Gian Paolo Missorini - Il mito di Circe tra Giovan Battista Gelli e Madeline Miller

Una proposta didattica

 

Introduzione

La figura di Circe si presta perfettamente ad un lavoro di approfondimento didattico che sia in grado di collegarne e svilupparne in più direzioni il mito archetipico. Partendo dal celebre dialogo rinascimentale La Circe (1549) del filosofo fiorentino Giovan Battista Gelli (1498-1563), si potrebbe pensare ad un percorso che illustri brevemente la fortuna di Circe in alcuni autori successivi della letteratura italiana, per mostrare poi come la scrittrice americana Madeline Miller abbia trasformato e riadattato il personaggio Circe in un romanzo che sta avendo un successo planetario, specialmente tra i lettori adolescenti.

Nelle classi sarà opportuno presentare brevemente la figura di Circe, anche leggerne l’episodio, in traduzione, dal X libro dell’Odissea, senza darne per scontata la lettura in sede di scuola media. Non sarà necessario, a meno che non si voglia ampliare il discorso verso un’unità didattica apposita, elencare dettagliatamente i tanti autori classici successivi a Omero che abbiano declinato le vicende della celebre maga: è tuttavia consigliato un breve excursus, specialmente in ambito liceale, per mostrare la fortuna del personaggio già in Grecia e poi a Roma (Ovidio su tutti)[1].

 

Per qualsiasi canone o periodo si opti, è importante rendere chiaro ai discenti come Circe abbia avuto una lunga storia e che autori, siano celebri o frequentati solo dagli studiosi, ne hanno tenuta in vita e arricchita la storia con versioni del mito, anche molto differenti.

 

Non c’è un momento “ideale” per proporre questo tipo di attività, che difatti sarebbe praticabile già nello studio dell’epica al biennio. Sarebbe forse preferibile collocare la presente proposta quando si affronta, tra il terzo e quarto anno delle scuole superiori, lo studio della cultura umanistico-rinascimentale, quando lo studente ha già acquisito alcune basi e nozioni di carattere storico-letterario. Il percorso si inserirà così in un contesto in cui il grande tema della metamorfosi – centrale per la cultura del Rinascimento, tanto da costituire in essa un vero e proprio topos – sarà articolabile associandolo alla lettura di altri testi coevi, come l’Asino di Machiavelli (opera che, pubblicata postuma, vide la luce proprio nello stesso anno, il 1548, in cui fu stampata la Circe di Gelli). Gelli trova nell’Asino del suo illustre concittadino un modello di riferimento, assieme al testo di Plutarco Bruta animalia ratione uti, come indica lo stesso autore nella dedicatoria al duca Cosimo I, ma “dilata l’argomento a una dimensione filosofica più vasta, raggiungendo esiti assolutamente originali”[2].

Dopo aver illustrato i punti chiave della figura dell’autore e le tematiche della Circe, si potrà passare a una breve lettura di almeno due brani dal testo gelliano.

 

Si metterà in luce come il testo di Gelli si collochi a pieno nella corrente culturale del suo tempo, la Firenze ducale, dove assieme ai grandi dibattiti sulla lingua e alla nascita delle accademie, si assiste a una modalità di ripresa di un classico che non è più la pura imitatio rinascimentale, ma una ricerca costante e originale sui grandi temi dell’esistenza, in dialogo con l’antico. La vicenda omerica di Circe diventa allora l’occasione per trattare numerose tematiche, tra le quali spicca quello del rapporto tra uomo e natura, conoscenza e istinto (si farà notare che grande importanza avranno i dialoghi di Gelli sulle Operette Morali leopardiane).

 

Parte 1

Il percorso di letture potrebbe partire dalle primissime pagine del dialogo quarto, dove Ulisse discute brevemente con Circe sulla volontà degli animali incontrati di rimanere bestie, piuttosto che ritornare umani, cosa che stupisce il sovrano di Itaca.

 

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Ulisse è fermo nelle sue opinioni, certo della superiorità dell’uomo sulle altre creature, grazie alla ragione che ne domina l’esistenza; Circe al contrario sostiene la superiorità di una vita condotta secondo le leggi della natura, perché essa, a differenza dell’intelletto, non può sbagliare. Davanti a ciò l’uomo domanda a Circe se per lei sia meglio una fiera rispetto ad un essere umano, ed ella risponde ambiguamente: da un lato non può né sostenere tale tesi (‹‹né anco tu debbi pensare che io lo creda, perch’io mi sarei ancora io trasmutata in fiera come io ho fatto loro››), né confermare però le parole di Ulisse, perché ciò renderebbe vani i suoi tentativi di comprendere la natura. Ulisse è un semplice essere umano, superiore ad altri per astuzia e intelletto, mentre Circe è una dea, oltre che una maga, per cui svelargli i segreti del cosmo sarebbe come portarlo a un livello divino, superare insomma le colonne d’Ercole.

 

Il secondo brano proposto è tratto dal dialogo quinto, che vede protagonisti Ulisse e la cerva; l’animale rivela al greco che prima di essere tramutata da Circe era una donna e quest’incontro diviene così un’occasione, per Gelli, di riflettere sul ruolo del sesso femminile nella società.

 

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Di fronte alle parole misogine di Ulisse, la cerva argomenta spiegando come non sia il ritornare umana a rappresentare un problema: è il ritorno alla natura femminile che la blocca e alla quale preferisce la condizione di bestia. Nonostante Ulisse continui ad accusare le donne di “cicalare”, cioè parlare a sproposito e senza pensare, che secondo l’eroe sarebbe il principale difetto femminile, a ben diritto la cerva risponde che di fronte alla condizione femminile, dove le fanciulle sono tenute ‹‹per stiave e per serve, e non per compagne››, che altro rimarrebbe loro da fare?

Tutto questo quinto dialogo si caratterizza per il botta e risposta tra i due personaggi, entrambi fermi nella loro opinione fino alla conclusione. Dialogo sicuramente singolare nel corpus dell’opera, che permette di instaurare un paragone invece con la condizione femminile di Circe, la quale, dea immortale, sceglie una vita ritirata e lontana dai fasti olimpici.

La maga nel dialogo gelliano appare tuttavia come poco più che una figura di contorno, un’elegante cornice all’interno della quale il filosofo fiorentino dipinge i suoi ragionamenti con gli animali-uomini, i veri protagonisti: Circe, dopo il dialogo con la cerva, comparirà soltanto un’ultima volta invitando Ulisse a tentare ancora di convincere qualche animale a ritornare uomo. Non c’è nulla né dell’antieroina che la tradizione omerica ci ha presentato né, ad esempio, della femme fatale amata dai pittori decadenti (solo per citare: Moreau, Waterhouse, Burne-Jones, Von Stuck).

 

Parte 2

Il testo cinquecentesco, come si indicava in apertura, può essere interrogato e attraverso il confronto con le pagine contemporanee di Madeline Miller, dove se nelle prime pagine Circe è una dea minore, umiliata dai genitori e dai fratelli, relegata senza prospettive future nella casa del potente padre Helios, con un evento inaspettato inizia a costruire il proprio mito personale di maga temuta e riverita. Osserva dall’isola di Eea con i suoi occhi attenti da rapace (la Miller propende per l’etimologia di Κίρκη come “falco o sparviero”[3]) le guerre dei titani e le sventure degli uomini. Dai tempi più antichi Circe incontra i grandi personaggi del mito greco, come Prometeo o la sorella Pasifae, passando per le generazioni più giovani, trovandosi così a dare consigli alla nipote Medea e all’amato Dedalo, fino all’incontro con Odisseo e le successive avventure di Telemaco e Telegono.

La Miller guarda a svariate fonti del mito, prendendo spunto dai poemi omerici, da Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, IV (per quanto riguarda la saga degli Argonauti e del fratello di Circe, Eete), ma anche da Euripide nella costruzione della figura della folle Medea, che ha in vero qualcosa anche della sete di sangue della versione senecana della maga di Corinto.

 

Il primo brano che verrà proposto è quella che si potrebbe considerare la presa di coscienza, da parte di Circe, della propria eccezionale condizione di maga, quindi non una semplice ninfa figlia di titani, ma un’arma potentissima in grado di intimorire persino Zeus ed Helios. Circe, dopo aver prima trasformato in un dio marino, grazie ad alcune erbe magiche, l’amato Glauco, in precedenza mortale e umile pescatore, decide di vendicarsi di quest’ultimo per essersi innamorato della bella ninfa Scilla, che diviene un mostro sanguinario.

 

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Non tutti gli dèi devono per forza essere uguali. Questa è la tremenda sentenza a cui arriva Circe, che sulla scorta dello zio Prometeo, inizia a comprendere che mortali e uomini sono fatti della stessa pasta e che le differenze stanno piuttosto nelle scelte che si compiono. Con coraggio la giovane maga rivela al padre ciò che ha fatto, insistendo sull’anomalia delle trasformazioni e sui poteri dei pharmaka, ma davanti all’incredulità e alla crudeltà di Helios, cede in ginocchio. Mentre Circe è immersa tra i dubbi riguardo la sua esistenza e i suoi poteri, giunge il fratello Eete, che rivela alla sorella e al padre di come lui stesso abbia compiuto magie e trasformazioni nel suo regno, così come Pasifae a Creta e Perse a Babilonia. Davanti a una dimostrazione dei poteri di Eete, Helios rimane in silenzio, pensieroso e in preda al timore, deliberando poi di dover decidere come agire in accordo con Zeus. E’ qui che Eete rivela a Circe la sua condizione di pharmakis, di maga.

 

Il secondo estratto dal testo della Miller presenta il fatidico incontro tra una Circe matura, temuta e rinomata strega, e Odisseo, giunto con il suo equipaggio dopo numerosi viaggi.

 

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Circe diffida dei marinai che si approcciano alla sua isola, dopo aver subito secoli prima uno stupro da parte di uomini, che la maga ha poi tramutato in porci, grazie ai suoi pharmaka. Da quel triste episodio il porcile della strega è sempre ricolmo di sfortunati naviganti, che ammaliati dalle bellezze di Eea, divengono, dopo aver bevuto e mangiato, vittima di terribili sortilegi. Questo è ciò che avviene ai compagni di Odisseo. Tuttavia alcuni uomini erano saggiamente rimasti sulla spiaggia, e così il loro capitano si presenta dopo essere stato avvertito alle porte della dimora di Circe. In seguito a una diplomatica quanto strategica discussione, Odisseo si rivela come il principe di Itaca, discendente di Hermes. Quest’ultimo aveva avvertito l’eroe greco dei pericoli di Eea e di come l’incantesimo di trasformazione potesse essere arginato tenendo vicino a sé il mòli, la radice nera che cresce sulla stessa isola. A sorpresa Circe propone a Odisseo una soluzione, cioè di trovare un compromesso nell’amore carnale: il principe deporrà le piante magiche fidandosi della strega e quest’ultima giura sullo Stige che non alzerà un dito sull’uomo. Da quel momento diverranno amanti appassionati, fino alla partenza di Odisseo, dopo la quale Circe scopre di aspettare Telegono.

 

In conclusione risulta evidente come la percezione della figura di Circe sia mutata nel corso dei secoli e di come ogni cultura abbia fatto proprio il celebre personaggio omerico e lo abbia raccontato secondo le proprie esigenze. La stessa grande letteratura augustea vede Circe in due modi contrapposti: ‹‹risulta chiaro l’aspetto paradossale della fortuna che toccò a Circe nel mondo latino. Da un lato ci si presenta una Circe sensuale, perfida e perversa, antipatica e a volte addirittura ripugnante ; dall'altro ci si fa avanti una Circe che per poco non diviene addirittura capostipite dei Romani.››[4] Se per Giovanni Battista Gelli, campione della cultura ducale medicea, la maga di Eea non è che un’occasione, un gioco colto e letterario, di mostrare, secondo un gusto manieristico, un’isola dove la differenza tra uomo e animale è tanto sottile quanto marcata, e come la condizione umana stessa diventi un terribile quesito davanti a un possibile ritorno alla condizione di natura; per Madeline Miller Circe diventa un’icona femminista, un’eroina che come tante altre donne, ha dovuto affrontare percorsi ardui per vedere riconosciuti i propri diritti di figlia, di donna e poi di madre. Quasi cinque secoli separano i due autori, anche se il serbatoio da cui attingono è il medesimo, declinato in modo così differente. Questo dualismo non è che un esempio delle tante strade che il personaggio di Circe, e non solo per quanto riguarda la letteratura, può percorrere e di come la tradizione classica e la sua storia siano una luminosa possibilità di proporre una rilettura dei classici, senza per questo svilirli o attualizzarli in modo fuorviante.

 

Bibliografia

Opere di -Giovan Battista Gelli, UTET, 1968, Torino

M. Miller, Circe, Marsilio – Universale Economica Feltrinelli, 2018, Cles

C. Cassiani, Metamorfosi e conoscenza. I dialoghi e le commedie di Giovan Battista Gelli, Bulzoni Editore, 2006, Roma

E. S. Hatzantonis, Le amare fortune di Circe nella letteratura latina, in Latomus, 1971, Société d'Études Latines de Bruxelles

G. Pasquali, Circe, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1931, Roma

 


[1] ‹‹Ovidio è colui che, fra tutti gli scrittori dell'antichità, tratta di essa più largamente. A giudicare dal numero dei riferimenti ad essa nelle opere del ciclo elegiaco e nelle Metamorfosi , appare evidente che Ovidio aveva una speciale predilezione per l'incantatrice odisseica.››, E. S. Hatzantonis, Le amare fortune di Circe nella letteratura latina, in «Latomus», Société d'Études Latines de Bruxelles, 1971, p. 13.

[2] C. Cassiani, Metamorfosi e conoscenza. I dialoghi e le commedie di Giovan Battista Gelli, Bulzoni Editore, Roma, 2006 p. 104.

[3] M. Miller, Circe, Marsilio – Universale Economica Feltrinelli, 2018, Cles, p. 12

[4] Hatzantonis, Le amare fortune di Circe, p. 21

 

 

28 ottobre 2022