Sette piani di Dino Buzzati e Il fischio al naso di Ugo Tognazzi
È il 1° Marzo 1937 quando Dino Buzzati pubblica I sette piani (in seguito cambierà il titolo in Sette piani), racconto non brevissimo di una quindicina pagine, sulla rivista «La Lettura» e successivamente nella prima raccolta, I sette messaggeri (1942). Il racconto comparirà poi anche nelle celebri successive antologie: Sessanta racconti (1958) e La boutique del mistero (1968)[1], con alcune revisioni e ripensamenti. Ne seguirà un adattamento per il teatro dello stesso Buzzati, Un caso clinico, rappresentata per la prima volta al Piccolo di Milano nel 1953, a sua volta tradotta in francese e adattata da Albert Camus (1955) per il teatro parigino «La Bruyère».
Il racconto di Buzzati offre alcuni spunti interessanti per una proposta didattica di carattere interdisciplinare, che possa passare da una lettura, anche antologizzata con altri racconti, del testo, alla visione della trasposizione cinematografica del 1967 di Ugo Tognazzi. Quest’unità didattica, spendibile in circa quattro ore, è attuabile e indicata sia per la prima superiore, quando ci si approccia per la prima volta al testo narrativo, sia in quinta, dove Buzzati potrebbe essere proposto come autore oggetto di studio, in riferimento eventualmente alla lettura integrale de Il deserto dei tartari. La possibilità di affiancare all’analisi letteraria la visione di un film, “facilita” questo tipo di percorso, per quanto la pellicola sia datata e non di semplicissima comprensione per un giovane pubblico.
Prima di procedere alla lettura del racconto, sarebbe opportuno fornire ai discenti una breve panoramica bio-bibliografica di Buzzati, mettendo in luce soprattutto le tematiche surrealiste del sogno, dell’assenza e dell’indefinitezza spazio-temporale, dell’attesa quasi ossessiva dei protagonisti per qualcosa che mai sembra arrivare, che fanno da costante nell’opera dell’autore. Qualora si proponesse questo lavoro a una quinta si potrebbe optare per alcuni previi o successivi collegamenti (e differenze) con Franz Kafka e Italo Calvino, così come un veloce excursus sul Surrealismo e l’arte di Salvador Dalì (perché no. anche sui dipinti dello stesso Buzzati) offrirebbe un ulteriore supporto visivo a concetti che potrebbero risultare agli studenti troppo astratti.
Si proceda dunque alla lettura integrale del testo, in genere escluso, per la sua lunghezza, dalle antologie scolastiche.
E’ forse consigliabile evitare commenti e interruzioni della lettura del racconto, che è pensato e strutturato secondo la modalità del ‘testo breve’ così come la intendeva Edgar Allan Poe (un testo che sfrutta l’efficacia comunicativa di una fruizione che si realizza in una sola seduta di lettura). Questo consente non solo di avere un’ottica d’insieme della vicenda, che spezzata rischia di confondere e annoiare; ma soprattutto consente di meglio realizzare quell’effetto di suspense che era uno degli intenti estetico dell’autore, che crea un senso di attesa, quasi snervante, prima di arrivare a una soluzione della vicenda che (meglio anticiparlo) non soddisferà in pieno il lettore.
La vicenda è dunque facilmente riassumibile: l’avvocato Giuseppe Corte, di cui l’autore non dice assolutamente nulla, decide di farsi ricoverare per una misteriosa malattia in un rinomato sanatorio; qui inizia una cura dopo l’altra, con medici diversi, che lo porteranno a risiedere in tutti e sette i piani dell’edificio, fino al tragico epilogo. In tutto ciò nulla di troppo particolare, anzi a una prima occhiata apparirebbe una storia banale e degna di poco conto. Ma è proprio questo il punto nevralgico su cui Buzzati preme: narrare un fatto apparentemente semplice, dove tuttavia risiede un qualcosa di oscuro e misterioso, che crea attesa e inquietudine. Si spiegherà poi agli studenti l’ulteriore livello di lettura: infatti il Corte è portato gradualmente dai medici, che appaiono quanto mai affabili e sornioni, ad un annullamento della volontà; cosicché dalla spavalderia iniziale («chiese il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano»[2]), la sua sicurezza di piano in piano si incrina sempre di più, fino a trasformarlo in un totale inetto («Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l’aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza.»[3]).
Si potrà, qualora la classe cui ci si rivolge e il piano di studi precedenti lo rendano possibile, chiarire un terzo grado di interpretazione. La discesa di Giuseppe Corte dal settimo piano, luogo dove la distinzione tra chi è fuori e chi è ricoverato è appena percettibile, al temutissimo primo («al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C’è solo il prete che lavora.»[4]) appare come una lenta e claustrofobica discesa agli inferi, un viaggio di sapore dantesco del viator peccatore Corte attraverso tutti i gradi della punizione umana. Il male oscuro che avvolge il protagonista sembra davvero una sorta di peccato originale, qualcosa di inspiegabile, che tuttavia persiste e marchia a fuoco l’uomo, cambiando mutevolmente di giorno in giorno. Di un sapore mistico e letterario sono anche i medici e gli impiegati dell’ospedale, quasi guardiani e diavoli infernali, vestiti però con camici bianchi e apparentemente sempre cordiali con i pazienti: è anche qui che risiede la bravura di Buzzati, infatti dietro a questi personaggi affabili si nasconde il riso sadico e il gusto malvagio per la tortura (mentale, ovviamente) del paziente. La storia rivela poi il nome del creatore della clinica, il geniale professor Dati, luminare della scienza, che mai compare di persona, ma la cui ombra grava spettrale sull’edificio. E’ un “imperador del doloroso regno”, implacabile nei suoi giudizi, temuto e riverito sia dagli impiegati che dai pazienti, il cui nome è noto anche a chi sta al di fuori dell’ospedale. Una evidente rappresentazione simbolica, dunque, della forza stessa del destino, o della potenza arcana, incommensurabile e imperscrutabile di un Dio infernale.
Si è detto che per il Corte non c’è via di scampo, per quanto l’uomo speri in una guarigione, l’autore costruisce infatti questo viaggio a senso unico, facendo intuire gradualmente come le porte dell’edificio siano paragonabili a quelle della città di Dite. Anche il motivo della divisione in piani è un fortissimo richiamo a Dante, trasportato tuttavia in una metropoli non ben definita dell’Italia anni ’30.
Esaurita la tematica dantesca (ancora tanti potrebbero essere i richiami da cogliere), si potrebbe brevemente mostrare con un excursus come questo tema, l’ascesa o la catabasi come metafora del destino umano e del viaggio interiore, sia ben radicata nella cultura letteraria: dall’ XI libro dell’Odissea al monte Ventoso del Petrarca, passando per La montagna incantata di Thomas Mann, fino allo stesso Buzzati con Bàrnabo delle montagne, o ancora il più recente Le otto montagne di Paolo Cognetti.
Si passi nella seconda parte alla pellicola di Ugo Tognazzi, lasciando al post visione un breve spazio per illustrare le differenze tra il testo buzzatiano e la sua unica trasposizione cinematografica.
Le differenze compaiono già nel titolo: infatti Il fischio al naso fa riferimento a un fastidioso rumore nasale, quasi di un fischietto, che affligge il protagonista del film, mentre Giuseppe Corte giunge alla clinica per via di un malessere generico, indefinito e misterioso. Così come il personaggio interpretato da Ugo Tognazzi non è l’avvocato Corte, ma un ricco uomo d’affari, Giuseppe Inzerna, presidente di un’importante azienda di prodotti di carta; inoltre Inzerna non crede di essere malato, per cui non va di sua spontanea volontà alla clinica, ma una volta giuntovi per presentare alcuni suoi lenzuoli ospedalieri cartacei viene spinto, di malavoglia, a restare per controlli ulteriori. Mentre di Corte non sappiamo e non sapremo assolutamente nulla, di Inzerna conosciamo già la famiglia, composta da moglie, figlia e il vecchio padre, sordo e rintronato, oltre che ex proprietario dell’azienda. Un’altra notevole differenza è nell’ordinamento dei piani dell’ospedale: infatti se nel racconto i malati sono disposti in ordine discendente di “gravità”, nella pellicola, al contrario, il percorso è in salita. Il film affida alle peculiarità scenografiche (un graduale passaggio da spazi ariosi e arredi lussuosi, verso ambienti più angusti, soffocanti e miseri) la forte caratterizzazione dei singoli piani. Nel racconto la descrizione dei piani è meno caratterizzata rispetto al film, ma ognuno di essi conserva distinte peculiarità che lo configurano come una sorta di universo a sé stante. Si sottolinei questo passaggio del racconto buzzatiano:
Seppe così la strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo.[5]
Notevole è il particolare delle persiane grigie, presenti anche nel film. Però, mentre qui hanno valore accessorio, o al limite possono alludere a qualcosa che non deve essere visto, nel racconto hanno un’importanza centrale per la trama, divengono simbolo della morte e della chiusura degli occhi del defunto; compaiono infatti da subito come quell’elemento particolare e al contempo disturbante, un topos della narrativa buzzatiana[6]:
Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.[7]
Di nuovo, alla fine, le persiane concorrono a svelare il luttuoso fato del Corte:
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.[8]
A proposito del primo piano, nel racconto sappiamo da subito che è riservato ai moribondi, infatti parlando con un compagno di stanza, Corte scopre con orrore che qui lavorano ormai solo i preti, non i medici. Inzerna invece, non sa nulla di tutto ciò, per quanto l’ultima persona che vedrà al settimo piano, sarà proprio un ecclesiastico.
Tornando indietro, l’andamento della storia combacia, infatti sia Corte che Inzerna, vengono fatti traslocare al sesto/secondo piano con la medesima scusa: una signora deve essere ricoverata, però purtroppo l’unica stanza che le permetta di stare con i figli è quella del protagonista; egli accetta cortesemente di cederla, pensando di venire spostato in un’altra. Gli viene rivelato però che l’unica possibilità è di risiedere temporaneamente nel piano successivo. Per quanto infastidito, accetta, sicuro e illuso della temporaneità di questa soluzione. Il tempo passa, e l’uomo inizia a spazientirsi, così prova a parlare con il medico, che gli rivela che la causa arcana del suo male: il processo distruttivo delle cellule. Inizia così la lenta discesa di Corte/Inzerna, che ogni volta si adira sempre di più, sicuro del fatto di venire truffato e che i suoi diritti gli consentirebbero di uscire quando ne ha voglia: c’è tuttavia una forza misteriosa che sembra impedirgli di andarsene, causa della sua inettitudine e impotenza. Sorge dunque un nuovo male, scelta ripresa dalla pellicola, un grosso eczema, la cui origine non dipende dalla malattia originaria, che necessita tuttavia di essere trattato con una cura a raggi: l’unico problema è che questa risiede al quarto piano. Inizialmente renitente, per lo strazio dell’eczema, più psicologico che fisico in realtà, accetta infine il trasferimento.
A questo punto viene introdotto nel racconto il professor Dati, che opera soltanto tra primo e secondo piano, ma il cui “influsso” arriva sino al terzo; viene così consigliato a Corte di farsi spostare nuovamente, per risolvere in modo definitivo il problema. Non avverrà mai l’incontro tra i due, a differenza della pellicola: infatti, dopo svariate proteste, Inzerna riesce a farsi ricevere dal direttore della clinica, che con il viso mezzo coperto o girato di spalle, tranquillizza (ingannandolo) il paziente. C’è qui un particolare inquietante: infatti nello studio del medico sono presenti alcuni animali ibernati in curiose scatole di ghiaccio, osservate con un certo orrore da Inzerna.
Scopriamo infatti che all’esterno della clinica, la famiglia Inzerna, per nulla preoccupata delle condizioni del ricoverato, sta anzi prendendo accordi di natura economica nel caso questi venga a mancare: la clinica propone addirittura una soluzione estrema, ovvero l’ibernazione del soggetto a scopi sperimentali (che comporterebbe una copiosa remunerazione per la moglie).
Tornando al racconto, Giuseppe Corte scopre che al terzo piano regna una generale euforia: infatti a breve tutto il personale andrà in vacanza per quindici giorni, così i malati verranno uniti a quelli del secondo piano. Qui trasferito, l’uomo nota che ogni cosa attorno a lui sembra comunicare sconforto e disperazione:
Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe.[9]
Addirittura, echeggiano rumori infernali dal primo piano, quasi lamenti di anime dannate:
E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei “condannati”, vaghi rantoli di agonie.[10]
La stessa vista dall’ospedale appariva ormai come una muraglia invalicabile, metafora di un destino ormai certo e di una condanna eterna:
Dalla finestra – si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti – non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l’ospedale.[11]
Qua il film differisce leggermente, infatti Inzerna tenta (diversamente da Corte che rimane bloccato in ospedale) una disperata fuga dal sapore vagamente ariostesco, attraverso il bosco; il suo piano si arena tuttavia quando l’uomo incontra una splendida donna che sta facendo il bagno nuda in una piscina e mentre si abbandona al voyerismo, spiando la fanciulla da dietro una grata, viene riacciuffato dagli infermieri.
Inzerna e Corte sono ormai destinati all’estremo limite dell’ospedale, rassegnati a quella che sembra la loro ultima meta: il primo passa le giornate a fissare il cielo, dove un elicottero svolazza rumorosamente, mentre si fa radere da un barbiere chiacchierone a cui non risponde neppure. La scena si chiude con le sue ultime, ironiche parole: «Chi l’avrebbe mai detto, tutto per un fischio al naso».
La conferma della morte di Inzerna avviene dall’inquadratura successiva, dove la moglie, la figlia e il padre, indifferenti per il tragico destino del defunto, si avviano al suo funerale: invece di piangere per la perdita, i tre discutono in macchina se alle esequie sia giusto o meno indossare parrucche nere.
Per quanto riguarda il povero Corte, giunto al primo piano, ormai passa le giornate a guardare fuori dalla finestra, non sapendo più che cosa sia reale e che cosa frutto della sua immaginazione:
La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio d’estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l’impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto.[12]
Tognazzi, nella scena della morte di Inzerna, sceglie di rimanere fedele a Buzzati, con un’inquadratura che si chiude a cerchio concentrico, quasi a simulare le tenebre che avvolgono ormai il moribondo: lo stesso avviene a Giuseppe Corte, che vede la stanza attorno a sé farsi sempre più buia e le persiane scendere lentamente.
28 febbraio 2023
[1] L’articolo fa riferimento alla versione del racconto contenuta in questa raccolta (citando dall’edizione «Oscar» Mondadori, 2015).
[2] D. Buzzati, La boutique del mistero, Oscar Mondadori, Milano, 2015, p. 25.
[3] Ivi, p. 37.
[4] Ivi, p. 25.
[5] Ivi, p. 25.
[6] Si pensi solo al ritaglio di giornale in Qualcosa era successo oppure al mantello del protagonista in Il mantello.
[7] Buzzati, Sette piani, p. 24
[8] Ivi, p. 38
[9] Ivi, p. 36.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] Ivi, p. 37