Francesco Gallina - «Per forza d’incantamento»: maghi e indovini nella novellistica toscana tardogotica

Un percorso didattico per i licei

Premessa

 

Se i grandi classici rappresentano da sempre le imprescindibili colonne portanti di ogni curricolo letterario, occorre chiedersi se, nei limiti temporali concessi dal peculiare contesto scolastico, il Canone possa ammettere scorci sul cosiddetto mondo dei “minori”, dove per “minore” si intende una categoria limitante, soggetta a un marchio svilente da cui sarebbe opportuno liberarsi, onde affrancare la Letteratura italiana da convenzioni eccessivamente claustrofobiche e offrire una panoramica della storia letteraria meno frammentaria e più organica. Ché se è vero che i classici dettano e fondano motivi, temi e strutture di lungo corso, è altrettanto vero che essi stessi non esisterebbero come li conosciamo senza un retroterra storico, socio-antropologico e letterario adeguatamente coltivato in precedenza da una fitta schiera di autori che sfuggono alle antologie o sono in queste costipati entro condensati paragrafetti. Parecchi potrebbero essere gli esempi apportati a favore di questa tesi: si pensi, in questo contesto, allo studio del Quattrocento nella scuola italiana, forse ancora oggi troppo avvinghiato allo stigma crociano che ne faceva il “secolo senza poesia”, ma che invece è risaputo essere campo fertile di poesia cortigiana e popolareggiante alla quale si abbeverano un Boiardo, un Poliziano o un Ariosto.

Un discorso particolarmente complesso, poi, investe la novellistica, che, differentemente dalla lirica e dal romanzo, contempla, in quel che resta degli antichi programmi scolastici, un pindarico salto temporale che va dal Boccaccio al Verga, dalla terza alla quinta passando (non sempre) attraverso il Belfagor arcidiavolo di Machiavelli e il Lo cunto de li cunti di Basile, non dando invece una pur minima continuità che il macrogenere meriterebbe. I programmi scolastici, però, sono solo un ricordo, ora che le Indicazioni nazionali costituiscono, per l’appunto, indicazioni all’insegna della flessibilità, non prescrivendo più in modo impositivo l’oggetto e il contenuto delle singole programmazioni, di modo da garantire una libertà d’azione che non significhi anarchia, quanto semmai un auspicabile arricchimento della disciplina, sgusciando fuori dai rigidi compartimenti stagni che la classica letteratura “per autori” inevitabilmente implica.

Il percorso didattico che qui si propone prende le mosse da un autore e un’opera noti solo agli specialisti: il Paradiso degli Alberti di Giovanni Gherardi da Prato, originalissimo frutto letterario risalente al secondo quarto del Quattrocento, in equilibrio fra tradizione trecentesca e nuovi impulsi umanistici.

Benché Il Paradiso degli Alberti non possa essere ridotto a una pura raccolta novellistica – vista l’espansione abnorme della cornice rispetto alle appena nove novelle che lo compongono – è pur vero che le sue novelle si interrelano con la coeva galassia di novellieri di area toscana, quali Franco Sacchetti, Giovanni Sercambi, Ser Giovanni Fiorentino e lo pseudo-Gentile Sermini, non dimenticando La novella del Grasso legnaiuolo, spicciolata di enorme successo.

Senza alcuna ambizione di esaustività, il seguente contributo suggerisce letture alle quali le antologie danno spazio solo di rado, riducendo questi nomi, con le loro corrispettive opere, a “minimi”.

Sono variegate le prospettive secondo le quali indagare questi novellieri: da come viene rimodulata la “cornice” rispetto al Decameron, al rapporto fra l’onnipresente modello boccacciano e le scritture o riscritture degli epigoni.

Proponiamo invece un approccio tematico. E tra i tanti temi possibili scegliamo la figura del mago-indovino e delle sue subdole arti.

 

Destinatari del percorso: studenti di una classe Terza liceale

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Fluido e magmatico è lo statuto ontologico della magia nel Medioevo, oscillando fra scienza, medicina e astrologia, profezia e religione, sacro e profano, razionalità e ciarlataneria, erudizione e folklore.

La novellistica toscana fra Tre e Quattrocento si rivela un fondo pozzo dal quale estrapolare informazioni relative alle figure del mago e dell’indovino che, dopo aver scontato la tremenda condanna dantesca nel Canto XX dell’Inferno, già nel Decameron affiorano in un contesto molto più terreno e soggetto, solitamente, alla beffa, alla burla e al riso.

Partendo “di diritto” da Boccaccio, non possiamo non pensare ai più o meno larvati strali contro la Chiesa del tempo, quella rappresentata da chi usa spregiudicatamente malie e sortilegi per raggiungere scopi che nulla hanno da spartire con il messaggio cristiano. Così, in Dec. III, 8 un abate spedisce solo apparentemente all’aldilà il gelosissimo Ferondo – somministrandogli una «polvere di maravigliosa virtù», – per poter godere di sua moglie e, finito l’effetto del narcotico, far credere alla donna di riportare il marito in vita. Allo stesso modo, in Dec. VII, 3, frate Rinaldo, dopo aver copulato con Agnesa, all’arrivo del marito di lei si fa trovare in abito fratesco giustificando la sua presenza nella camera della donna, al fine di liberare il figlio della coppia dai vermi che avrebbe in corpo (è il cosiddetto “incantesimo dei vermi”, diffusa pratica magica di origine popolare):

 

Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, gli quali gli s’appressano al cuore e ucciderebbolo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io gl’incanterò e farogli morir tutti, e innanzi che io mi parta di qui voi vederete il fanciul sano come voi vedeste mai.

 

Chi non dovrebbe usufruire della magia – a dire il vero magia fasulla e solo “scenografica” – è il primo, dunque, a farne largo uso. In Dec. IX, 10, lo attesta anche don Gianni di Barolo di Barletta, che, ospitato da Pietro da Tresanti, rivela di essere in grado di trasformare le cavalle in zitelle e viceversa, così da convincere comare Gemmata, sposa di Pietro, a farsi mutare in cavalla per accrescere le economie del marito; non fosse che l’incantesimo si rivela una palese truffa per copulare con la donna e dare vita, sul piano squisitamente narrativo, a un fitto intreccio di doppi sensi (che la scuola contemporanea si spera non dover più censurare per moralistica pudicizia).

Fuori dall’ambito ecclesiale si colloca il “ciclo” di Bruno e Buffalmacco dove la magia, ancora una volta, funge da pretesto per canzonare i malcapitati. Se nella celeberrima novella di Calandrino e l’elitropia (Dec. VIII, 3) ci si limita a sfruttare il potere portentoso dell’elitropia per dare avvio alla macchina comica, in Dec. IX, 5, si consiglia a Calandrino di procurarsi gli ingredienti di una pseudo-pozione per garantirgli l’amore di Niccolosa e, in verità, scatenargli contro le ire della moglie Tessa.

 

Link - Giovanni Boccaccio, Decameron -  IX, 5

 

Da segnalare, contestualmente, il motivo del «brieve», bigliettino contenente scritte o formule a carattere magico-superstizioso, come si legge, ad esempio, negli Statuti dei lanaiuoli di Siena del 1298:

 

molti peccati s’ingenarano e si fanno, e molte mali oppinioni ne nascono nelli animi delli uomini e de le femine per cagione de’ brevi e di scripture che si fanno ne carte non nate: unde, acciò che sieno tolte via le mali oppinioni e i peccati che per ciò s’ingenarano, statuimo et ordinamo che neuno  sottoposto dell’Arte de la Lana possa né debbia fare, né far fare, né véndare alcuna carta non nata […].

 

A un vero mago fanno riferimento Bruno e Buffalmacco in Dec. VIII, 9: si tratta di Michele Scoto, indovino e astrologo che, scrive Dante (Inf. XX, 116-117), «veramente / de le magiche frode seppe ’l gioco». Filosofo, matematico e astrologo, lo Scoto è uno spirito cosmopolita, fra Parigi (la città dalla quale il vendicativo scolare di Dec. VIII, 7 finge di aver imparato «nigromantia»), Oxford, Toledo e la corte siciliana di Federico II. Intellettuale a tutto tondo, è noto tanto per le sue profezie quanto per i suoi importanti contributi alla diffusione del pensiero averroista in Occidente. Un nome significativo, nell’ambito della magia, che ritroveremo fra poco. Tornando alla presente novella, assistiamo alla beffa ordita alle spalle di maestro Simone medico, tanto colto in apparenza quanto sciocco e credulone all’atto pratico (tanto da meritarsi il soprannome di «Scimmione») a cui si fa credere dell’esistenza di una segreta setta “libertina” fondata proprio dal negromante scozzese:

 

“Dovete adunque,” disse Bruno “maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu un gran maestro in nigromantia il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de’ quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, a instanzia de’ prieghi loro ci lasciò due suoi sufficienti discepoli, a’ quali impose che a ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l’aveano, fossero sempre presti. Costoro adunque servivano i predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d'altre cosette liberamente; poi, piacendo loro la città e i costumi degli uomini, ci si disposero a voler sempre stare e preserci di grandi e di strette amistà con alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non gentili o più ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi a’ lor costumi. E per compiacere a questi così fatti loro amici ordinarono una brigata forse di venticinque uomini, li quali due volte almeno il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato: e quivi essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, e essi prestamente per quella notte il forniscono.

 

Proprio la presenza di Michele Scoto offre l’opportunità per parlare di magia vera all’interno del Decameron. Il nostro itinerario allora non può prescindere da due novelle, la lettura integrale delle quali potrebbe costituire il principio della nostra unità didattica.

La decima giornata, dedicata ai modelli di magnanimità, offre due esempi di grande interesse.

Nella novella quinta ambientata a Udine nel freddo mese di gennaio, Madonna Dianora, moglie di Gilberto, decide di liberarsi dello spasimante Ansaldo Gradense promettendo di donargli il suo amore solo se questi avesse fatto fiorire il suo giardino in pieno inverno. Prendendola in parola, Ansaldo va alla strenua ricerca di qualcuno che con «arte nigromantica» possa realizzare concretamente «un giardino di gennaio bello come di maggio». Il negromante, pattuita una lauta somma di denaro, dà vita a un locus amoenus «pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse». Un paradeisos artificioso, ingannevole, eppur frutto di una vicenda amorosa che può sciogliersi felicemente solo attraverso la triplice magnanimità: di Gilberto, che venuto a conoscenza del fatto, concede alla moglie di unirsi ad Ansaldo; di Ansaldo che, appurata la generosità di Gilberto, rinuncia alla propria profferta; del negromante assoldato dal giovane che rifiuta il suo obolo. Quasi una fiaba, che, non dimentichiamo, affonda le proprie radici nella quarta questione del Filocolo, qualora si volesse aprire – in un secondo momento – una parentesi sulle opere “minori” del Certaldese, da esplorare in questo caso attraverso un modello di perfetta intertestualità all’interno dell’universo boccacciano.

La seconda, e ultima, novella a tema è la nona, il cui co-protagonista, Saladino, viaggiando in incognito in Occidente in vesti mercantesche, incontra sul cammino messer Torello di Strà da Pavia, che lo ospita, in pompa magna, nella sua villa, dandogli mostra delle proprie abilità nell’arte della falconeria. Dopo qualche tempo, Torello parte per la crociata e si fa promettere dalla moglie Adaieta che, qualora ricevesse notizia della sua morte, non dovrebbe risposarsi prima di un anno, un mese e un giorno. Imprigionato dai saraceni, Torello viene condotto ad Alessandria dove Saladino lo assume in qualità di falconiere. Nel frattempo, naufraga la nave sulla quale si trova l’ambasciatore a cui Torello ha affidato una lettera da consegnare alla moglie e si diffonde la notizia della sua morte. L’uomo, memore della promessa strappata, ottiene dal Saladino il permesso di rientrare a Pavia: convocato un negromante di corte, viene preparata una pozione che permette a Torello di addormentarsi e volare su un letto nella sua Pavia, nel bel mezzo della Basilica di San Pietro in Ciel d’Or, ricompensato così della sua stessa nobiltà d’animo nei confronti del sultano:

 

Ma essendo già tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e affrettandolo, venne un medico con un beveraggio e, fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere; né stette guari che adormentato fu. E così dormendo, fu portato per comandamento del Saladino in su il bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona pose di gran valore e sì la segnò, che apertamente fu poi compreso quella dal Saladino alla donna di messer Torello esser mandata. Appresso mise in dito a messer Torello uno anello nel quale era legato un carbuncolo tanto lucente, che un torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere il cui guernimento non si saria di leggieri apprezzato; e oltre a questo un fermaglio gli fé davanti appiccare nel quale erano perle mai simili non vedute con altre care pietre assai; e poi da ciascun de' lati di lui due grandissimi bacin d’oro pieni di dobre fé porre, e molte reti di perle e anella e cinture e altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece metter da torno. E questo fatto, da capo basciò messer Torello e al nigromante disse che si spedisse; per che incontanente in presenzia del Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, e il Saladino co’ suoi baroni di lui ragionando si rimase.

 

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 Improntate a un brillante realismo e a una poetica dell’esemplarità sono le 253 novelle di Franco Sacchetti, che recupera, ad esempio, il motivo del «brieve» nella novella CCXVIII, per avere il quale una donna paga un ebreo affinché suo figlio, nano, riprenda a crescere. Ecco le prescrizioni del giudeo:

 

– Madonna, non sanza gran fatica io ho fatto questo brieve, il quale appiccherò al collo a questo vostro figliuolo; e terrallo nove dì e nove notti; e in capo di nove dì lo menerete al prete e alla chiesa del vostro populo, dicendo che lo discioglia e legga inanzi al populo e faccia quello che dice; e vedrete grande sperienza del crescere che avrà fatto.

 

Il brieve recita la solita pseudo-formula magica, di alcuna efficacia: «Sali su un toppo / E serai grande troppo; / Se tu mi giugni, / il cul mi pugni»; si dà per scontato, infatti, che se si colloca su un ceppo il ragazzino, questo è naturale che sia più alto rispetto a quand’è a terra, senza che però ne sia favorita la reale crescita. Una vicenda che, come molte altre, non solo rimpingua la polemica antigiudaica propria di Sacchetti, ma anche e soprattutto quella contro la creduloneria popolare. La voce moralistica del narratore non si fa mancare nella chiusa della novella:

 

Quanto è nuova cosa questo aventarsi nell’opere de’ iudei! Che molte volte interviene che si crederrà più tosto a uno iudeo che a mille cristiani: benché i cristiani sono oggi sì tristi, e con sì poca fede, che abbiansene il danno. E anco non so dove manchi più la fede, o ne l’uno o ne l’altro. Credo io che, qual femina va caendo brievi per volere fare una creatura grande che Dio ha voluto far piccola, doverrebbe ringraziare Dio di ciò che fa; e se altro volesse da Lui, con l’orazioni umilmente pregarlo, se ’l meglio dovesse essere, essaudisse i suoi prieghi: e tenersi otto fiorini in borsa e non gli dare a’ iudei.

 

Una rampogna, che riecheggia quella della novella precedente, la CCXVII, in cui un frate dell’ordine degli Ospedalieri di Altopascio produce un «brieve» in sottile pergamena di capretto che permetterebbe a una donna di partorire senza doglie.

 

Link - Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle - CCXVII

 

Una palese condanna della magia si rintraccia nella novella CLI, dove il «grandissimo astronomaco» (deformazione canzonatoria per ‘astronomo’) Fazio da Pisa altri non è che un ciarlatano verso il quale lo stesso Sacchetti narratore/personaggio ha gioco facile nel dimostrare che vada astrologando, quando invece non ha coscienza alcuna dei più elementari rudimenti della realtà quotidiana, come può essere il numero dei noccioli di una nespola, cosicché

 

tutti quelli che vanno tralunando, stando la notte su’ tetti come le gatte, hanno tanto gli occhi al cielo che perdono la terra, essendo sempre poveri in canna. Or così co’ miei nuovi argomenti confusi Fazio pisano.

 

Con Giovanni Sercambi ci spostiamo dalla civitas florentina alla signoria lucchese dei Guinigi; di qui la rimodulazione della cornice decameroniana a scopi ideologico-propagandistici. Se Sacchetti scarnifica il corpus della cornice, Sercambi ne recupera lo spirito, con una brigata di uomini e donne che, per sfuggire alla fittizia peste del 1374, compie un viaggio lungo la penisola affidandosi alla guida di Aluisi, «eccellentissimo omo e gran ricco» dietro il quale si intravede la figura del signore e protettore Paolo Guinigi. Permane evidente, tanto in Sacchetti quanto in Sercambi, il gusto per l’aneddotica e la poetica dell’esemplarità. 

Più di una novella è a tema magico, ma per il nostro percorso due rivestono un particolare interesse.

La CXXVI (De tradimento facto per monacum) ci riporta a Dec. III, 8, perché ne è una riscrittura: l’abate Marsilio, attraverso l’uso di «polvere oppiata» convince Camilla che è possibile guarire il marito Gallisone dalla sua gelosia, spedendolo all’aldilà. Il fine dell’abate, ovviamente, è prendersi il tempo per giacere a letto con la donna e, quando l’effetto del narcotico viene meno, fingere di trarre l’uomo dal Purgatorio e riportarlo in vita:

 

Risentitosi Gallisone e vedendosi al buio vestito a modo di monaco, disse: “U’ sono io?” Il monaco rispondendo: “Tu se’ in purgatoro”, Galissone dice: “Donqua sono morto?” Il monaco dice: “Sì”. Galissone incominciando a piangere che avea lassata Camilla, dicendo le più nuove cose del mondo; e non avendo molto mangiato, lo monaco ne li portò. Galissone disse: “Or mangiano e’ morti?” Lo monaco disse: “E’ mangiano quello che altri dà per l’amor di Dio; e pertanto questo che io t’arego è quello che stamane la donna tua mandò alla chiesa per l’anima tua”. Galissone disse: “Domine, dàlli buona ventura, che tanto bene m’ha fatto! E ben si pare che si ricorda quando io la tenea in braccio e baciavala sì saporosamente!” E per volontà di mangiare, mangiò e bevé.

 

Dalle tinte cupe è la novella XXII (De falsario), in cui l’ebreo Giuda d’Ascoli – ancora una volta stereotipo del giudeo perfido impostore – simula «per arte di strologia» di individuare il punto in cui, scavando, il contadino Turello può trovare una pietra di nessun valore – sotterrata in precedenza dallo stesso truffatore – spacciandogliela per oro massiccio e ricevendo da lui in cambio quattrocento fiorini (quelli, sì, veri). Solo dopo essersi accorto d’essere stato derubato, Turello, in preda alla follia, si suicida. Nel frattempo, in quel di Siena, Giuda, facendosi chiamare Zaccagna, progetta di gabbare il ricco Pitullo riproponendo lo stesso inganno, leggermente variato: al posto di una pietra, sotterra dell’ocra venata di colore dorato per la presenza di solfuro di arsenico, facendola passare, ancora, per pietra preziosa, ma, questa volta, smascherato, viene consegnato al podestà e condannato al rogo (così come i falsari Ghisello da Recanati nella XXIII e Fiordo nella LXXXXI).

 

Link - Giovanni Sercambi, Novelle - De falsario

 

 Alla proverbiale avarizia di Licinio Crasso, già presente nel Libro dei sette Savi di Roma, si riferisce la prima novella della quinta giornata del Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino, raccolta di storie narrate da suor Saturnina e dal suo amante Auretto. Protagonisti sono i veliterni Chello e Giano, partiti “in missione” per giocare un brutto scherzo all’avido romano e recare danno, alfine, a lui e a Roma, città loro nemica. Assicurando il Consiglio di Velletri della bontà del proprio piano, i due uomini si mettono in viaggio, ma prima di indirizzarsi verso la capitale raggiungono via mare Pisa, dove

 

vestironsi con nuovi abiti, e con barbe ed erbe si trasfigurarono, che persona del mondo li arebbe mai conosciuti; e tolsero due famigli e dissero loro: “Se nessuno vi domandasse chi noi siamo, dite loro che noi siamo indovini, che vegniano di strani paesi e andiamo a Roma”.

 

 Senza più sostare altrove, eccoli a Roma, dove vengono ritratti mentre, divertiti, disseminano per tutta la città diverse quantità dei fiorini ricevuti in prestito (riproponendo il motivo del sotterramento preliminare della novella di Giuda esaminata più sopra), fino al momento in cui si presentano al cospetto di Crasso: «Noi siamo da Tolletta e sappiamo indovinare e trovare danari dove che fossero sotterra»; laddove Toledo (Tolletta), nel tardo Medioevo, è città circonfusa da un’aura di magia ed esoterismo, non fosse per la cosiddetta “Scuola dei traduttori” che da lì diffondono e divulgano – come già aveva fatto Michele Scoto – opere di astrologia e astronomia di area islamica.

Solleticando l’insaziabile bramosia di denaro, Chello e Giano riescono nel tentativo di far cadere il romano nella loro trappola quando una notte, fingendo di «misurare e squadrare il cielo», rivelano che, seguendo il corso di una stella, saranno in grado di portare alla luce nuove ricchezze (le stesse da loro nascoste). Esterrefatto dalle prime scoperte e schiavo della propria avidità, Crasso permette a Chello e a Giano di mettere Roma a soqquadro per estrapolare tutte le monete. Così, una volta sfasciato il «palazzo maggiore», tocca alla torre del tribuno al Campidoglio che, dopo essere stata sradicata, viene manipolata affinché il giorno dopo, quando i due falsi indovini si sono già dati alla fuga, crolli rovinosamente a terra causando molte morti e riversando gli odi su Crasso che, per questo, viene ucciso.

Concludiamo il nostro percorso con Giovanni Gherardi da Prato, Giano bifronte fra istanze culturali trecentesche e nuovi afflati umanistici, la cui opera, complessa, articolata, densa di molteplici risvolti enciclopedici, politico-filosofici e teologici, offre ben tre novelle caratterizzate dal tema magico, variamente declinato: la prima, dai toni fiabeschi, è dedicata a Melissa, fanciulla trasformata in sparviere; l’ottava vede una giovane donna ricorrere per amore alla magia rivolgendosi a una strega poi condannata al rogo; la seconda, sulla quale ci concentriamo, vede protagonisti Michele Scoto e Messer Olfo, paladino alla lussureggiante corte di Sicilia, intenta a celebrare il Battista.

Gli effetti strabilianti e diabolici della magia sono presenti fin dall’ingresso dello Scoto, che scatena una bufera:

 

  cominciò l’aiere tutto a muoversi e a ventillare e piacevolemente a tonare e nuvoli aparire e prestamente crescere, cominciando a piovere gocciole grandi oltra modo vedute e rade, seguitando dapoi zufoloni di vento, aqua e grandine tanto furiosa e abondante con corruscazioni ispaventevoli oltre a ogni modo usato e per sí fatta forma e maniera che, in uno punto tutti loro parendo ardere insieme co·lli edifici reali, la vista perdieno. Il perché fuggendo chi in uno luogo e chi in uno altro, istupidi, attoniti, tremoli e spaventati, tutti misericordia chiamando […].

 

Dimostrata a tutti la potenza insita nei negromantici sortilegi, lo Scoto invita il cavaliere a seguirlo su di una galea, diretta verso una terra lontana e anonima, dove, nell’arco di vent’anni, fonderà un regno, diventerà marito e padre. Finché un giorno, Scoto riappare convincendo Olfo a fare ritorno nella sua patria. Solo allora il paladino scoprirà che i vent’anni vissuti sono stati solo un’atroce illusione: la corte, infatti, gli appare identica a come l’aveva lasciata, con i festeggiamenti ancora in corso. Il regno, la potenza, la sua famiglia si rivelano un miraggio. Non gli resta allora che abbandonarsi alla disperazione:

 

– O isventurato a mme, dove fia il mio Michele? Arò io perduto in uno punto tanto bene aquistato già xx anni? O benedetto mio figliuolo, o graziosa mia sposa, o fedelissimi miei cittadini, quando voi rivedrò? Se io me riputai felice, o come infelicissimo mi veggio, tanto bene, tanta glora, tanto fertile e richissimo regno avere lasciato e perduto! Questo non mi credea che riserbato m’avesse la mia mala fortuna!

 

La novella, riscrittura di Novellino XXI, è una delle migliori fra quelle proposte nel Paradiso degli Alberti e rielabora e risemantizza ampiamente due motivi trasversali della letteratura mondiale, ovverosia quelli del “tempo fallace” e dell’“illusione infranta per ingratitudine”, strettamente connessi al tema magico che con Scoto e Olfo viene investito di una rinnovata dimensione psicologica che dà particolare rilievo alla malinconica follia, così come recentemente riscritta e interpretata da Gianni Celati nella Novella di due maghi e d’un barone perso nei pensieri:

Questo caso produsse molta meraviglia, anche in chi sapeva quanto fosse stralunata la sua illusione, e l’imperatore, vedendo che non poteva trarre messer Olfo da quelle ossessioni, fece cercare Michele e il suo compagno, ma senza poterli rintracciare, per cui rimase dispiaciuto e stranito. E dando termine alla sua festa, non riuscì più a sottrarre messer Olfo da quei suoi pensieri: rimanendo afflitto per la perdita del suo barone, il più lieto e sollazzevole che avesse avuto alla sua corte. Il novellatore sostiene che tutto questo sia forza delle illusioni diaboliche, mentre potrebbe essere una navicella senza remi e senza vele che va col pensiero alla deriva.

 

CENNI BIBLIOGRAFICI

Giovanni Boccaccio, Decameron, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1976, vol. IV.

Giovanni Gherardi, Il Paradiso degli Alberti, a cura di Antonio Lanza, Roma, Salerno Editrice, 1975.

Giovanni Gherardi (riscritto da Gianni Celati), Novella di due maghi e di un barone perso nei pensieri, in Novelle stralunate dopo Boccaccio. Riscrit­te nell’italiano d’oggi, a cura di Elisabetta Menetti, Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 63-73.

Giovanni Sercambi, Novelle, a cura di Giovanni Sinicropi, Firenze, Le Lettere, 1995, 2 voll.

Pseudo Gentile Sermini, Novelle, ed. critica con commento a cura di Monica Marchi, Pisa, ETS, 2012.

Ser Giovanni, Il Pecorone. In appendice i Sonetti di donne antiche innamorate, del ms. II, II, 40 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, a cura di Enzo Esposito, Ravenna, Longo, 1974.

Antonio Manetti, La novella del grasso legnaiuolo, a cura di Salvatore Silvano Nigro e Salvatore Grassia; introduzione di Salvatore Silvano Nigro, note e apparati critici di Salvatore Grassia, Milano, Bur, 2015.

Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV e pubblicati secondo i testi del R. Archivio di Stato in Siena, per cura di Filippo-Luigi Polidori, Bologna, Romagnoli, 1863-1877.

 

6 ottobre 2020