i ragazzi si sono confrontati con le fonti scritte e sono stati invitati a produrre riflessioni scaturite da queste; un secondo momento di attività laboratoriali stimolate da prodotti audiovisivi; un momento conclusivo in cui i ragazzi, aiutati dagli esercizi da noi appositamente pensati per porli in situazione, sono riusciti a trovare le parole per esprimere le emozioni e le sensazioni suscitate dal percorso.
L’idea da cui siamo partite è che non esista un comportamento etico che non contempli la capacità di immedesimarsi nell’altro: un comportamento morale richiede sempre la capacità di immaginare se stessi in una condizione diversa dalla propria e dall’attuale.
Se è vero che la storia delle civiltà è da sempre storia di incontri e ibridazioni, cosa vuol dire allora raccontare l’altro? Soprattutto cosa vuol dire oggi raccontare l’altro?
Raccontare l’altro vuol dire sottrarre alla condanna del silenzio la vita di uomini, donne e bambini che sfidano il deserto, il mare, attraversano a piedi l’Europa, per cercare una via di fuga, vuol dire ritessere il filo della memoria per scoprire che noi siamo l’altro.
L’irruzione del sesto continente nelle nostre tranquille città ci obbliga moralmente a fare luce su migliaia di vite, ci spinge a sottrarre migliaia di esistenze alle semplici e sbrigative definizioni etniche o burocratiche: senegalese, ghanese, clandestino, naufrago.
Raccontare le vite dell’altro vuol dire anche e innanzitutto dargli un nome, far parlare le cose e gli oggetti che sono la sua vita, dare voce a emozioni e ricordi, e, nel fare questo, fare i conti con la nostra memoria, personale e collettiva, perché parlare dello straniero è parlare di un limite, di un confine fisico, emotivo o culturale che definisce la scoperta che l’io fa dell’altro. Lo straniero, dalla sua parte del confine oppure in mezzo a noi, rappresenta una duplicità di minaccia e dono: minaccia per la sua diversità, dono perché ci obbliga a prendere consapevolezza della nostra identità e ci aiuta a dirci chi siamo.
Così siamo partite dalle nostre radici, dalla tradizione classica e da quella ebraica, perché ci interessava far comprendere ai ragazzi come la questione integrazione/esclusione dello straniero fosse stata affrontata nel mondo classico ed in quello ebraico. Volevamo mettere a fuoco alcuni elementi che determinano anche il nostro atteggiamento culturale verso lo straniero al fine di individuare le persistenze e le discontinuità con il mondo di oggi.
Le radici greco-romane
Il modo in cui il mondo greco- romano si rapporta allo straniero non può essere ridotto ad unità di vedute e intenti, diviso com’è tra apertura e resistenze.
In una prospettiva etnocentrica, il mondo greco sostanzialmente elabora due diversi concetti di alterità: lo xénos, lo straniero come diverso in senso politico, e il bárbaros, l’estraneo, l’altro da me dal punto di vista culturale.
Lo xénos è anche l’ospite, che Zeus Xénios protegge e impone di rispettare obbedendo ai principi della xenia,[16] basata sul principio di reciprocità, concetto essenziale per il funzionamento delle società arcaiche, ivi compresa quella greca. Non riconoscere il diritto di ospitalità, e violare la persona e i beni di chi chiede asilo, è considerato indice di una barbarie subumana: a tal proposito valgano i noti episodi dei Ciclopi e dei Lestrigoni.[17]
Nel tempo la pólis elabora diverse modalità di rapportarsi allo straniero,[18] ma il principio dell’autoctonia rimane un requisito imprescindibile per la piena partecipazione alla vita della città: Cecrope, ipostasi dell’animale sacro generato dalle viscere della terra, e gli altri re mitici ateniesi sono rappresentati come ibridi metà umani e metà serpenti, perché tale forma vuole sottolineare il fatto che essi sono nati dalla terra stessa dell’Attica.
Ateniesi perciò non si diventa; è fin troppo noto il provvedimento emanato da Pericle secondo il quale la partecipazione alle assemblee era concessa solo a chi era figlio di genitori entrambi ateniesi. La vita politica diventava così esclusivo appannaggio di un gruppo di cittadini privilegiati che non ammettevano la possibilità di integrare individui o gruppi di diversa origine.
I romani pensavano alle loro origini in modo radicalmente diverso: nel libro XII dell’Eneide[19] Giove e Giunone scendono a patti: Giunone cesserà di perseguitare i Troiani a condizione che i Latini, unendosi a questi, mantengano il loro nome, la loro lingua e le loro usanze. È la celebrazione di un genus mixtum, un popolo misto che Romolo implementerà con l’istituzione dell’asylum e celebrerà nel rito di fondazione: dopo aver tracciato il solco della nuova città, il re invita infatti i futuri abitanti a gettare nel mundus ciascuno una zolla della propria terra di origine, in modo da dare inizio a un popolo che possa trarre la sua forza dalla mescolanza. Molti hanno voluto vedere in questo rito il rovesciamento speculare del mito ateniese dell’autoctonia: «se ad Atene è la terra a creare gli uomini, nella cultura romana sono invece gli uomini a creare la terra».[20]
Le radici ebraiche
Il nucleo della prima legislazione della Bibbia nei riguardi dello straniero ci presenta un assioma fondamentale: «non ti approfittare del gher (lo straniero) e non opprimerlo, perché voi stessi foste gherim in terra d’Egitto».[21] Per ogni israelita, dunque, il gher è la memoria della misericordia e della fedeltà di Yahweh, che in terra d’Egitto, ha ascoltato e liberato Israele, il “popolo di Dio”. Anche nel Deuteronomio[22] leggiamo: «Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto». Amore in ebraico si dice ‘ahav: ‘ahav sancisce il rapporto privilegiato tra Dio e il suo popolo e in questo caso tra Dio e lo straniero. In nome di questo amore gli israeliti sono chiamati a condividere con il gher il pane e il vestito e questa regola vale anche per i figli del nemico per eccellenza: «non avrai in abominio l’Egiziano, perché sei stato forestiero nella sua terra. I figli che nasceranno da loro alla terza generazione potranno entrare nella comunità del Signore».[23] “Entrare nella comunità del Signore” vuol dire creare un’integrazione con lo straniero, anche la condivisione del sacro rispetto del giorno di festa, Shabbat:
Il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.[24]
Associare il gher al riposo dello shabbat significa costruire con lui comunione e solidarietà in nome di un principio sacro che la Bibbia spesso ricorda al popolo di Israele, vale a dire che la terra è di Dio e solo di Dio: l’uomo l’ha solo avuta in dono. Si comprende bene, allora, come tra le maledizioni che sanciscono l’alleanza nel Deuteronomio è detto: «Maledetto chi lede il diritto dello straniero!»[25]
Come non incorrere in questa maledizione? Ė dal Mediterraneo, da sempre luogo di attraversamenti e sconfinamenti, che crediamo si debba partire, per capirlo:
Il Mediterraneo non è “luogo comune” ma un “luogo in comune”, un crocevia di attraversamenti umani dove tutto è già accaduto, anche quello che deve ancora accadere. Qui si spiegano e si dispiegano storicamente e dialetticamente emigrazione e immigrazione, le memorie del passato e le dinamiche del presente, gli Ulisse di ieri e di oggi.[26]
Abbiamo dunque pensato che fosse necessario sollecitare l’immaginario. Siamo partite da una suggestione visiva, rappresentazione del “luogo comune” per eccellenza, l’emigrante con la valigia: i Voyageurs di Bruno Catalano. Sono sculture figurative di uomini in cammino verso una terra sconosciuta, uomini che attraversano il mare, o valicano montagne, posti in luoghi di transito come porti, aeroporti, piazze; tra di loro c’è anche qualcuno che ce l’ha fatta: è arrivato in città, è in mezzo a noi. Eppure a tutti manca un pezzo di sé.
Abbiamo chiesto ai ragazzi cosa potesse rappresentare questo vuoto, confrontandolo con un’altra immagine, quella del monumento che Papa Francesco ha voluto davanti alla Basilica di S. Pietro. Si tratta di una scultura in bronzo e argilla, opera dell’artista Timothy Schmalz, che, a differenza dei migranti di Catalano, rappresenta un pieno.
Anche Schmalz ha posto in rilievo l’oggetto del migrante per eccellenza, la valigia, ma l’uomo che la stringe tra le mani è dentro una comunità, in un continuum di corpi variegato, con altri uomini a lui vicini, stretti, spalla a spalla, in piedi su una zattera, coi volti segnati dal dramma della fuga. Diverse le età, diverse le epoche storiche e le provenienze geografiche. Comunità è ascolto. Allora il gruppo di Schmalz, fortemente voluto dal Papa, ci ha suggerito che l’ascolto è l’unico modo per riempire il vuoto.
Ė a partire da questa riflessione sul vuoto e il pieno che i ragazzi si rendono conto che il rispetto dell’altro richiede che gli si restituisca la traccia della storia personale che la morte ha interrotto, come è accaduto al “bambino con la pagella” ripiegata con cura e cucita nella giacca, conservata con amore e orgoglio, appartenente a un ragazzo di quattordici anni morto nel Mediterraneo senza che nessuno lo potesse piangere e rinvenuta da Cristina Cattaneo, medico legale del Laboratorio di antropologia e odontologia forense di Milano, come ha raccontato nel suo libro Naufraghi senza volto[27]. Altrettanto toccante è la storia di Aylan, al quale è stato rubato anche il nome: si chiamava infatti Alan Curdi, non Aylan, il bambino siriano di tre anni divenuto simbolo della crisi europea dei migranti dopo la sua morte per annegamento e l’iconica foto scattata al ritrovamento del suo corpo senza vita su una spiaggia.
Ricostruire le vite degli altri, degli stranieri, significa chiamarli con il loro nome e, attraverso gli oggetti rinvenuti nelle loro valigie o scavando nella memoria dei dei loro smartphone, riannodare pezzi di vita per riempire i vuoti.
Ė da questa riflessione che ha preso avvio la fase laboratoriale, guidata da alcuni “esercizi” proposti ai ragazzi, il cui scopo era quello di “calarli in situazione”, metterli nei panni dell’altro. L’adesione emotiva è divenuta a questo punto molto forte, tanto che una studentessa non ha retto al dolore, scoppiando in un pianto dirotto, inconsolabile.
L’immedesimazione è dunque avvenuta, e ci ha fatto scoprire che anche noi siamo fatti di vuoti, proprio come ci racconta Alessandro Gassmann che, nel video-clip della canzone Solo andata[28] tratta dall’omonimo poemetto di Erri De Luca, rappresenta un pescatore che, tuffandosi nelle acque del Salento per salvare la vita a un gruppo di migranti caduti da un barcone, in una visione che sovrappone passato e presente, ricordi e realtà, si accorge che tra loro c’è sua madre, anche lei a suo tempo immigrata, e ci ricorda dunque che siamo o siamo stati tutti migranti alla ricerca di una terra.
Oggi, di fronte alle immagini dell’obitorio dell’ospedale di Sfax: un groviglio di arti non sempre identificabili, accatastati nelle sacche o buttati sul pavimento a marcire senza nome e senza sepoltura, o tornando con la memoria alla bambina restituita dal mare con una scarpa sola, un taglio su un piede, la bocca piena di sabbia, confusa tra corpi dei naufraghi arenati sulla spiaggia di Steccato di Cutro e poi ricomposta nel palasport di Crotone in una bara bianca contraddistinta dalla sigla Kr14f9: Crotone, vittima numero quattordici, femmina, età stimata nove anni, sentiamo sempre più forte l’obbligo di prestare ascolto alle storie dei migranti, nella speranza di restituire almeno a qualcuno la dignità del nome che portava.
10 luglio 2023
[1] Cfr. https://www.narrazionidiconfine.it/
[2] E. De Luca, Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Milano, Feltrinelli, 2014
[3] La poesia del filosofo Aldo Masullo, Pagella di scolaro in fondo al mare si può leggere qui: https://www.requiemperlegentidelmediterraneo.it/pagella-di-scolaro-in-fondo-al-mare-di-aldo-masullo/ La poesia Il sonno di Aylan è stata pubblicata pubblicato sul «Mattino» del 5 settembre 2015
[4] A. Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015
[5] M. Colucci Storia dell'immigrazione straniera in Italia: dal 1945 ai nostri giorni, Milano, Feltrinelli, 2018
[6] P. Bartolo, Le stelle di Lampedusa, Milano, Mondadori 2018
[7] Il cammino della speranza è un film drammatico del 1950 diretto da Pietro Germi, tratto dal romanzo Cuore negli abissi di Nino Di Maria.
[8]A questo link, qualche notizia sulla mostra:
[9] Il racconto Othman è Anna ha ricevuto una menzione speciale ed è stato pubblicato: cfr. Tutta un’altra storia 2, a c. di A. Feniello e P. Petteruti Pellegrino, Edizioni Accademia dell’Arcadia, 2019, pp. 145-154. On line, è consultabile qui: https://www.narrazionidiconfine.it/wp-content/uploads/2019/10/Tutta-unaltra-storia-2-2019-web.pdf
[10] C. Abate, La festa del ritorno, Milano, Mondadori, 2004
[11] Rocco e i suoi fratelli, film di Luchino Visconti, 1960
[12] I migranti di oggi come i meridionali del 1957: “Portano malattie e sono violenti”, Raphael Zanotti, «La Stampa», 26/06/2015; L’onda che mezzo secolo fa cambiò per sempre l’Italia, Marco Neirotti, «La Stampa», 8/ 12/ 2013
[13] Giovanni Gronchi, Per la Festa della Repubblica, 2 giugno 1961, Portale storico della Presidenza della Repubblica.
[14] Il racconto Occhi è stato ritenuto meritevole di pubblicazione on line ed è consultabile qui: https://www.narrazionidiconfine.it/concorso/che-storia-2/
[15] Health-Education: “Se i delfini venissero in aiuto”. Vivere insieme e stare insieme. Percorsi di inclusione e integrazione per la salute.
[16] A tale proposito assai indicativi sono gli episodi di Glauco e Diomede (Iliade VI, vv. 119-236) e Odisseo e Nausicaa (Odissea VI, vv. 110- 38)
[17] Odisseo e i Ciclopi: Odissea IX, vv. 170- 542; Odisseo nel paese dei Lestrigoni: Odissea X, vv. 80- 132
[18] Una delle modalità in cui la pólis si rapportava allo straniero era la prossenía: il prosseno, una sorta di console, doveva tutelare dinanzi a tutte le autorità, sia militari, sia politiche gli interessi dei cittadini appartenenti alla città che gli aveva conferito tale incarico. L’asylía o inviolabilità, era poi una garanzia giuridica che rendeva lo straniero immune al diritto di rappresaglia e poteva essere concessa ai singoli oppure ad intere popolazioni; essa aveva come garante la divinità, e non una figura umana. Un istituto a parte era ancora la metoikía, in base alla quale i meteci, o stranieri residenti, avevano uno status intermedio tra cittadini e xénoi; questi erano stranieri di origine greca che si stabilivano ad Atene per periodi prolungati e dovevano porsi sotto la protezione di un patrono, detto prostàtes, che garantiva loro un sostegno giuridico. I meteci erano iscritti in speciali registri anagrafici, prestavano servizio militare, ma erano esclusi dalla vita politica.
[19] Eneide, XII, vv. 818- 842
[20] Mario Lentano, Stranieri. Identità e inclusione in Grecia e a Roma, Pearson https://it.pearson.com/aree-disciplinari/storia/cultura-storica/antica/stranieri-identita-roma-grecia.htm
[21] Esodo 22, 20
[22] Deuteronomio 10,17-19
[23] Deuteronomio 23,8-9
[24] Deuteronomio 5,14
[25] Deuteronomio 27,19
[26] cfr. https://www.tribalnetworking.net/gli-orizzonti-delle-memorie-intervista-con-antonino-cusumano/
[27] C. Cattaneo, Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo, Milano,
Raffaello Cortina Editore, 2018
[28] Il video è visionabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=IQwe2DNvSZ8