Gianpaolo Missorini - La morte e le sue immagini

Dino Buzzati, Il mantello

 

La presente lezione si propone di presentare un breve racconto di Dino Buzzati, Il mantello, attraverso un percorso spendibile sia nel primo anno di scuola superiore, nel contesto di analisi del testo narrativo, in particolare della narrativa breve, sia durante il quinto anno, in uno spazio dedicato al grande autore bellunese all’interno del programma di Letteratura italiana. Inoltre, il testo, vista la brevità e la semplicità di approccio, può essere agevolmente proposto in qualsiasi indirizzo di scuola superiore.

Prima di passare all’analisi del racconto, sarà importante fornire alcuni dati bio-bibliografici (in questo caso si potrà optare per il manuale di letteratura oppure fare riferimento alla voce dell’Enciclopedia Treccani) relativi all’autore e al genere letterario (Surrealismo) in questione.

Si presenterà brevemente la vicenda editoriale del racconto, pubblicato per la prima volta sul Corriere della Sera, il 19 luglio 1940 e poi inserito nelle principali raccolte buzzatiane: I sette messaggeri (1942), Sessanta racconti (1958) e La boutique del mistero (1968).

In seguito, si potrà passare a una prima lettura, che qua verrà riassunta nei passi principali, su cui il docente si soffermerà per i commenti.

Buzzati, mediante un narratore esterno in terza persona, propone inizialmente un quadro famigliare, con il ritorno a casa del soldato Giovanni, accolto amorevolmente dalla madre e dai due fratellini, Anna e Pietro. Già da subito compare, però, l’elemento perturbante, ovvero un mantello da cui il protagonista non vuole separarsi:

 

«Ma togliti il mantello, creatura» disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto d'esserne intimidita; com'era diventato alto, bello fiero (anche se un po' troppo pallido). «Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo?»

Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via.

«No, no lasciami» rispose evasivo «preferisco di no, tanto, tra poco devo uscire...».[1]

 

Sarà fin da subito importante chiarire come il “perturbante” sia un tratto tipico della narrativa buzzatiana e del surrealismo in genere. Una situazione apparentemente realistica viene sconvolta da qualcosa di inaspettato: si citeranno a tal proposito i racconti di Poe, per molti versi anticipatore della letteratura surrealista, magari proponendo la lettura integrale di William Wilson o de Il pozzo e il pendolo; sulla linea tracciata dall’autore americano si potrebbe proporre anche un testo di Guy De Maupassant, ad esempio L’Horla o Sul fiume. Giungendo più vicini a Buzzati, è centrale l’influenza sul Surrealismo di Pirandello, in particolare della celebre novella Il treno ha fischiato, dove la banale e grigia quotidianità del lavoro vengono minate alla radice dalla follia e dall’assurdo. Allora verrà forse naturale instaurare un paragone con Franz Kafka, vero punto di riferimento per Buzzati: sarà doveroso leggere in classe o proporre per una lettura domestica, La metamorfosi, capolavoro dello scrittore praghese.

A questo punto viene introdotto un altro personaggio, un misterioso compagno di viaggio di Giovanni, che la madre invita a entrare, per rifocillarsi. Il figlio sembra riluttante, quasi contrariato dall’idea, opponendo il fatto che l’altro non avrebbe gradito l’ospitalità. La madre osserva la figura che attende Giovanni davanti alla casa, ma non riesce a distinguerne i tratti, essendo questa avvolta da un mantello nero; dava inoltre, alla vista, una strana sensazione di pena.

 

«Ah, non sei venuto solo? E chi c'era con te? Un tuo compagno di reggimento? Il figliolo della Mena forse?»

«No, no, era uno incontrato per via. È fuori che aspetta adesso.» «È lì che aspetta? E perché non l'hai fatto entrare? L'hai lasciato in mezzo alla strada?»

Andò alla finestra e attraverso l'orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava sensazione di nero. Allora nell'animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta.

 «È meglio di no» rispose lui, reciso. «Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così».

«Ma un bicchiere di vino? glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?»

 «Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, è capace di andar sulle furie.»

«Ma chi è allora? Perché ti ci sei messo insieme? Che cosa vuole da te?»

«Bene non lo conosco» disse lui lentamente e assai grave. «L'ho incontrato durante il viaggio. È venuto con me, ecco.»

 Sembrava preferisse altro argomento, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la luce di prima.[2]

 

Davanti all’infelicità e allo sguardo pensieroso del figlio, la madre, naturalmente, inizia a preoccuparsi e a chiedersi quale fosse la causa di tale mestizia: non dovrebbe infatti, essere gioioso per il ritorno a casa, il suo prossimo matrimonio? E soprattutto, l’essere scampato a una terribile guerra, non dovrebbe fargli maggiormente apprezzare le piccole cose della vita quotidiana?

 

Egli sorrise soltanto, sempre con quell'espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può, per qualche segreto peso.

La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un'infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. Non più le notti d'angoscia quando all'orizzonte spuntavano bagliori di fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato, finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva di più, perché non raccontava le battaglie? E il mantello? Perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché, sotto, l'uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine. Il dolce viso piegato un po' da una parte, lo fissa va con ansia, attenta a non contrariarlo, a capire subito tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava, perché non la guardava nemmeno?

In realtà il figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo.[3]

 

Dopo aver mangiato alquanto passivamente una fetta di torta e aver bevuto una tazza di caffè, Giovanni torna a vedere assieme alla madre la sua vecchia camera, da poco imbiancata e messa a nuovo. Il giovane reagisce in modo molto contenuto, quasi indifferente: soltanto quando vede la madre sistemare la coperta del letto, il suo sguardo si pone sulle spalle gracili della donna, e un moto di tristezza, quasi impercettibile, gli si dipinge in volto. Tuttavia, i pensieri del giovane sono costantemente rivolti al compagno di viaggio, che si muoveva su e giù davanti al cancelletto.

 

«Giovanni» gli propose invece «e non vuoi rivedere la tua camera? C'è il letto nuovo, sai? ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere... ma il mantello, non te lo levi dunque?... non senti che caldo?».

Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia movendo alla stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come s’egli non avesse venti anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza).

«Che bello!» fece lui con fioco entusiasmo, come fu sulla soglia, alla vista dei mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma adaggiustare la coperta del letto, anch'essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sul le sue gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e sorpresa.

Invece niente. «Com'è bello! Grazie, sai? mamma» ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di conchiudere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una figura andava su e giù lentamente.[4]

 

Davanti all’ennesima espressione vuota del figlio, la madre gli chiede supplice che cosa le stia nascondendo; Giovanni afferma di dover andare e di non sapere quale sia la sua destinazione: sa soltanto che «c’è quello là che mi aspetta»,[5] riferendosi al misterioso viaggiatore, «è stato fin troppo paziente.».[6] Quando il giovane soldato sta per aprire la porta della casa, tuttavia, i due fratellini, per giocare, lo abbracciano, e il piccolo Pietro gli solleva un lembo del mantello, per vedere come fosse sotto la sua uniforme militare. Ѐ qui che avviene la terribile scoperta.

 

«No, no!» esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma ormai troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante.

«Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto?» balbettò la madre, prendendosi il volto tra le mani. «Giovanni, ma questo è sangue!»

«Devo andare, mamma» ripeté lui per la seconda volta, con disperata fermezza. «L'ho già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma».

Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l'orto quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano.[7]

 

Giovanni è stato ferito mortalmente in guerra, il suo corpo è pieno di sangue, coperto dal mantello per celare la verità alla madre. Non è chiaro se chi si è presentato alla famiglia sia il giovane, moribondo, oppure il suo fantasma. Appare più probabile che si tratti di un’imago Christi, un riferimento alla teofania di Cristo, recante le stimmate e i segni della crocifissione, a partire dalla più celebre in Giovanni, 20, 27.[8] Se si volesse azzardare un ulteriore livello di lettura Giovanni si presta a essere un’allegoria di Cristo, maggiormente accentuata dalla presenza della Mater dolorosa a cui il figlio viene strappato violentemente prima del tempo; così, allora, tutti quei giovani deceduti inutilmente durante il primo conflitto mondiale, trovano nel protagonista un emblematico riferimento, per cui si svela l’inganno oraziano del dulce et decorum est pro patria mori.

Come ha affermato Mellarini, «non sarà un caso che lo stesso protagonista del dramma – quel Giovanni che ritorna morto dal fronte per una breve visita alla propria famiglia – non sia solo un emblema, una generica e astratta figura di soldato, ma, al contrario, un vero e proprio combattente, uno dei tanti che hanno trovato la morte in montagna durante la prima guerra mondiale».[9]

Attraverso Giovanni, emerge così tutto l’antimilitarismo di Buzzati, già esplorato nel romanzo breve Barnabo delle montagne (1933) e poi ripreso proprio in quel 1940 ne Il deserto dei tartari.

 

Ѐ nell’ultimo paragrafo, attraverso lo spostamento della focalizzazione interna agli occhi della madre, che il lettore comprende davvero chi fosse l’oscura presenza che attendeva il protagonista fuori dalla casa: si tratta della morte. Pur essendo avvolta nel suo tetro mantello, è’ un’immagine tuttavia misericordiosa, che ha accompagnato il giovane nel suo ultimo saluto alla famiglia e lo ha pazientemente atteso fuori, in mezzo alla polvere, come un mendicante. Nonostante sia il “signore del mondo”, non osa entrare, per non rovinare quell’ultimo momento di felicità familiare. Prova forse anch’essa pietà per le vite strappate dalla guerra?

 

E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso, che mai e poi mai nei secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato.[10]

 

Per cercare un approccio più diretto e meno teorico, si potrebbe a questo punto proporre alla classe un breve confronto con altre rappresentazioni della morte nella musica e nel cinema.

Per iniziare è consigliabile l’ascolto di Samarcanda (1977) di Roberto Vecchioni, accompagnato da un’accurata analisi del testo, magari dando libero spazio alle proposte interpretative della classe, in un’operazione collettiva di decrittazione del testo e del suo apparato allusivo guidata da suggerimenti e sollecitazioni del docente.

Dopo una situazione iniziale di festa, che vede alcuni soldati ballare e brindare, nei versi: «il soldato che tutta la notte ballò //vide tra la folla quella nera signora //, vide che cercava lui e si spaventò», viene introdotta l’inquietante figura della morte, che sembra attendere proprio il protagonista. L’uomo chiede allora aiuto al proprio sovrano, che gli fornisce un celere destriero per fuggire il più lontano possibile, fino alla città di Samarcanda. Dopo un lungo viaggio, arrivato qui, il soldato vede ancora «tra la folla quella nera signora //stanco di fuggire la sua testa chinò». A questo punto, stremato, china il proprio capo e si arrende al suo destino; tuttavia, la morte gli specifica che non lo stava guardando con intenzioni malevoli, anzi, lo ha pazientemente seguito e atteso ovunque lui si recasse.  

Nella celebre canzone di Vecchioni, così come nel racconto buzzatiano, la morte è vestita di nero, il colore del lutto e dell’oblio eterno, ma in questo caso si tratta di una figura femminile. Tuttavia, in entrambe le raffigurazioni, diviene compagna fedele degli uomini, specialmente dei militari, quasi un angelo custode che li accompagna dolcemente nell’aldilà. Non c’è alcuna traccia di piacere sadico nel compiere il proprio dovere, è un’immagine laica ma al contempo provvidenziale del destino umano, che appare vicina a coloro che periscono prima del tempo.

Se si pensa al mondo del cinema, l’iconografia della morte vi ha trovato ampia fortuna, tuttavia la più celebre è sicuramente quella che si trova ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957). Qui si narra la vicenda di un cavaliere templare, Antonius, che, al ritorno in patria dalla Terrasanta, trova la morte ad attenderlo. Il soldato le propone di fare una partita a scacchi, che si svolgerà in diversi momenti, alternati ad altrettanti incontri con vari personaggi.

Nonostante il film non sia di una durata eccessiva, tuttavia per le sue modalità narrative e formali potrebbe forse risultare ostico a un giovane pubblico, per cui si potrebbe decidere di mostrare la sequenza iniziale, facilmente reperibile su Youtube. Qui, la morte, interpretata da Bengt Ekerot, viene rappresentata da Bergman come un uomo dal volto pallido, con un nero mantello e un cappuccio. In questo caso si torna alla raffigurazione buzzatiana di una figura maschile, tuttavia, la grande differenza è che il personaggio rivela subito la sua identità, affermando che era da molto tempo che aspettava Antonius. Il cavaliere avanza allora l’idea della sfida a scacchi, gioco nel quale è rinomata per essere invincibile, confessando di voler provare a resisterle se non, addirittura, a darle scacco matto, al fine di avere salva la vita.

 

Bibliografia

D. Buzzati, Il mantello, in La boutique del mistero, Mondadori, 2016, Milano

B. Mellarini, Modelli eroici e ideologia della guerra in Dino Buzzati in Ticontre. Teoria Testo Traduzione, numero 7 - maggio 2017, Università degli Studi di Trento, pp. 201-223

 

 

18 giugno 2025

 

 


[1] D. Buzzati, Il mantello, in La boutique del mistero, Mondadori, 2016, Milano, p. 52.

[2] Ivi, p.53.

[3] Ivi, pp. 53-54.

[4] Ivi, pp. 54-55.

[5] Ivi, p.55.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, pp. 55-56.

[8]  Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!».

[9] B. Mellarini, Modelli eroici e ideologia della guerra in Dino Buzzati in Ticontre. Teoria Testo Traduzione, numero 7 - maggio 2017, Università degli Studi di Trento, p. 219.

[10] Il mantello, p.56.